Along Okema Road
di Glen Sorestad
(trad. di Angela D’Ambra / Renata Morresi)
I cervi coda-bianca venuti a pascolare emergono dal bosco dove
i giorni sono liberi da occhi indiscreti ed intrusioni umane.
Nella luce che recede sono insostanziali, uno con la foresta,
nel silenzio totale, apparizioni timide, cauti ma curiosi.
Langue il fulgore del tramonto; alberi e arbusti sfumano in un unico,
in lenta fusione nella notte nera. Per il momento,
in questo crepuscolo, il trascendente scende su Okema Road,
sulla foresta che cinge la strada e la costeggia, su tutto
e tutti, avvolto in una luce non di presagio, ma di equilibrio.
Questa è l’ora in cui camminare lungo Okema Road è passare
attraverso una storia che hai scritto tu stesso, una storia che puoi, volendo,
condividere, una storia adagiata nella mente come un seme addormentato.
(rm)
Sonagli scaccia-orso su Okema Road
In effetti, prima di scorgerlo, lo sento, là avanti,
oltre la curva, viene verso di me –
più un timbro basso che un acuto tinnire di sonagli,
un suono che assoceresti alla samba,
o a un gruppo di strada di musicisti andini.
Quando vedo apparire il podista, capisco
che l’avviso acustico non ha niente a che fare
con me, ma serve a evitare di farsi sgradita
sorpresa per gli orsi, o altre creature avverse
all’intrusione umana. Mentre s’appressa, smorza
i sonagli per il tempo dei saluti.
Va oltre, il suono riprende, dissolve gradualmente.
L’intera faccenda, per quanto mi colpisca come singolare
strategia preventiva, m’induce a chiedermi se
non sono incauto o scriteriato a camminare solo,
unico suono il crik, crok, crak metronomico
delle scarpe sulla ghiaia ad allertare le bestie selvatiche.
Non indugio sul pensiero. Se ci sono spiriti maligni
annidati in questi boschi, occasioni ne hanno avute
e m’hanno fatto passare. Seguirò a fare
quello che sto facendo, a mettere un piede davanti all’altro.
(ad)
Stamattina, verso le cinque, mi ha svegliato
l’insistente richiamo di un gufo.
Hu-hu, hu-hu.
Non so se fosse reale o striato,
grigio o bianco, di palude o bosco –
il gufo non l’ho proprio visto.
Hu-hu,-hu-hu,
pareva chiamasse proprio me dalla
finestra aperta della baita.
Era un presagio? Me lo chiedo adesso,
più tardi, nel giorno, quando il bubbolare torna
a risuonarmi forte nella mente.
Non lo vedrei come presagio o premonizione.
Nulla nell’articolazione o tono m’ha fatto
pensare un solo istante che vi fosse il mio nome
sulla lingua della creatura, o che l’uccello
inviasse il messaggio proprio a me. Forse se io
fossi un nativo della foresta sulle coste del Pacifico
per cui il verso del gufo è segno di morte imminente,
sarei incline a vedere in una simile visitazione
un sinistro preavviso, tale da rendermi folle
di terrore – ma non lo vedo affatto così,
forse perché mi ritengo uomo refrattario
agli assoluti di qualsivoglia credo. Fammi vedere.
Eppure, eppure…
se ricordo questo risveglio di buon ora
con esattezza e senza caricarlo di retorica,
trascorse molte ore dalla presenza della creatura,
cosa a cui ogni scrittore certo indulgerebbe,
mi pare di ricordare che il gufo bubbolasse verso me
da punti diversi in diversi momenti,
raggi di una ruota, il cui fulcro era la baita
in cui giacevo, gli occhi fissi a un lucernario
nella luce mattutina, le palpebre ancora grevi
di sonno quasi appesantite da un
paio di grossi penny con sopra Giorgio V.
(ad)
Nell’escursione serale per Okema Road m’imbatto
in una donna e un cane. Ci fermiamo a parlare. Il giovane
pastore tedesco ha in bocca qualcosa che pare
un cencio o un ampio panno di camoscio.
Mentre noi parliamo amabilmente, discutendo
le previsioni sul gelo notturno di settembre, il cane mi molla
il suo fradicio balocco sulla scarpa, poi balza
qualche metro indietro e s’acquatta, in trepidante attesa.
Oh, Rudy, lui non vuole giocare con te!
Il cane non l’ascolta, preso nel suo fervore.
Conosco il gioco. Raccolgo ciò che scopro essere
un pezzo di pelle di coniglio conciata, e lo lancio su Okema Road.
