ENEIDE – libro I, [a-d], 1-156; libro IV, 296-387; libro IX, 387-444; libro XII, 919-952.
trad. isometra di Daniele Ventre
Protasi – La tempesta –Eneide – libro I vv. [a-d], 1-156
[Io, che in passato intonai su gracile canna il mio canto,
poi, fuoriuscito dai boschi, piegai le vicine campagne,
sì che rendessero pago l’avaro colono, fatica
ai contadini gradita, ora invece, orrori di Marte,]
Canto le armi e l’eroe, che primo dal suolo di Troia
mosso dal fato raggiunse l’Italia e le sponde lavinie
profugo; a molto vagare lo spinsero in terra e sull’onde
forze superne, per l’ira tenace dell’aspra Giunone,
molti dolori anche in guerra patì, per fondare nel Lazio
una città, per condurvi gli dèi: di qui il seme latino
e i nostri padri, gli Albani, e dell’alta Roma le mura.
Musa, le cause ricordane a me: che ferì quella dea,
che lamentò, la regina dei numi –e forzò ad affrontare
tante vicende un eroe per pietà glorioso, a subire
tante sciagure? Sì grande è l’ira nei cuori celesti?
Era un’antica città, la tennero tirii coloni,
contro l’Italia e le foci del Tevere sorta, lontano,
ricca di beni, Cartagine, e fiera alle prove di guerra;
più d’ogni terra Giunone quell’unica, è fama, ebbe cara,
e l’antepose perfino a Samo: eran lì le sue armi,
v’era il suo carro; la dea sin da allora brama ed agogna
che reggitrice di genti divenga, ove piaccia ai destini.
Ma una progenie, ella udì, dal sangue troiano nasceva,
tale, che avrebbe in futuro distrutte le torri dei Tirii;
donde una stirpe dai vasti domini e temibile in guerra
strage di Libia farebbe: le Parche filavan l’evento.
Questo temé, la Saturnia, tenace al ricordo d’antica
guerra che a Troia fra i primi ingaggiò per Argo diletta,
(e non ancora le cause dell’ira e i cocenti dolori
l’eran caduti dal cuore; al fondo dell’animo infitti
stanno il giudizio di Paride, ingiuria a beltà dispregiata,
di Ganimede rapito la stirpe aborrita e gli onori);
più da quegli odi infiammata, ovunque sul mare spingeva
quanti Troiani fuggirono i Danai e Achille crudele,
li ricacciava lontano dal Lazio; e così per molti anni
essi vagarono in tutti i mari, in balia dei destini.
Era di tanto gravame fondare la gente di Roma!
Fuori di vista da poco da terra di Siculi, al largo,
gai veleggiavano e ai rostri frangevano spume di sale,
quando Giunone, che in petto covava un’eterna ferita,
disse fra sé: “Che io vinta desista da quel che intrapresi?
Ch’io dall’Italia non possa sviare il sovrano dei Teucri?
Certo, lo vietano i fati. Ma Pallade ben ha potuto
dare alle fiamme una flotta d’Argivi e sommergerne in mare
gli uomini, colpa e follia d’uno solo, Aiace l’Oilide!
Ella avventò dalle nubi il rapido fuoco di Giove,
quindi disperse le navi e sconvolse il mare coi vènti:
abbandonò al turbinio, su uno scoglio aguzzo confisse
lui, ch’esalava dal petto trafitto un respiro di fiamme;
io che regina dei numi incedo, io sorella e ad un tempo
sposa di Giove, frattanto, una sola gente combatto
già da molti anni. Ed ancora alla dea Giunone qualcuno
leva preghiere o sull’ara le rende, da supplice, onore?”
Questo la dea meditava fra sé, nel suo animo acceso,
e in luoghi fertili d’austri furiosi, alla patria dei nembi
venne, in Eolia. Qui Eolo sovrano, in un’ampia caverna,
sotto il suo regno reprime e in ceppi e prigioni contiene
gli irrefrenabili vènti e le fragorose tempeste.
Essi, furenti di rabbia, con forte boato del monte,
fremono dentro quei chiostri; sta Eolo sull’alto del picco,
stringe lo scettro e ne placa i cuori, e ne modera l’ira.
Che non lo faccia, e con sé mari e terre e cielo profondo
d’impeto travolgeranno, li disperderanno nel vuoto.
