Sostiene Pereira
di Marino Magliani, con illustrazioni di Marco D’Aponte (tratte dalla loro graphic novel “Sostiene Pereira”, Tunué, 2014)
Esistere con un passo indietro e l’altro che scalpita non perché si vuol andare chissà dove, ma perché fisicamente non si riesce a stare a lungo con un piede posato e l’altro per l’aria. Il luogo dell’esilio accoglie il passo in avanti, ma l’equilibrio rimane lo stesso precario. Lo sento raccontare da sempre che l’uomo ha una postura adatta per compiere il passo, uno dopo l’altro, sì, va bene, non uno posato e l’altro per l’aria, sì, va bene, ma che alla lunga si tiene male anche un passo in avanti e l’altro indietro. Uno scrittore sosteneva di sentirsi esiliato, non esule. Esule è dunque una scelta e esiliato no? È una cosa che dipende da altri, una costrizione? È questo che intendeva lo scrittore? Anche Tabucchi nei suoi libri usa dire esiliato. In spagnolo è exiliado. In Olanda un esiliato, o esule, rimane a lungo un asielzoeker, uno che cerca asilo, e forse è davvero così, una volta tanto gli olandesi ci prendono, non si è mai completamente esuli o esiliati, ma sempre alla ricerca di un asilo che da un momento all’altro potrebbe finire. Per l’asielzoeker che non riesce ad appoggiare il piede nel luogo futuro, ma lo tiene costantemente in bilico, fermo nell’aria (per quanto riesca a farlo), le cose si mettono male. Il rischio è di riaffiancare il passo al passo rimasto nel passato, in qualche modo stabile, anche se poggiante su una parte pericolosa.
Un giorno a Torino, in una libreria, mentre parlavo di una raccolta di saggi su Bolaño e usai la parola esiliato, non riguardo a Bolaño, ma a un suo personaggio, la signora che mi era accanto mi corresse pubblicamente. Non si dice esiliato in italiano, non lo sa che si dice esule? Signora piuttosto distratta, non commentai, ma provai una specie di malinconia, non quella dei personaggi di Bolaño, non la bile nera che esplode, ma quella degli esiliati come Tabucchi e pensai a lui che se n’era andato da poco. Pensai a quando c’eravamo conosciuti. Ci trovavamo a Sanremo per ricordare Biamonti. Diventammo amici e non ci rivedemmo mai più. Ognuno col suo esercizio del piede in avanti e l’altro nel passato. Ci scrivevamo spesso, di notte, ognuno dal suo luogo, da una finestra di fronte alle luci del Tago e all’Atlantico, o di fronte a un canale e al Mare del Nord. Avevamo orari da marconisti, mi diceva. Parlavamo di quella cosa che dovrebbe essere l’esilio, e che nessuno sa perché coincide col trascorrere parecchie ore al giorno lungo un fiume, un mare, un lago, un canale.
A volte ci davamo appuntamenti per l’estate, lungo altri posti acquatici, poi gli appuntamenti saltavano, io restavo in Olanda, lui era a Vecchiano, oppure dal Portogallo andava a Creta, io andavo per orti, lungo un torrente, lui era a Parigi. Ma un giorno che mi trovavo a Torino, ospite del mio amico e disegnatore Marco D’Aponte, venne fuori questa specie di idea, pensare a Sostiene Pereira come se fosse un fumetto. Il libro che più di ogni mi ha raccontato la libertà e il tempo e la nostalgia del passato e del futuro, tradurlo in fumetto. So che dovrei dire graphic novel, ma se dico fumetto dico una cosa che leggeva il bambino quando entrambi i piedi stavano in un posto. Telefonai a Antonio, l’idea piacque subito anche a lui. Volle conoscere Marco, le sue cose, le apprezzò.
Così, senza sapere troppo come si faceva, cominciai a lavorare a una bozza di sceneggiatura. Ogni tanto chiedevo a Antonio come si traducevano certe parole. Una la ricordo ancora, spogliatoio, che è un’immagine della nuotata di Pereira nelle acque di Santo Amaro. Un giorno Antonio vide alcune tavole. Poi andò a Creta. Poi tornò in Portogallo e dopo qualche tempo mi scrisse che non stava bene, che andava all’ospedale. Poi mi rispondeva di rado con mail molto corte, e poi un giorno, uno di quei giorni mezzi tiepidi per essere ancora di marzo, ero a passeggiare per le dune, qui dietro casa, e mi sdraiai su un tappeto di muschio e mi addormentai. Mi svegliò l’aria umida e quando tornai a casa lessi che Antonio se n’era andato. Dove stanno i piedi di un esiliato quando se ne va? Rimane tutto com’era? Uno in un posto che è da qualche parte qui, davanti a un oceano o a un lago, o a un canale, o a una cascata, e l’altro, quello in avanti, nel posto che accoglie? Nel frattempo avevo terminato la sceneggiatura. Alla decima stesura, di mio non c’era più nulla, solo le parole di Antonio Tabucchi, tranne un’idea: è alla spiaggia di Santo Amaro, quando Pereira, dopo aver nuotato un lento e ordinato crawl, giunge ansimante alla boa, si aggrappa, si dice sei pazzo, e poi fa il morticino. Ecco, lì, secondo me, Pereira associa la sua posizione a un ricordo di pochi giorni prima: la Lisbona verso sera (era appena uscito di casa e aveva appuntamento con Monteiro Rossi) che puzzava di morte. Perché una mia idea in quel punto? Ho avuto tempo due anni per annegarla in qualche acqua, le opportunità non mi sono mancate, ma ho sempre rimandato.
