Francesca Borri, La guerra dentro
di Mario Sechi
Diciamo giornalisti free lance, o giornalisti embedded, e ci interroghiamo magari sulla nuovissima specie dei citizen journalists, e proviamo a farci un’idea di come si sia evoluta nel caos delle guerre asimmetriche la figura del reporter. Mi riferisco soprattutto al fronte arabo, in quella enorme mezza luna tra terra e mare che parte dal Mali e arriva all’Afghanistan, con le note propaggini caucasiche. Guerre su guerre, da molti decenni ormai, guerre civili interne a ciascun paese, oppure più spesso guerre esogene, scatenate dalle grandi potenze occidentali contro nemici dichiarati unilateralmente tali, contro minacce o pericoli talora inventati di distruzione totale, contro fantasmi sfuggenti di nuovi soggetti, che sono di certo reali ma paiono entità. Guerre di qualcuno contro qualcun altro, e alleanze di volenterosi, coperte all’ultimo dall’ombrello dell’ONU o della NATO, in accordo o con la tacita connivenza della comunità internazionale.
Ciò che è cambiato rispetto all’epoca eroica di Remarque e di Hemingway, per fare solo due nomi, non sta tanto nella sovrapposizione e nella confusione del conflitto fra eserciti e fra combattenti irregolari, che finisce per polverizzare l’idea stessa di una linea del fronte, dove il giornalista dovrebbe stare per presidiarla e misurarla, quanto nella perdita di credibilità dei tradizionali schemi di interpretazione e di gestione dei conflitti, fondati sui più collaudati modelli di strategia militare e di geo-politica. Il caso della Siria oggi è il caso in cui più clamorosamente si evidenzia una vera e propria impotenza delle organizzazioni e degli osservatori internazionali, sia sul piano dell’analisi delle situazioni sul campo, sia e tanto più nella costruzione di percorsi di pacificazione e di equilibri possibili per il futuro.
Come in un avvitamento continuo di fattori imprevisti, nei tre anni trascorsi dalle prime rivolte di piazza contro il regime dittatoriale di Assad si sono innescate reazioni a catena di movimenti e di eventi, che hanno fatto emergere sempre nuovi attori, confusi nel perseguimento di obiettivi spesso non chiari, e tra di loro in aperto conflitto: dalla Coalizione Nazionale, che è il rassemblement dei gruppi politici siriani operanti all’estero, all’Esercito Libero dei ribelli della “primavera”, occupanti alcune regioni centrali del paese e impegnati nella interminabile battaglia di Aleppo, agli islamisti di al-Qaeda radicati nelle moschee e contigui ai ribelli nelle stesse strade e quartieri, ma con ben altri piani politico-militari, alle potenze regionali (Turchia, Iran, Arabia Saudita) e ai paesi limitrofi (Iraq, Libano, Israele, Palestina), gli uni e le altre intrecciati fra loro in un’inestricabile ragnatela di interessi e di alleanze: e si pensi a Hezbollah o ad Hamas, soggetti politico-militari di importanza non primaria, e tuttavia decisivi nell’interdire e nel bloccare vie d’uscita dallo stallo di una situazione incancrenita, destinata forse a un’irreversibile implosione.
Ma a un livello persino più profondo la non fungibilità dei vecchi schemi è dichiarata dalla diffusa strumentalizzazione delle appartenenze religiose, nel contesto di un Islam che appare ormai deflagrato, scosso da vecchie e nuove eresie e fanatismi di origine oscura, per non dire sospetta. Assad appartiene al campo sciita ma nella sua variante alawita, è legato alla tradizione del Bahatismo laico (la stessa che fu di Nasser e di Mubarak in Egitto), e non molto ha a che fare sul piano culturale e ideologico con gli sciiti iraniani, che pure sono suoi alleati. I suoi primi oppositori interni sono sunniti laicizzati di nuova generazione, ma ad essi si sono aggiunti e sovrapposti gli jihadisti, che non alla Sunna si rifanno ma al Wahhabismo fondamentalista, foraggiato dai petrodollari della penisola arabica, dove sono insediati i governi più filo-americani del pianeta. La Turchia dal canto suo – membro della NATO e aspirante UE – è uno stato laico a maggioranza sunnita, che nel corso del conflitto siriano svolge un doppio gioco politico, ufficialmente sostenendo la Coalizione nazionale e i ribelli dell’Esercito libero, ma di fatto non contrastando i transiti di mezzi e truppe irregolari che alimentano il cosiddetto Califfato e che dal territorio del Califfato sciamano intorno, fino alle destinazioni europee. E non si può trascurare, attorno a queste realtà più compatte, il reticolo delle religioni pre-islamiche che sono praticate ad esempio dagli Yazidi e dagli Zoroastriani, schiacciati insieme ad ebrei e cristiani e sottoposti ad azioni di sterminio, in una deriva di emarginazioni che non ha tregua, e che punta in primo luogo al contenimento dell’indipendentismo curdo.
