Cenni sul paese più infelice del mondo
di Mauro Baldrati
(pubblichiamo l’incipit del romanzo di Mauro Baldrati “Il mio nome è Jimi Hendrix”, Edizioni Arianna)
In principio era palude.
Banchi di sabbie mobili e canali di acqua salmastra formavano un enorme acquitrino malarico che tutti evitavano come una pestilenza. Era il “Luogo di morte della carne e dello spirto” di cui vagheggiava Amedeo Loriani, il satrapo della Romagna dotta ottocentesca, nel tremolante (e purtroppo studiato a memoria nelle scuole) Cantico di campagna.
Eppure, in tempi antichi, un manipolo di fuggiaschi vi trovò un accogliente rifugio: trecento barbari venuti da est, braccati dalle legioni romane, si avventurarono nel “fango maledetto dagli dei”, dove i carri sprofondavano, e di loro si perse ogni traccia e memoria. Per la verità nel papiro conservato nell’ufficio del sindaco non vi sono riferimenti precisi, ma lui, il glorioso maestro Follicelli, l’instancabile ricercatore del nostro oscuro passato, giura che quei fatti si svolsero proprio qua, su questa terra emersa, dove ora i concittadini giocano a carte e a Mah-jong.
Il primo insediamento umano stabile risale al 1600. Un gruppo di prigionieri arabi fuggiti dalla Sicilia si addentrò nell’intrico di canali, e a nulla valsero i tentativi di stanarli. Alla fine il vescovo di Ferrara, in cambio di una professione di fede cristiana, concesse loro il diritto di abitarvi, purché si arruolassero nella legione di manovali che lo stato papalino stava reclutando. Un editto di Clemente VIII, infatti, ordinava l’avvio di quell’immane lavoro di bonifica già tentato dai duchi d’Este, dai Calcagnini e di cui si parla persino nelle antiche carte bizantine. Erano ladri, carcerati, prostitute, prigionieri di guerra, attirati dall’illusione di un impossibile riscatto sociale. Molti morirono, alcuni fuggirono nella vecchia vita dopo avere derubato i compagni, quasi tutti si ammalarono di malaria.
Nel 1740 i discendenti dei lavoranti e, pare, di popolazioni giunte dall’Albania, gettarono le fondamenta di un centro abitato sulle terre bonificate. Poiché sul muro di un magazzino costruito dai primi ergastolani era dipinta una falce di luna gialla, al paese venne dato il nome di Mezzaluna.
Mezzaluna, il paese più infelice del mondo.
La definizione è del mio amico Dennis. Avevamo appena letto “Storia e preistoria di Mezzaluna”, il libretto-culto pubblicato a cura del Comune dal nostro glorioso sindaco. Dennis era entusiasta. Quell’andirivieni caotico di pirati, barbari e malfattori lo metteva di buonumore. Ha steso davanti a sé le braccia coi pugni chiusi, per mettere in evidenza le vene: “Qui scorre cattivo sangue” ha detto, parafrasando il suo amato Rimbaud. “Siamo un miscuglio di razze inferiori. Stirpi tarate. I degni abitanti del paese più infelice del mondo.” E ridacchiava soddisfatto.
Mezzaluna è un paese a due piani. Di tre piani c’è qualche casa che sembra costruita per errore, di quattro solo il palazzaccio del comune. Le case sono tutte uguali, intonaci graffiati di colore grigio, verde muffa, azzurro smorto. Nessun abbellimento, nessun fronzolo. Sono raggruppate fitte in quartieri residenziali come tante conchiglie sulla schiena di una balena addormentata.
Anche gli alberi sono tutti bassi: frutteti, canneti, pochi pini o abeti spelacchiati nei cortili delle case. Quando un albero comincia a crescere e a distendere con fierezza i suoi rami viene immediatamente tagliato e sostituito con uno giovane. Gli abitanti di Mezzaluna – i mezzalunatici – amano il pulito, non sopportano tutte quelle foglie da spazzare in autunno. Gli unici alberi a cui è concessa l’età adulta sono le pioppe, torri solitarie nelle vaste spianate di grano e barbabietole che si perdono all’orizzonte. I grandi pioppi sono tollerati perché costituiscono i punti di sosta degli uccelli migratori. Esausti dopo avere sorvolato oceani e montagne, vengono abbattuti da decine di cacciatori, praticamente l’intera popolazione adulta maschile di Mezzaluna, nascosti dentro capannucce costruite con giunchi o teli mimetici militari (chiamano questi sterminii caccia a capannino).
In una di queste case-conchiglia a due piani, una villetta nel paese nuovo, cioè uno dei quartieri nati una decina d’anni fa sulla rive-gauche del fiume Lepre, ci sarei io.
Interessante. Sembra l’inizio di una storia rocambolesca, ma mi sembra di capire che il romanzo faccia parte della grande tradizione satirica italiana (che adoro). E forse poi la trama è davvero rocambolesca.