Questo temeva e li chiuse in oscure latebre, il padre
onnipotente, e su loro una mole d’alte montagne
fece gravare ed impose un re che con ordine fermo,
ad un suo cenno, sapesse serrare e allentare le briglie.
Supplice a lui si rivolse con queste parole Giunone:
“Eolo (a te il padre dei numi, sovrano degli uomini, ha dato
di racquietare i marosi e di sollevarli nel vento),
naviga il mare Tirreno una gente a me non amica,
verso l’Italia trasporta con Ilio i suoi vinti penati:
sfrena la forza dei vènti, sommergi e travolgi le prore,
per ogni dove disperdili e spargine i corpi sull’onda.
Ho presso me sette ninfe e sette, d’altera bellezza,
d’esse, colei che su tutte risplende in beltà, Deiopea,
unirò a te con sicuro connubio e farò che sia tua,
sì che al tuo fianco, per questi tuoi meriti, tutti i suoi anni
ella trascorra e ti renda parente di splendida prole”.
Eolo di contro le disse: “Tua cura, o regina, è vagliare
quello ch’è il tuo desiderio; mia legge è obbedire al comando.
Sia quel che sia, tu il mio regno mi doni e lo scettro di Giove
rendi benigno; tu dài che io sieda a mensa fra i numi
e delle nubi mi fai e delle tempeste sovrano!”
Come ebbe detto, girò lo scettro e batté la parete
all’incavata montagna; i vènti, a un serrarsi di schiere,
corrono, schiusa la via, di turbini squassan la terra.
Precipitarono al mare e tutto dagli ultimi abissi
l’Euro e al contempo anche il Noto lo smossero e greve di nembi
l’Africo e contro le sponde rivolsero vasti marosi.
Ecco innalzarsi clamore di genti e stridore di funi.
Allontanarono i nembi d’un tratto alla vista dei Teucri
giorno e sereno: calò sul pelago nera la notte.
Tuonano i poli, e frequente di folgori l’etere guizza,
ed ogni cosa minaccia agli uomini prossima morte.
In un momento ad Enea si sciolgono in gelo le membra:
rompe in un gemito, alzando alle stelle entrambe le mani
queste parole egli grida: “O tre, quattro volte beati,
voi, a cui in vista dei padri e dell’alte mura di Troia
sorte toccò di perire! O Tidide, il più valoroso
della semenza dei Danai! Perché non potei nella piana
d’Ilio cadere e gettare così per tua mano la vita,
dove si giace, per l’arma d’Eàcide, Ettore fiero,
dove è Sarpèdone il grande, e tanti rapì Simoenta,
volse nell’onde elmi e scudi e validi corpi d’eroi!”
Mentre così si lamenta, un nembo, un urlio d’aquilone,
coglie di fronte la vela, alle stelle innalza i marosi.
Cedono i remi; la prua, ecco, gira, e all’onde il suo fianco
volge: crollò il monte d’acqua precipite con la sua mole.
Pendono alcuni su creste di flutti, e tra i flutti, sorgendo,
l’onda apre ad altri il fondale, ne bolle la furia alle sabbie.
Noto, rapite tre navi, le avventa su rocce nascoste
(rocce nel mezzo dei flutti, che gli Itali chiamano Altari,
dorso gigante sul pelo dell’acqua), e tre l’Euro dal largo
ai bassi fondi, alle Sirti sospinge –ahi, pietoso a vedersi!–
e tra le secche le getta, le cinge d’un muro di sabbia.
A un’altra nave, che i Lici e il fedele Oronte portava,
sotto la vista d’Enea, un’onda mostruosa dall’alto
coglie la poppa; è sbalzato in avanti e cade il nocchiero,
giù, capofitto; tre volte la fece girare il maroso,
la roteò, l’inghiottì l’impetuoso gorgo nel mare.
Uomini sparsi si scorgono a nuoto nel vortice vasto,
armi d’eroi e relitti e gemme troiane fra l’onde.
Già sulle solide navi d’Iliòneo e del valido Acate,
già sulle prore che Abante portavano e Alete longevo
ebbe la meglio quel nembo: dal franto fasciame dei fianchi
tutte ricevono l’acqua nemica e son piene di falle.
Ma percepì, nel frattempo, Nettuno, a quel forte boato,
l’onda sconvolta e sfrenato il nembo e negli ultimi abissi
smossi i più quieti fondali, e assai fu turbato; dal largo
sporse, guardando, a fior d’acqua il volto, a portare la pace.
