Anelli
di Vittoria Baruffaldi
(una rilettura del saggio “Della seduzione” di Jean Baudrillard)
Viene alla mia scrivania e appoggia le mani sui fogli sparsi: sono mani con anelli d’argento. Io metto la mia mano sinistra, tutta d’oro – dall’indice all’anulare -, accanto alle sue. È la cosa più stupida di tutte questa delle mani d’argento e d’oro vicine.
La seduzione procede così, prima per gradi – per accenni lenti -, e poi tutta di un colpo.
– Hai ricevuto quella mail? – mi chiede.
– No, – dico agli anelli d’argento.
– Allora vado, avvertimi se ti rispondono.
Fa per andarsene, ma non se ne va: rimane sulla soglia, tra me e una normale giornata d’ufficio. Prende tempo, perde tempo; rallenta il tempo.
– Facciamo due passi?
– E dove andiamo?
– Non lo so.
Abbiamo iniziato a fare due quattro cento passi ogni giorno, l’atto più lento che esista: dilatare la strada, non avere una meta; fare spazio alle seduzione. Camminiamo sotto i portici, lunghe occhiaie buie, e in riva al fiume da cui sale una nebbiolina che confonde le nostre figure. Evitiamo la luce, la gente, l’evidenza. Evitiamo anche di parlare perché non abbiamo niente da dirci. Le affinità, reali o presunte, non servono a nulla: non dobbiamo andare da nessuna parte.
Siamo già andati da qualche parte e là ci siamo fermati. Io sto dalla parte delle donne sistemate, ben sistemate, non ho problemi di soldi né di chili in eccesso e neppure di mariti, figli e colf: li possiedo già tutti, ubbidienti, gentili, affettuosi a tratti. Lui anche è sistemato, bene non saprei: potrebbe avere problemi di soldi e di colf, ma abita la sua vita senza livore, forse è persino felice.
Camminiamo senza andare da nessuna parte, eppure sviamo dall’eccesso di realtà delle nostre vite, le bollette, i baci distratti, lo sciroppo per la tosse dei bambini. È un’illusione, un gioco illusionistico, lento e ambiguo, che crea un effetto flou, morbido, sulle nostre persone, tra superficie e profondità, tra autentico e artificiale.
***
Abbiamo tra le mani il desiderio, e lo rimbalziamo l’uno contro l’altro affinché non si consumi, non si compia mai. È un gioco al rialzo, una sfida continua: io ti provoco e ti deludo, io ti seduco di più di quello che farai tu; nessuno è vincitore, non esiste un premio, una misera soddisfazione.
Quello che seduce è il rituale del gioco, l’artificialità dei nostri occhi obliqui, luccicosi, da civetta, dilatati, brodosi, serrati, da gatta, tutti i tipi di occhi possibili.
Io sono molto brava con gli occhi, punto la sveglia un’ora prima e me li trucco per bene. Sul tram faccio gli occhi luccicosi, accavallo le gambe e mi viene da ridere; faccio tutte le cose stupide necessarie a.
Arrivo in ufficio in anticipo, lui è già lì – un’abitudine della seduzione -, truccato con un maglione nuovo. La seduzione è mattiniera, si diverte sul limite della notte, tra il sogno e la veglia, quando ancora si può osare. Ci chiudiamo dentro un bar d’angolo a disfare la vita normale.
– A cosa stai pensando? – mi chiede.
Gli rivolgo un ultimo luccichio poi, d’improvviso, i miei occhi si svuotano di luce, di senso: è l’intermittenza – assenza presenza assenza presenza – che produce la fascinazione. Se trovaste su una porta un cartello che recita: “Questa porta si apre sul vuoto” resistereste alla tentazione di aprirla, chiede Baudrillard?
Così la apro, e gli rispondo che sto pensando ai cerchi di caffè su questo tavolino. Sfioro un cerchio, lui ne sfiora un altro: ora penso di nuovo agli anelli d’oro e d’argento.
***
Devo intervenire, a volte: la seduzione è in atto, ma ha bisogno di regole. Pochi sorrisi, poche informazioni scambiate, poca verità. Molti discorsi astratti, insensati, molti sguardi melò, molti artifici. Vanno bene anche le faccine su WhatsApp: sono faccine adolescenziali – faccina disgustata, faccina speranzosa, faccina che strizza l’occhio e manda il bacino -, di rottura rispetto alla vita normale.
Ha iniziato anche a sorridere, quando dico una sciocchezza o faccio gli occhi da gatta pazza, ed è brutto quando sorride: gli si accentua quel mento asburgico, da babbeo. Non mi piace quando sorride o quando è rilassato e dice cose ragionevoli: si sente in dovere di essere se stesso e offrirmi cose non richieste, cosa me ne faccio delle estati della sua infanzia e dei libri letti in lingua originale e di lui per com’è, cosa me ne faccio.
Dobbiamo essere chi non siamo, dobbiamo stare dove non stiamo, questa è la regola fondamentale della seduzione. Il bar è un non luogo – sarebbe più affascinante un aeroporto, ma noi abbiamo solo questo bar d’angolo, le persone vanno e vengono anche qua – e io e lui in attesa del nulla.
***
– Facciamo due passi? – mi chiede una sera.
Rispondo di sì agli occhi dilatati, e mi sento bellissima guardata così, come se fossi prossima a un traguardo che non esiste.
Camminiamo, finché lui non si blocca a fianco di una Fiat parcheggiata, il modello non l’ho riconosciuto ma le Fiat sì, le riconosco: hanno un’aria familiare e dimessa.
– Che fai, non sali?
– Su questa macchina?
– Sì, casa mia è lontana.
Dal finestrino della macchina guardo il centro scomparire: non ci sono più i portici o il fiume ma solo palazzoni illuminati. Tutto corre veloce, la Fiat, i palazzoni, anche io e lui: è il momento di quando accade tutto d’un colpo.
Arriviamo davanti al portone di uno di quei palazzoni, e poi su in un ascensore con la luce al neon; tengo lo sguardo basso. Siamo sulla soglia, l’ultimo luogo per provare a rallentare: fuori io e lui, dentro noi. E invece dentro non ci siamo solo noi: c’è un appartamento di nuova costruzione, coi doppi vetri, le maniglie satinate e listoni di parquet in rovere, come da capitolato. Un soggiorno con cucina a vista – gli odori della cena stagnanti -, un bagno con troppe piastrelle e uno di servizio, la stanza dei bambini. Vago, con la testa dentro quella casa. La camera matrimoniale, con una trapunta romantica sul letto e il servizio fotografico delle nozze su un tavolino. Avvicino il naso al vetro delle foto: lui non ha i suoi anelli, solo uno che gli dà una forma precisa. Tutta la casa gli dà forma. Maledetto, perché ha infranto la prima regola del gioco? L’essere indefinito, ambiguo, insolubile; gli avevo dipinto una bocca bellissima su quel mento sporgente, e delle mani bellissime con quegli anellini della bancarella indiana.
– Devo andare.
Faccio per andarmene ma non me ne vado: siamo di nuovo sulla soglia, io e lui, ci diciamo delle cose, poi mi strattona, mi vuole picchiare o baciare o tutte e due le cose.
Il mattino dopo prendo il solito tram, e poi strizzo roteo spalanco gli occhi ma luccicosi non mi vengono. Mi guardo la mano, quella luccica ancora con tutto quell’oro, perfetta. Poi lo vedo, incastrato tra oro e brillanti: un anellino triste, muto, un anellino d’argento.