Al di là delle semplificazioni brutali della realpolitik, che passano sopra la realtà delle vite umane senza alcuna vergogna, come muoversi e come orientarsi in questo ginepraio di sangue e di distruzione? Francesca Borri è testimone diretta e coinvolta di questa lunga storia sbagliata, avendo vissuto e lavorato per quasi un anno nei luoghi e tra i pericoli di quella realtà. La sua attività di reporter non è nata però da uno slancio idealistico, e neppure dal gusto della scommessa con se stessa, in un progetto auto-centrato di addestramento e di crescita professionale. La sua esperienza sul campo cominciò infatti nel teatro balcanico, nel 2007, durante la guerra del Kossovo, sotto l’egida delle organizzazioni internazionali preposte alle operazioni di peace keeping: e fu allora un’esperienza nutrita e motivata da una fresca e solida formazione accademica, in ambito di diritto internazionale e di tutela dei diritti umani. E poi proseguì in Medio Oriente, dall’osservatorio di Ramallah guardando alla frontiera delle innumerevoli tregue fallite nella guerra israelo-palestinese, con la tenacia di voler riconoscere e censire, di qua e di là, i soggetti possibili e dispersi di una trama civile culturale umana, capace di risarcire ferite e di interpretare lo spirito di una intermediazione reale. Il mestiere di giornalista e di testimone Francesca lo ha imparato cioè a partire dalla fiduciosa adesione a una linea teorica e persino dottrinaria, e nella convinzione di poter contribuire a un grande piano di conoscenza e di regolazione dei rapporti di convivenza, di relazioni, di integrazione tra popoli diversi e storicamente nemici, attraverso l’analisi e la gestione delle situazioni e il riconoscimento attento e scrupoloso dei soggetti in campo.
Il suo La guerra dentro, uscito per Bompiani non molti mesi fa, e ora in corso di traduzione per le edizioni americana e norvegese, dichiara e denuncia il dolore di una delusione, che lei stessa vive come crollo di ogni riferimento ideale, giuridico, politico, logico, di fronte allo spettacolo avvolgente, non distanziabile, di quanto accade dove nulla più accade ormai, o così sembra. Aleppo, che è il suo luogo di osservazione, è un paesaggio di rovine e di sopravvivenze umiliate, di fame e di malattia, dove si aggirano gruppi di combattenti con kalashnikov e con bombe rudimentali, spesso bambini, bande di cecchini di ogni specie, mentre dalla distanza piovono missili, raffiche, piogge di fuoco, a cui si sopravvive, se si sopravvive, per caso. E’ lo spettacolo del nulla, una distruzione di cose, edifici case strade, vissuti familiari e personali, senza possibili conforti né risarcimenti, poiché lì non c’è ONU non c’é Europa non c’è Croce Rossa e neppure ci sono ONG, se non quelle finte, emanazioni del potere governativo. Ci sono morti e profughi a centinaia di migliaia forse milioni, di cui si è sospesa anche la contabilità, e c’è lo scardinamento di ogni parvenza di civiltà. Chi abbia visto di recente le foto di Kobane strappata dai combattenti curdi alle forze dell’ISIS può più facilmente farsi un’idea di questo vuoto di realtà umana che sussegue agli spari, e richiamare magari alla memoria collettiva la irreale desolazione dei paesaggi carsici, dove la grande guerra europea raccontata da Emilio Lussu inaugurò la pratica dei massacri lucidamente programmati per contendere pochi metri di territorio al nemico, in un’ottusa coazione di morte.