Vide la flotta d’Enea per l’intero mare dispersa,
vinti dai flutti i Troiani e dalla rovina del cielo.
Né di Giunone sfuggì rabbia e dolo, al dio suo fratello.
L’Euro e lo Zefiro a sé richiama, e così dice loro:
“Tanta superbia allignava in voi della vostra progenie?
Vènti, già avete l’ardire di smuovere il cielo e la terra
senza il mio cenno e destare marosi di simile altezza?
Io vi… ma prima conviene acquietare i flutti agitati;
poi pagherete con pena inaudita i vostri misfatti.
Allontanatevi in fuga, a quel vostro re riferite
ch’egli non ebbe il dominio del mare e l’immane tridente,
io dalla sorte l’ottenni. Su rocce scoscese egli impera,
Euro, sui vostri ripari; di quella sua reggia s’esalti
Eolo, governi da re nel carcere chiuso dei vènti”.
Dice, ed in men che non dica, pacifica i gonfi marosi,
fuga le nubi ammassate e riporta il sole di nuovo.
Via dall’aguzza scogliera con forza Cimòtoe e Tritone
tolsero insieme le navi, il dio le innalzò col tridente,
quindi dischiuse le sirti immani e placò la distesa,
poi con le ruote leggere volò sulle creste dell’onde.
Come sovente in un popolo immenso, al momento in cui scoppia
la ribellione e s’accendono i cuori all’anonima torma,
subito volano torce e pietre e follia porge l’armi;
se d’improvviso, a quel punto, han veduto un uomo onorato
per pietà e meriti, tacciono e aspettano, tese le orecchie:
con la parola egli domina i cuori e pacifica i petti:
cadde così tutto il rombo del mare, allorché il genitore,
sulla distesa guardando, passò nell’aperto sereno,
resse i cavalli e diè in volo di briglie al suo docile carro.
* * *
Enea e Didone – Eneide Libro IV, vv.296-387
Ma presentì quegli inganni (chi sfugge a una donna in amore?)
e le imminenti partenze per prima intuì la regina,
d’ogni certezza temendo. La stessa empia Fama all’insana
già rivelò che s’armava la flotta, era pronta a salpare.
Fuori di senno, impazzisce, e per la città va furiosa,
rabida, come al destarsi dei sacri cortei, l’invasata
tìade, quando di Bacco ode il grido e l’orge triennali
l’eccitano –Citerone a notte la chiama con voci.
Prima parlò, finalmente, ad Enea con queste parole:
“Tanto delitto speravi, tu, perfido, che si potesse
dissimularlo? E partire in segreto dalla mia terra?
Non ti trattengono il nostro amore e la mano che un tempo
tu mi porgesti, e Didone votata a una morte crudele?
Anzi perfino col cielo invernale appresti la flotta,
e fra gli urlii d’aquilone hai fretta di prendere il largo,
tu, scellerato! E se poi non cercassi terre straniere
e sconosciute dimore e l’antica Troia s’ergesse,
dirigeresti su Troia le prue per l’ondosa distesa?
Fuggi da me? Io per queste mie lacrime, per la tua destra,
(già, poiché nulla di più m’è rimasto, me sventurata!)
e per la nostra passione, e per gli iniziati imenei,
se meritai qualche bene da te, se per me qualche gioia
mai ti fu dolce, ti imploro, pietà d’una casa in sfacelo,
se v’è più spazio per una preghiera, ah, deponi l’intento!
M’odiano solo per te le genti di Libia, i tiranni
Nomadi; i Tirii mi sono ostili; e per te, non per altri,
la pudicizia è in me morta, quell’unica gloria per cui
venni alle stelle. A che sorte abbandoni me moritura,
ospite? L’unico nome che resti del nome di sposo…
Che più m’attendo? Che queste mie mura le abbatta il fratello
Pigmalïone, o mi tragga al servaggio Iarba il getùlo?
Ah, se soltanto da te, prima della fuga, mi fosse
nato un bambino! Se solo, a palazzo, almeno, giocasse,
a ricordarmi di te col suo volto, un piccolo Enea,
certo non mi sentirei del tutto delusa e tradita”.
Disse. Negli ammonimenti di Giove egli fissi teneva
gli occhi e forzando se stesso, premeva l’angoscia nel cuore.
