Roth scatenato
di Giovanni Dozzini
Dio ci salvi dalle biografie di scrittori. Tutto ciò che abbiamo amato, odiato, capito, frainteso, tutto ciò su cui abbiamo rimuginato, speculato, ciò su cui ci siamo illusi, ciò in cui abbiamo trovato ragioni sufficienti per continuare a vivere, ciò che ci ha reso inequivocabilmente felici, o spaventati, o disperati, tutto ciò capitatoci nel momento di leggere un qualsiasi romanzo di un qualsiasi scrittore non ha nessun legame con la vita condotta da qualsiasi scrittore del pianeta in qualsiasi momento della storia. Né nessuna necessità di averne. La letteratura ha bisogno solo di se stessa, e di occhi e cervelli per essere letta.
E Dio ci salvi dalla critica letteraria. Dalle pompose, autoreferenziali, petulanti analisi condotte da donne e uomini incapaci di ammettere la propria disarmante impotenza di fronte al mistero dell’arte e della scrittura.
O Dio ci conceda perlomeno di saper affrontare tutto ciò con consapevolezza e discernimento. Ecco, se vi sentite abbastanza sani da poter leggere quattrocento pagine colme di particolari biografici e bibliografici e affondi critici su uno dei più grandi romanzieri americani del ventesimo secolo, uno dei più grandi, in definitiva, di tutto il mondo e di tutti i tempi, senza rischiare di contaminare l’idea che vi siete fatti – leggendole – delle sue opere, allora non abbiate il timore di prendere in mano il libro di cui vi parlerò nelle prossime righe. Si intitola Roth scatenato (traduzione di Anna Rusconi, Einaudi), ed è un libro formidabilmente avvincente. L’ha scritto Claudia Roth Pierpont, del «New Yorker», nessun legame di sangue con l’uomo di genio oggetto del suo lungo e meticoloso racconto. Philip Milton Roth.
Uno scrittore e i suoi libri. Il sottotitolo è questo. Claudia Roth Pierpont spiega bene il senso dell’operazione nelle pagine introduttive: per qualche motivo una dozzina di anni fa Roth è diventato suo amico e confidente, per qualche motivo ha acconsentito a collaborare con lei, rivelandole aneddoti e pensieri e garantendole l’accesso alle proprie carte, mentre era intenta nella stesura di questo libro. «Questo libro parla dunque del mondo scritto di Roth, ma non è stato possibile scrivere di quel mondo senza immergersi anche nel mondo non scritto: la vita tanto spesso al servizio del lavoro». La Roth Pierpont è onesta, altroché. Qui c’è già tutto.
Naturalmente è sciocco confondere vita e opere di uno scrittore. Allo stesso modo, chiunque abbia letto almeno un paio di libri di Philip Roth riesce a percepire la centralità dell’esperienza reale, si potrebbe dire materiale, dell’autore nel frutto del suo ingegno. Insomma, quanto Roth c’è in Zuckerman, in Kepesh, in Tarnopol, in tutti i suoi numerosi e travisati alter ego, quanto della Newark e della New York di Roth c’è nella Newark e nella New York raccontate nei suoi romanzi e nei suoi (pochi) racconti? Molto. Moltissimo. Come e più che per qualsiasi altro gigante della letteratura contemporanea, forse. Per cui la sistematica ricognizione della Roth Pierpont non poteva che rischiare, qua e là, di soffrire di ridondanza.
Ora, certo che Roth non è Zuckerman. Ma io, per quel che vi importi, non credo davvero di voler conoscere le differenze tra i due. Qualcuno forse può pensare che le vicissitudini personali, le critiche sulla stampa, i rapporti affettivi spiattellati sulla pagina possano aggiungere qualcosa alla fruizione dell’opera di Roth. Io no. Non se stiamo parlando dello stesso essere umano che è entrato con tutto il corpo e tutta la mente e tutti i sentimenti dentro ai propri libri, lo stesso Roth che ha scritto un’autobiografia come I fatti nel mezzo del cammin della sua vita, lo stesso scrittore che ha partorito Alexander Portnoy, Nathan Zuckerman e i gli atterriti e, già, morenti eroi delle ultime novelle del ventunesimo secolo.