Rudy felice gli scatta dietro, strappandolo al cielo
come un frisbee prima che tocchi il suolo, poi vira,
ritorna, me lo deposita di nuovo sulla scarpa, guardandomi,
gli occhi accesi. Conosco il gioco. Lo lancio di nuovo.
Rudy forse fa finta d’acciuffare uno di quegli
scoiattoli volanti che abbiamo nei dintorni. Li ha visti ?
Mi dice che di solito li vede d’inverno, non ora.
Non ci siamo neppure presentati. Rudy è il comune
denominatore, il motivo per cui siamo qui a condividere
questo inespresso bisogno sociale. Gli animali fanno questo
Sono uscita solo per proteggere le erbe contro il gelo
e far fare una corsa a Rudy. Quasi fosse necessaria una scusa.
Rudy bracca la pelle di coniglio, finché lei non gliela toglie,
e la mette sulla barca rimessata dove Rudy non arriva.
Il cane scompare.
La donna dice che l’inverno è un tempo di gran pace qui
in questi boschi del nord – d’incredibile calma. Rudy torna,
stavolta serrando fra le fauci un coniglietto di gomma, e mette
il nuovo balocco al solito posto – la mia scarpa, ara di Rudy.
Rudy riconosce una cosa buona se la incontra.
Oh, Rudy, sei una vera peste! Meglio che non la trattenga,
o finirà la passeggiata al buio.
Risale il suo vialetto, scompare nella casa.
Rudy è sulla strada, il balocco imbottito nella morsa delle fauci,
ascolta lo scrocchio digradante delle scarpe, mi guarda
rimpicciolire e svanire nel buio in fondo a Okema Road.
(ad)
Non so dove la mia mente fosse andata a imboscarsi,
o se stesse cesellando qualche grande roccia grigia
nel subconscio, immagini o suoni non evidenti
che deflagravano come fuochi d’artificio, ma qualsiasi cosa
avvenisse a livello intellettuale o persino estetico
fu di colpo rimossa, l’immagine scultorea vacillò
e s’annichilì nel vuoto, l’istante stesso in cui lo scoiattolo rosso
stridé forte dal ramo dell’abete proprio sulla mia testa.
Barcollai di lato, sbigottito dallo stridore del suo subitaneo
SCRI-I-I-I-I-I-C che risvegliò, nel profondo di me, dove non so,
una nota prossima al panico, quasi avessi traversato a piedi
il deserto di Sonoran e mi fossi fermato, raggelato
dall’agghiacciante maraca di un crotalo diamantino.
Non ero preparato a questo. Ma perché mai la fragile, innocua
creatura aveva innescato in me, animale razionale, un così istantaneo
riflesso di fobia-e-fuga? Sono sul Lago Emma, santo cielo.
So che condivido questo spazio con gli scoiattoli – e sono
più che felice di farlo. È perché vogliamo la natura
alle nostre condizioni e non alle sue? Ora posso ridere
della mia ignoranza e del mio indegno timore, scrollarmeli di dosso
come un’aberrazione, ma so che non si tratta di questo.
(ad)
1.
Come la dolce
prima luce del sole
filtri tra
gli aghi
dell’abete nero
mentre l’acqua spinge
il suo passo necessario
lungo il duro
letto di rocce
2.
Come una lastra
di granito diventi
giardino dove muschi
e lichene precedono
pino e betulla,
come le radici torcano
se stesse fino a vincere
la terra, poi
corrano su in alto
a carezzare il sole.
(rm)
Installazione in corteccia di betulla
Mentre siedo qui, nel Capanno 6, computer in grembo,
in attesa che affiori un suono fulmineo o una forma,
qualcosa che io possa braccare fino a che non cede e mi dice
ciò che voglio sapere, lo sguardo mi si blocca su una cosa
sul pannello di legno che ho di fronte,
una cosa lasciata da un precedente inquilino.
Non è che prima mi fosse sfuggita
là, sulla parete, dove l’hanno messa –
in fondo è più che evidente,
questo ramo di betulla lungo due piedi
il diametro di un manico di scopa, diviso
in due dalla parte verso l’alto fissato con un angolo di 75 gradi
alla parete. In effetti, è difficile che sfugga.
Il nastro che fissa il ramo al suo posto
avvolge anelli di corteccia increspata e li separa,
e lega, assai ingegnosamente, un semplice pendente grigio
a un foro scavato nell’estremità del ramo, da lì resta sospeso,
col nastro che drappeggia il muro
come la delicata rafia verde d’un sapone North Woods.
Per qualcuno può trattarsi di un trastullo,
la conseguenza di troppo tempo libero. Forse.
Ma la disposizione precisa rivela intenzione,
un modo unico di appagare il bisogno
di dire: “Sono stato qui”. Graffito in corteccia di betulla.
