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Sciascitudine

sciasciauna segnalazione di Romano A. Fiocchi

Domenico Della Monica, Sciascia uomo solo. La vita e le battaglie civili di uno scrittore “scomodo”, Comunità Casa del Giovane, novembre 2014.

Libro anomalo. Autore un medico, da trent’anni appassionato di letteratura, scrittore di saggi e di racconti alla Čechov, collaboratore di pagine culturali, insomma uno di quelli che il nostro Effeffe chiama “volontari della cultura”. Come editore, non un editore vero ma semplicemente una comunità: quella della Casa del Giovane, dove si recuperano ragazzi sbandati e si insegna loro un mestiere – fra cui, appunto, stampare i libri. Eppure Sciascia uomo solo non è un libro da poco, basti dire che è stato presentato all’Archivio di Stato di Pavia insieme a Nicoletta Trotta del Fondo Manoscritti, il mitico fondo creato da Maria Corti, da cui sono emerse ovviamente anche lettere di Sciascia. Ma a tutto ciò l’autore sembra non dare importanza: per Della Monica queste cento pagine (guarda caso cento erano le pagine annue che scriveva quasi regolarmente Sciascia) sono solo un modo per pagare il suo debito di lettore a un maestro di vita, di scrittura, di nobiltà d’animo come non ce ne sono più. Sono cento pagine che sanno sintetizzare con scorrevolezza di linguaggio chi era e chi non era Leonardo Sciascia, i suoi rapporti con la politica, con i preti, con la religione, il suo amore viscerale per la Sicilia e per l’Italia, e i suoi libri, naturalmente: da quella Civetta, che lui non amava, sino A ciascuno il suo, a L’affaire Moro, al suo Candido, scritti come quasi tutti gli altri nella sua casa di Racalmuto.

Recensire quello che di per sé è già la recensione di una vita non aggiungerebbe nulla a quanto Domenico Della Monica ha già detto con parole ben calibrate. Ecco allora la scelta di proporre qui di seguito le pagine di introduzione, tra le più belle del libro. Pagine che racchiudono tutto il rammarico per un’assenza. Quasi ci rendessimo conto dell’autentica importanza di un bene solo quando l’abbiamo perso.

***

Da Sciascia uomo solo di Domenico Della Monica

Sono venticinque anni che la sua voce s’è spenta. Una voce che ci manca, mi manca.

Quella voce che nell’aula del Parlamento e nelle pagine dei giornali si scontrava aspramente nel giudizio sui rapporti tra Stato e Brigate Rosse e sui cosiddetti “professionisti dell’antimafia” con giornali e giornalisti famosi.

Era stato l’ultimo degli intellettuali italiani “impegnati” a vestire con onore questo aggettivo, dai primi anni Sessanta fino alla sua morte. Ci manca quella voce che non era mai prevedibile, la voce di un uomo che non stava né di qua né di là ma sempre a ridosso della ragione critica e illuminista; un uomo che veniva dalla sinistra ma che era impietoso con “i cretini di sinistra”, un uomo che ci ha insegnato a decrittare la parola mafia ma di cui erano inesorabili le sferzate nei confronti dei “professionisti dell’antimafia”.

È morto prima di vedere Tangentopoli e Giulio Andreotti accusato di essere in combutta con la mafia, e la consacrazione di Indro Montanelli da parte dell’opinione pubblica di sinistra laddove, anni prima, Sciascia era stato uno dei pochissimi a dirne bene. Non ha potuto vedere il degrado e la crisi dei nostri partiti, travolti dagli scandali, ben più squallidi e tristi di altri precedenti. Ci mancano le pagine che avrebbe scritto Sciascia, eccome se ci mancano.

Delle generazioni di intellettuali siciliani che hanno lasciato il loro marchio sulla storia letteraria e civile del nostro paese, veniva dopo Vitaliano Brancati, nato nel 1907, e dopo Elio Vittorini, nato nel 1908.

Era quasi coetaneo di Gesualdo Bufalino, nato a Comiso nel 1920, di cui era stato proprio Sciascia a scoprire e rivelare il talento.

Era siciliano al cento per cento, sicilianissimo. Lui, così parco di parole, sceglieva volentieri una parola siciliana a confidare un giudizio o un’emozione agli amici più fidati. Aveva conosciuto e amato Parigi ma anche la Spagna come nessun altro intellettuale italiano del secondo dopoguerra, ma era in quella sua casa di campagna della “Noce” che si ritirava a trovare il ritmo e l’arabesco di quelle cento pagine annue che erano divenute il suo stemma narrativo. Era stato lui una volta a ricordare una lettera di Blaise Pascal a un amico, dove Pascal si scusava di avere scritto così tanto: di scrivere breve non aveva trovato tempo.

Cento pagine o poco più. A cominciare da quel gioiello del 1956, Le parrocchie di Regalpetra, un libro che faceva i conti con il Neorealismo e li chiudeva. E poi i quattro magnifici racconti riuniti con il titolo Gli zii di Sicilia, i saggi dedicati a Luigi Pirandello e al pirandellismo, romanzi come Il contesto o Todo modo che facevano da metafora di un’epoca della politica italiana. E poi quei libri che si situavano a metà tra l’invenzione narrativa e l’indagine poliziesca, e a farne da spunto era la morte di un geniale fisico siciliano o il suicidio dello scrittore francese Raymond Roussel. E poi quel libro-pamphlet che non è forse il suo più bello, L’affaire Moro del 1978, ma certo quello che più facilmente torna alla memoria. E gli innumerevoli atti d’amore alla sua Sicilia, talvolta quei libri nati dalla sua collaborazione con Ferdinando Scianna, un siciliano di Bagheria, tra i più noti fotografi italiani. E poi le collaborazioni ai giornali, dal Mondo nuovo diretto da Lucio Libertini negli anni Sessanta alla Stampa degli anni Ottanta, passando per il Corriere della Sera.