Poco, alla fine, parlò: “Per quanti tu valga a elencarne
e a noverarne, regina, io non negherò gli infiniti
meriti tuoi, né mai grave sarà ricordarmi d’Elissa,
fin che di me mi ricordi e regga le membra il respiro.
Poco dirò del mio intento. Non crederlo, no, non sperai,
io, di celarti una fuga furtiva, e del resto nemmeno
torce nuziali innalzai, ed a tali patti non venni.
Se mi lasciassero i fati condurre secondo i miei voti
questa mia vita, e sedare a mio modo queste mie pene,
prima la rocca di Troia, le dolci reliquie dei cari
raccoglierei, l’elevata dimora di Priamo vivrebbe,
Pergamo rasa due volte io ai vinti offrirei di mia mano.
Ora, però, tanto Apollo Grineo che le sorti di Licia
ordinano che l’Italia spaziosa io ricerchi, l’Italia.
Quello il mio amore e la patria. Ché se di Cartagine i tetti
t’hanno chiamata, Fenicia, l’attesa di libiche mura,
che nella terra d’Ausonia risiedano i Teucri, che invidia
è questa mai? Nostro fato è cercare un regno straniero.
Il padre Anchise, ogni volta che notte ricopre la terra
d’ombre stillanti, ogni volta che sorgono gli astri infocati,
me con visioni ammonisce e sgomenta, immagine fosca.
L’onta all’affetto più caro me morde, ad Ascanio fanciullo,
che del dominio d’Esperia derubo e dei campi fatali.
Ora anche il messo dei numi, inviato da Giove in persona
(giuro sul capo d’entrambi), portò con le celeri brezze
tali comandi: ho veduto il dio nel più chiaro fulgore
oltrepassare le mura, ne bevve la voce il mio orecchio.
Smettila d’esasperare me e te con le tue lamentele;
non per mia voglia io ricerco l’Italia”.
Mentre le parla così, a lungo ella torce lo sguardo,
gli occhi distoglie di qua, di là, con i muti suoi lumi
per ogni dove si volge, ed accesa, infine, prorompe:
“Non una dea fu tua madre, né è Dardano padre al tuo seme,
perfido, ti generò fra dirupi impervi l’orrendo
Caucaso, tigri d’Ircania offrirono a te le mammelle!
Ora a che fingere, a quali più grandi sciagure serbarmi?
Ha sospirato una volta al mio pianto? Ha vòlto il suo sguardo?
Lacrime, vinto, ha versato, ha avuto pietà di chi l’ama?
E che dirò che sia peggio? Ormai né Giunone suprema,
né il genitore saturnio qui posano equanimi gli occhi.
Mai ben riposta è fiducia. Gettato a una riva l’ho accolto,
e bisognoso, e l’ho messo a parte d’un regno, insensata:
gli ho ricondotti i compagni da morte e la flotta perduta.
M’ardono, in loro balia, ahi, le furie! Ora auspice è Apollo,
ora le sorti di Licia, inviato da Giove in persona,
porta ora il messo dei numi nell’aria gli atroci voleri.
Già, tanta angoscia affatica gli dèi, ne sconvolge la quiete
tanta apprensione! Non io ti freno, e non ho da smentirti.
Segui col vento l’Italia, va’ via, cerca un regno fra l’onde.
Spero che in mezzo agli scogli, se i numi pietosi han potere,
tu sconterai la tua pena, e più e più volte Didone
invocherai. Seguirò te con nere tede, lontana.
Quando la gelida morte dell’anima privi le membra,
ombra al tuo collo dovunque sarò. Pagherai, scellerato!
Io lo saprò, ne verrà tra i mani in abisso la fama!”
* * *
Enea e Didone nell’Ade – Eneide, Libro VI, vv. 434-474
Sono in un luogo vicino gli afflitti che diedero morte
di propria mano a se stessi, innocenti, e odiando la luce
le loro vite gettarono. O quanto nell’etere aperto
ora vorrebbero avere miseria e travaglio crudele!
Fato lo vieta e coi tristi suoi flutti l’odiosa palude
li àncora, Stige li chiude scorrendo nei nove suoi cerchi.
E non lontano di lì, estesi per ogni contrada,
s’aprono i Campi di Lutto: è il nome con cui son chiamati.
Quelli che amore spietato consunse d’un male crudele,
qui li nascondono occulti sentieri e una selva di mirti
dentro li accoglie; nemmeno in morte li lascia l’affanno.