Ma proprio qui, di fronte a questo spazio di civiltà suicidata, l’autrice del libro, un libro che è reportage ed è diario, ma è anche e soprattutto scrittura, oltrepassa il piano giuridico-politico e persino quello degli interrogativi etici, che pure pulsa al fondo di ogni pagina. E centra con crudezza il problema della verità: la costruzione delle notizie e la elaborazione delle verità, che sono il dovere del testimone e che tuttavia sfuggono, si sbriciolano in frammenti, si avviliscono in dubbi senza fine, in situazioni dove mancano i riferimenti certi del diritto internazionale o di una politica intesa come visione e narrazione plausibile di fatti e di scenari. Perché ad Aleppo non ci sono più neppure le grandi Agenzie di stampa, che pure continuano a produrre lanci e commenti da lontano, e non ci sono giornalisti all’altezza, non molti almeno, e dal terminale di Aleppo il sistema mediatico planetario esige una varietà appetibile di scoop, che sono poi stereotipi, fissati in fotografie e video, e stringhe di titoli in caratteri cubitali: dal “medico bambino” al “bambino soldato”, alla donna italiana jiahdista (col “fidanzato talebano”?), e così via.
Nessuno più si stupisce di questo funzionamento della cosiddetta informazione, da quando almeno Baudrillard analizzò e denunciò le tecniche di de-realizzazione della realtà sperimentate durante la prima guerra del Golfo, col supporto di tecnologie di ripresa sofisticate, messe a servizio di una rappresentazione contraffatta a fini spettacolari. Francesca Borri documenta anche con nomi e cognomi, con episodi e con date, lo scialo delle notizie fabbricate secondo questo metodo di produzione e riproduzione della realtà. E attesta ogni volta il proprio sconcerto, la propria delusione, ma allo stesso tempo si interroga sul proprio mestiere, sul senso del proprio stare lì. E si trova a un certo punto a raccontare la guerra non come “guerra degli altri”, ma come una guerra che lei stessa vive dentro di sé, nello specchio infranto dei propri pensieri e delle proprie emozioni, mescolando e tenendo in equilibrio istinto di sopravvivenza, lucide analisi dei fatti e interrogativi senza risposta, che diventano appelli al lettore, ai suoi corrispondenti dispersi nei più diversi angoli di mondo, lontani e ravvicinati in una sorta di doloroso abbraccio.
In quanto libro pensato e costruito, La guerra dentro è un tentativo di narrazione, è documento, è diario, ma è allo stesso tempo letteratura. Perché Borri sa bene come la ricerca di verità, per non soggiacere del tutto ai modi di riproduzione delle verità di comodo, debba rischiare una qualche forma di racconto, montando voci e spezzoni di scritti altrui, descrivendo immagini e fotografie, e riprese video fatte con la fotocamera, e non sottraendosi a una certa esposizione della propria figura, del proprio attraversare la scena in corsa, in fuga, ma anche in ascolto, in attesa, e poi partire, andare via per un po’, fino ad Amsterdam, fino a casa in Italia. Prendere fiato, recuperare distanza, per tornare, ed è quel che lei fa. Questo sforzo di narrazione, sia pure frantumata, sia pure a flash, vuol essere da parte sua una protesta contro i tanti che – riprendendo e banalizzando nel chiacchiericcio quotidiano delle redazioni quello che fu il leit motiv del grande romanzo europeo d’avanguardia e di post-avanguardia – sostengono l’inutilità del racconto, anzi l’evaporazione, l’inesistenza di temi narrabili: “Ma che ci fai ancora lì? non c’è niente da raccontare”. Ma il dolore, come la fame, come lo sterminio, come la distruzione, esigono di non essere invano, pretendono voce e parola. Da lì, da quella linea sottile che separa e congiunge la radicalità dell’esperienza umana e il castello infinito delle parole e degli schemi mentali, cognitivi, ideologici, torna a suonare la campana, per quei tanti o anche pochi che – come lei scrive – abbiano la forza di non aver paura.