La verità è che conoscevamo già tutti (tutti? Ok: io) tutto ciò che avevamo bisogno di conoscere di Philip Roth. Lo avevamo trovato nei suoi libri, come capita di solito, e ancora di più.
Roth scatenato è un testo brillante, puntuale, rigoroso. E a tratti davvero confidenziale. Ciò che a volte non quadra è la ferma volontà di sezionare e mappare la produzione letteraria del romanziere. Qualcuno, allora, potrà probabilmente chiedersi che bisogno c’è di sentirci dire quanto forti sono le voci dei suoi personaggi, quanto riuscite le sue messe in scena, quanto zoppicanti le sue architetture, quanto è rotonda, al di là delle bandiere a stelle strisce esposte sul balcone, la sua “americanità”. E di sentircelo dire oggi, quando Philip Roth ha ottantadue anni, quando ha scritto decine di romanzi, tutti abbondantemente divorati e digeriti, per lo più universalmente considerati al di sopra della media della stragrande maggioranza dei romanzieri della sua generazione e di quelle immediatamente successive e precedenti alla sua.
Però, se avete mai amato Roth, e, ripeto, se vi sentite in grado di discernere tra ciò che è magia e ciò che è pura sovrastruttura, questo libro dovete leggerlo. Perché è un urticante piacere, dall’inizio alla fine. Ritornare sui romanzi letti dieci o venti o trent’anni fa, lasciarvi trasportare nella curiosità del raffronto tra le vostre impressioni e quelle dell’autrice, avvalorare o smentire tesi proprie o altrui, unire i puntini: questo è quanto Roth scatenato vi consente di fare.
Qualche accademico indefesso ne godrà. Qualcun altro sarà ben felice di conoscere le schermaglie continue con John Updike, qualunque uomo assennato si sentirà vibrare leggendo delle straripanti passioni di Roth: James, Hemingway, Faulkner, e più di tutti l’amico e maestro Saul Bellow. Le letture dei grandi scrittori, ecco l’unica cosa che dovrebbe interessarci di loro al di fuori di quanto abbiano mai scritto.
Quanto alla biografia vera e propria, probabilmente non tutti avranno già saputo della stagione praghese di Roth e della sua collana di autori esteuropei portata avanti per tre lustri tra gli anni Settanta e la caduta del Muro di Berlino, non tutti avranno avuto il conto preciso delle mogli e delle compagne e delle avventure di Roth, non tutti avranno posseduto un prospetto esatto degli spostamenti di Roth tra Newark, Connecticut, Londra e New York. Claudia Roth Pierpont queste cose le sa, e ve le spiega per bene.
Semmai, ma forse, come tutto, ciò dipende dalla mia esperienza personale – in questo caso di maschio e di padre -, la faccenda su cui mi sarebbe piaciuto essere aiutato a ragionare sarebbe stata l’assenza, nella vita di Philip Roth, di un figlio. Uno scrittore che alle figure dei genitori, e in particolar modo a quella paterna (da Portnoy in là, con il picco di quel mezzo capolavoro di Patrimonio), ha dedicato così tante pagine ed energie, così tanta intensità, si è ritrovato a percorrere un’intera esistenza senza essere padre a propria volta. L’unica cosa che oramai mi incuriosisce della parabola di un portento della letteratura come Philip Roth è proprio questa: cosa sarebbero potuti essere i suoi romanzi se solo fosse mai stato padre. Claudia Roth Pierpont non glielo ha chiesto. Se mai questa domanda potessi fargliela io, lui, maestro delle controvite, saprebbe rispondermi con la sua solita intelligenza lucida che mi ha sempre illuminato e sconcertato. Qualcuno conosce il suo indirizzo nel Connecticut o quello di New York, per caso?
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