In questi luoghi sia Fedra, sia Procri, sia, mesta, Erifìle,
che le ferite del figlio feroce palesa, Enea vide,
e poi Evadne e Pasìfae; a queste s’affianca compagna
Laodamia, nonché Cèneo, che un tempo fu uomo, ora è donna,
e nell’antica sua forma di nuovo tornò per destino.
E la fenicia fra loro, recente di piaga, Didone,
vagabondava in quell’ampia foresta. E l’eroe dei Troiani,
come al suo fianco ristette e la riconobbe fra l’ombre,
fosca –così si solleva in mezzo alle nubi la luna,
se la si vede, o si crede vederla, al principio del mese–,
diede alle lacrime sfogo e con dolce amore le disse:
“Ah, sventurata Didone, veridica nuova a me, dunque,
venne, che tu t’eri spenta, e venuta a morte di spada?
Della tua fine, ahi, fui io la causa? Io lo giuro per gli astri
e per gli dèi, e per quanto è di fede in grembo alla terra,
no, non per mia volontà, regina, io partii dal tuo lido.
Le imposizioni dei numi, che adesso a esplorare fra l’ombre
luoghi annebbiati d’oblio mi forzano, e notte profonda,
m’hanno costretto, col loro imperio; e non seppi pensare
che il mio partire t’avrebbe arrecato tanto dolore.
Fa’ che il tuo passo s’arresti e non evitare il mio sguardo.
Chi stai fuggendo? Per fato quest’ultima volta ti parlo!”
A carezzare il suo animo acceso e il suo sguardo crucciato
tali parole tentava, e versava lacrime, Enea.
Fissi alla terra la donna teneva i suoi occhi, nemica,
né da che s’era iniziato quel dire, ella mosse il suo volto,
più che se fosse di selce immota o di pietra Marpesia;
gli si sottrasse, alla fine, e si rifugiò, come avversa,
dentro l’ombrosa foresta, in cui il primo sposo, Sicheo,
l’è di conforto all’affanno e ne corrisponde l’amore.
* * *
Eurialo e Niso –Eneide Libro IX, 386 – 444
Niso va via; senza averne contezza ha passato i nemici
e le contrade che poi si dissero albane, dal nome
d’Alba (quei pascoli fitti ebbe allora il sire Latino),
quand’ecco stette, e cercò invano l’amico smarrito:
“In quale plaga, infelice Eurialo, t’ho abbandonato?
Dove inseguirti, esplorando di nuovo ogni strada contorta
dell’ingannevole selva?” All’indietro intanto le tracce
segue e le scruta e s’aggira in mezzo ai cespugli silenti.
Sente i cavalli, anche sente schiamazzi e segnali di caccia,
né si frappone gran tempo in mezzo e un clamore alle orecchie
giunge ed Eurialo egli vede, che già tutt’intera una squadra
(frode del luogo e del buio), a un chiasso di subita turba,
sta trascinando e circonda -invano egli tenta più fughe.
Come farà? Con che forza o che armi oserà strappar loro
il giovinetto? O deciso a morire, in mezzo alle spade
si getterà, cercherà fra quei colpi nobile morte?
Tende di scatto il suo braccio così fa oscillare la lancia,
quindi sogguarda la Luna in alto, e con voce la prega:
“Tu, dea, tu sii d’aiuto alla mia fatica, propizia,
tu, sfavillio delle stelle, guardiana dei boschi, Latonia.
Se già per me il genitore mio Irtaco sulle tue are
pose le offerte, e se mai con mie prede io stesso le accrebbi,
sotto la volta le appesi o le infissi ai sacri fastigi,
fa’ ch’io disperda la folla e guida il mio dardo nel vento”.
Egli diceva e con tutto il corpo si tese e col ferro
li saettò. L’asta vola e ferisce l’ombra notturna,
e nella schiena colpisce Sulmone rivolto e lì stesso,
lì, si spezzò, lacerò con l’infranto legno i precordi.
Egli si torce e dal petto rivomita un tiepido fiotto,
gelido, fra convulsioni penose contorce i suoi fianchi.
Guardano gli altri di qua di là. Così Niso, più ardente,
ecco che sopra l’orecchio librò una nuova saetta:
trepidano, ma già l’asta va a Tago attraverso le tempie,
stridula, calda del suo cervello trafitto s’infigge.