D’estate incontravo Marco, in Liguria, in una casa di pietra, all’ombra, o a Torino, in un palazzo elegante, al centro, con le finestre che davano sui tetti, e discutevamo di tutte le cose che erano successe in quella Lisbona che puzzava di morte, anche se il cielo e la città erano sfavillanti, <<letteralmente sfavillanti>>. Guardavamo le fotografie che ci aveva mandato Michele Tabucchi, e io a volte scrivevo a Zé (in quei giorni a Sanremo avevo conosciuto anche lei) e le chiedevo altre cose di Lisbona. Poi seppi che Paolo Di Paolo scriveva una prefazione e quando la lessi ritrovai il tempo che si abita lontano da una lingua. Il fumetto aveva preso forma, naturalmente la parte più dura era toccata a Marco, non solo perché si trattava di riprovare all’infinito colori e caratteri, ma perché per ben due anni Marco ha convissuto con Pereira, con la sua malinconia e i suoi sensi di colpa, il suo pentimento.
Molto bello, davvero, e malinconico : Dove stanno i piedi di un esiliato quando se ne va?.
Un libro, Sostiene Pereira, che ha – non so nemmeno per quale motivo – segnato un punto preciso nella/della mia vita (mutandole il segno). Cercherò questa nuova rilettura.
Normalmente non mi strappo i capelli per le trasposizioni in graphic novel delle opere. Preferisco le storie originali. In questo caso pero` visto che da noi sento aria di salazar e puzza di dittatura dolce penso che sia un`iniziativa da sostenere. Piuttosto, una volta mi e` capitato di mandare rose, circa 24 anni fa, e clownescamente firmai vezzeggiandomi come cavaliere in esilio, che allora pero` trattandosi di una studentessa di lingue, tradussi come caballero desterrado(ma “il mio nome era buffalo bill”)
Curioso che la casa editrice Tunuè che partecipava alle feste dei neonazisti di Atreiu ora faccia questi libri e nessuno abbia nessuna memoria…
Bello, e sentiri esiliati può anche darci spazio per quell’equilibrio che apparentemente dopo l’addio dell’esule, capita.
Se se ne va un caro amico io dico: lui è là dove io non lo vedo più, ma lui vede me.
Grazie per questa idea che avete avuto voi tre
Tabucchi è un grande scrittore , molto amato all’estero,dove ha ricevuto premi, è stato chiamato a tenere lezioni (es. E’cole des Hautes E’tudes di Parigi), e da noi meno apprezzatoed amato. Perciò apprezzo e leggocon piacere l’articolo di Magliani.E ha scritto tanti libri-frammenti,racconti, romanzi, Ma forse quello che raccoglie di più e evidenzia la sua cifra stilistica è Si sta facendo sempre più tardi, Diciassette lettere sulla paura d’amare, di cui l’ultima , quella finale, quella che ognuno vorrebbe scrivere o lasciare agli altri, è quella indirizzata al vento. Dice Tabucchi 2Siamo voce ,siamo vene,arterie,vasi linfatici, caverne polmonari, laborioso fegato, paziente cuore, capriccioso pene o misteriosa vagina. Siamo tutto questo, e con tutto attraversiamo il tempo, che ci maltratta, cere sempre un capo del filo, come i prende a schiaffi e qualche volta ci concede una carezza o la forza di sorridere”. la vita per Tabucchi si manifesta proprio nei frammenti, nelle fessure ,negli anfratti, nei labirinti, per cui dobbiamo tenere un capo del filo, come Arianna.
Il libro che più di ogni mi ha raccontato la libertà e il tempo e la nostalgia del passato e del futuro è proprio questo.
E poi tanti altri racconti, romanzi, di cui si parla sempre troppo poco. Mi meraviglio chenoi non sappiamo apprezzare i nostri migliori autori. Ma è così. Sappiamo poco di letteratura internazionale, dell’abilità di inglesi americani di raccontare storie, e apprezziamo a volte certi nostri scrittori molto piccoli, molto insipidi, che con difficoltà sanno tenere in mano il filo del raccontare. Ma è così. Tabucchi invece sapeva narrare molto di noi, della vita perchè era uno scrittore internazionale, insegnava letteratura portoghese, ed era esperto di narrativa cosmopolita.E’ morto e ho letto poco di lui sui giornali. Non una recensione esauriente, ma poche righe di commemorazione.
Solo Lalla Romana ha detto di Sostiene Pereira, che un libro così bello la metteva a disagio.Io l’ho incontrato parecchi anni fa a Lisbona, in uno dei suoi caffè preferiti e abbiamo parlato senza conoscerci. Ci siamo detti delle cose e dei luoghi che ci piacevano. Alla fine lui mi ha salutato con le parole:’Mi chiamo Antonio’. Mi manca ‘Antonio’, mi mancano la lettura di quello che avrebbe ancora scritto, dei suoi giochi del rovescio, dei suoi viaggi (che erano quelli che anch’io facevo e faccio’. Spero che manchi a tutti.