Sulla prima pagina del quotidiano milanese, si era alla metà degli anni Ottanta, apparve un suo articolo il cui titolo e il cui contenuto gli sarebbero stati rinfacciati per sempre: “I professionisti dell’antimafia”. Questo articolo criticava in maniera severa un magistrato siciliano che era stato promosso perché appariva particolarmente meritevole nella “lotta alla mafia”. Quel magistrato si chiamava Paolo Borsellino, anni dopo dilaniato da una bomba mafiosa.

Al siciliano Sciascia non piacevano le consorterie, neppure quella dei “professionisti dell’antimafia” che aveva tra i suoi esponenti anche il sindaco di Palermo Orlando, un ex democristiano che aveva ottenuto notevoli consensi con le sue denunce dei misfatti della mafia (ma qualche magistrato palermitano ha avuto modo di raccontare che mai era venuta dal sindaco un’informazione importante, una pista valida a contrastare e combattere la mafia in concreto).

Agli occhi di Sciascia i professionisti dell’antimafia erano retori che sfruttavano a loro favore la rabbia sacrosanta dell’opinione pubblica contro la “piovra”.

Il criterio polemico era giusto, ma il nome scelto (Borsellino) quanto di più sbagliato.

Sono stato mal consigliato” confesserà più tardi Sciascia a Gianni Riotta.

Lo scrittore e Borsellino si incontrarono qualche anno dopo e Sciascia riconobbe di aver sbagliato.

Ho sempre trovato ignobile che alla morte di Borsellino i nemici di Sciascia abbiano potuto scrivere che quell’articolo abbia contribuito a “isolare” Borsellino, quasi a rendere più agevole l’azione dei suoi assassini. E dell’accanimento dei suoi nemici restano memorabili gli interventi di Arlacchi in due numeri successivi di Repubblica.

Parole non di critica ma quasi di insulto alla memoria di Sciascia, e che suscitarono furibonde reazioni tra gli amici dello scrittore.

E mi dispiace che il quotidiano romano (di cui sono assiduo lettore) fece più volte da punta di diamante dello schieramento avverso a Sciascia. Quest’ultimo e il direttore di Repubblica avevano più volte incrociato le lame della polemica: dissapori nati nel 1978, al tempo del rapimento di Moro, quando Sciascia venne tacciato di essere uno dei creatori dello slogan “Né con lo Stato né con le Brigate Rosse”, ciò che non aveva mai scritto né pensato. Innumerevoli volte smentirà che quello slogan gli appartenesse e lo condividesse. Giudicava, questo sì, che la classe dirigente italiana del tempo di Moro era moralmente indifendibile. E ognuno può essere d’accordo o meno con questo giudizio.

Sciascia era un uomo imprevedibile, come ogni spirito libero, al confine tra gli schieramenti e le opposte verità. Era sempre stato di sinistra, ma rinunciando alla sua vena liberale e libertaria; da intellettuale siciliano celeberrimo i comunisti avrebbero voluto utilizzarlo come una bandiera: riuscirono infatti a convincerlo nel 1975 a sedere in consiglio comunale di Palermo nelle loro file: ma si trovarono ben presto puntata in volto la sua lama polemica. E infatti l’esperienza durò poco, pochissimo.

Da antifascista, fu attratto dal destino di un intellettuale siciliano fascistissimo, Telesio Interlandi. A lui avrebbe dedicato le consuete cento pagine annue, se la morte non lo avesse fermato. La casa editrice Sellerio ha lasciato bianco quello che avrebbe dovuto essere il numero 200 della collana “La Memoria”, il libro su Interlandi. Poco prima di morire Sciascia consegnò a un suo amico, il giudice Enzo Vitale, i fogli e gli appunti che aveva preparato, tanto ci teneva a che un giorno quel libro venisse alla luce. Sciascia, uomo al confine tra due culture, era incuriosito dal personaggio Interlandi: si chiedeva com’è che un siciliano di talento avesse sconfinato nel reame dell’abiezione, quello della predicazione antisemita. Ai suoi occhi era un indizio tra i tanti di come i colori della vita siano chiaroscurali, di come ben poco sia interamente nero o interamente bianco.

La malattia era entrata da tempo nel suo sangue. Gli ultimi mesi furono molto dolorosi: fu un suo amico siciliano a battere a macchina il testo del suo ultimo libro Una storia semplice, pubblicato postumo da Adelphi. A Ferdinando Scianna un paio di giorni prima di morire confidò che vivere a quel modo non aveva più senso. Con la sua morte scomparivano i mille tratti della sua umanità, perché l’uomo Sciascia non era meno nobile dello scrittore, il suo cuore e la sua mente erano una sola armoniosa macchina di conoscenza e di vita. Spenti l’uno e l’altra, non ci resta che cercarli su uno scaffale. È il solo conforto che rimane a noi che l’abbiamo tanto amato.

Ma non ci basta. Non mi basta.

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gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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