Truce s’infuria Volcente, e però l’autore del colpo
no, non lo vede, né dove impetuoso avrà da lanciarsi.
“Ma sarai tu nel frattempo, col caldo tuo sangue, a pagarmi
per l’uno e l’altro la pena!” esclamò: poi tratta la spada
venne avanzando su Eurialo. Ecco allora folle, atterrito,
Niso proruppe in un grido e non gli riuscì d’occultarsi
più fra le tenebre né d’accettare tanto dolore:
“A me, a me! Sono io, sono io, vibrate in me il ferro
Rutuli! E’ mio quest’intero inganno; ah, non ne ebbe il coraggio
lui, non poteva: ne attesto il cielo e le complici stelle!
Solo ebbe caro fin troppo il suo sventurato compagno”.
Tali parole gridava. Ma spinta con forza, la spada
ruppe le coste d’Eurialo e squarciò il suo candido petto.
Ecco piegarsi alla morte Eurialo, rivola sangue
lungo le belle sue membra, si china sugli òmeri il capo.
Proprio così dall’aratro un fiore purpureo reciso
nel suo morire languisce o chinano il capo sul collo
stanco i papaveri, quando per caso li grava la pioggia.
Niso però fa irruzione nel mezzo, a quell’uno fra tutti
punta, a Volcente, non ha che Volcente come bersaglio.
Ecco affollarglisi intorno i nemici, e da un lato e dall’altro,
a rintuzzarlo. Ma Niso resiste non meno e la spada
ruota fulmineo, finché nella gola al rutulo urlante
non la ricaccia, e morendo al nemico strappa la vita.
Sopra l’amico anche lui senza vita infine procombe:
là, nella placida morte trovò, crivellato, la quiete.
* * *
Morte di Turno – Eneide, libro XII, 919-952.
Mentre egli dubita, Enea fa oscillare il dardo fatale,
punta con gli occhi la sua fortuna e con tutto vigore
vibra lontano il suo colpo. Non fremono tanto le pietre
che da un ordigno murale si lanciano, né tali tuoni
rombano al fulmine. Simile a turbine cupo trasvola
l’asta portando la morte crudele e dilacera gli orli
della corazza e la cerchia estrema al settemplice scudo;
passa stridendo attraverso il femore. Còlto s’abbatte
Turno, possente qual è, ripiegando in terra il ginocchio.
Con un lamento si levano i Rutuli, tutto d’attorno
mugghia anche il monte e gran tratto riecheggiano il grido alti i boschi.
Egli da supplice, a terra, protesi i suoi occhi e la destra
alla preghiera: “Lo merito io, sì, non recrimino” esclama:
“godila tu la tua sorte. Però se d’un padre infelice
può mai toccarti il pensiero, io ti imploro (Anchise tuo padre
era lo stesso per te), la vecchiaia di Dauno compiangi,
e la mia spoglia, anche priva di vita, ove questo ti piaccia,
rendila ai miei. Tu mi hai vinto e tendere vinto le mani
m’hanno veduto gli Ausoni: Lavinia sarà la tua sposa:
non infierire più oltre nell’odio”. Aspro in armi ristette
gli occhi d’attorno volgendo, Enea, e represse la destra;
sempre di più cominciava ormai a piegarlo nel dubbio
quella preghiera, allorché brillò alto in spalla il ferale
balteo, da borchie ben note rifulsero allora le cinghie
del giovinetto Pallante, che Turno d’un colpo già vinse
e trucidò: sulle spalle ne aveva l’insegna nemica.
Ecco che Enea, come bevve l’emblema del truce dolore
e quelle insegne con gli occhi, acceso di furia e spietato
nella sua ira: “E così tu che indossi spoglie dei miei
troverai scampo da me? Pallante al mio colpo, Pallante
ti immolerà, dal tuo sangue assassino avrà sua vendetta!”
Sì, così dice e gli immerge attraverso il petto le spada,
fervido. Al giovane allora si sciolsero in gelo le membra,
e in un lamento la vita fuggì desolata fra l’ombre.
I commenti a questo post sono chiusi
Grazie Daniele per la traduzione in questi spartiti di musicale poesia che rendono il vigore dell’opera con sommo phatos nella lettura trascinante e apportatrice di grazia antica intrinseca al senso di un’opera immortale.
Magnifiche anche le immagini!