L’anonimo creatore è stato accorto nell’usare
la finestra in modo che il gioco di luci
e ombre desse vita all’installazione.
Se non lo sapessi per certo, lo attribuirei
ad un amico artista, ma lui non è mai stato qui,
anche se gli piacerebbe questo pezzo, come pure
il motivo per cui è stato realizzato.
Non c’è dubbio, è un banale svago cui attribuisco
rilevanza e peso che nelle intenzioni non possiede.
Ma l’ho ammirato, diverse volte ormai,
negli ultimi tre giorni e sto iniziando
a pensarci come a un quadro di casa mia:
qualcosa che conviene al suo luogo soltanto,
qualcosa diventata parte decisiva della stanza,
qualcosa che è penetrata nella mia vita.
Anche se lascerò questo capanno, voglio
che questa arte di betulla resti qui, fino ad essere
non più una stranezza né per me, né per chiunque altro.
(ad)
Di là dalla baia erbosa una betulla bianca
Inclina di cinquanta gradi oltre la punta palustre dell’isola,
il suo debole biancore nella luce che rapida si attenua
dito ossuto che indica la via verso un dove,
non so dove. Qualcuno è responsabile
della marcata pendenza dell’albero?
frutto dello sforzo, forse, di segnare un chiaro appiglio
ai barcaioli, un inucshuk dei corsi d’acqua?
O forse la natura l’ha piegata
di sua scelta, questa betulla inclinata
che pallida ora scintilla sotto una luna crescente,
indicando una stella remota?
Chi non ha mai sognato una stella condivisa con qualcuno,
o ravvisato una luce speciale nella notte stellata?
Spesso associamo i nostri sogni e speranze alle stelle.
Chi non ha mai desiderato un amuleto astrale,
una luce nel buio foriera d’un suo proprio messaggio,
un segno cui appigliarsi per riassestare la propria vita?
È responsabile aggrapparsi a un sogno, riflettere
sull’inimmaginato? E tutto per una betulla
fattasi dito, spettrale segnaletica inclinata,
che indica chissà dove nella notte.
(ad)
La gamma meteorologica di oggi.
Primo mattino, sereno e calmo,
lassù, una lastra d’azzurro. Poi vento
che lancia una manciata di nuvole
tese a ghermirsi l’un l’altra,
e il sole dietro loro si nasconde
mentre il grigio si stende come un gatto.
Lontano, brontolii e cupe nubi di tempesta
incombono. Prima pioggia, soffice come foschia nebulizzata.
Quindi gocce rimbalzano sui ciottoli,
ticchete-tac. Subitaneo scoppio d’azzurro
quando le nubi,sciolta la banda, se ne ripartono
Vento fugge nella foresta e il lago
nel suo stesso riflesso s’addormenta.
(ad)
Sto finendo di cenare nella sala ristorante
quando uno dei cuochi nativi si avvicina al tavolo e mi dice:
“Vuoi vedere un bel luccio? Dai, vieni fuori, che te lo mostro.”
Lo seguo fuori dove ha disposto due pesci su un tavolo,
uno è un grosso persico. “Bel pesce!” Dico. “Cinque libbre buone.”
“Sei o più forse?” lui dice fiducioso, sul volto vivido è stampato
l’orgoglio del pescatore. “Sì, di certo una bella stazza,”
ammetto, con l’espressione navigata che usano i miei amici pescatori.
“Beccato proprio là,” mi spiega, additando i banchi d’alghe
che bordano il vicino canale unendo le due parti
del lago Emma. Ovviamente sa che mi piace pescare.
“Nel bel mezzo di quello slargo. Eh, me ne ha dato di filo da torcere. ”
Ribalta il pesce, delicatamente, quasi con reverenza, come se
questo splendido pesce fosse un prestigioso trofeo di valore, e chi
lo negherebbe? È il più grande persico che ho visto pescare
in questo lago – un premio, sempre, ovunque.
Per la testa mi nuotano molti pasti memorabili a base
di persici, così freschi e succulenti al gusto che avresti giurato
i filetti fossero imbevuti di nettare divino.
“Ci ricaverai un bel po’ di cibo da quel pesce,” gli dico e il suo sorriso
s’allarga, quasi l’idea della cena di famiglia gli illumini il viso .
La mattina dopo a colazione, di nuovo m’avvicina. “Senti,
quel pesce ci ha sfamati tutti e sette! Quei filetti erano spessi
così!” E col pollice e l’indice misura il ricordo.
“Scommetto che erano proprio buoni, anche.” Affermo l’ovvio.
Come risposta: la sua faccia felice, sfavillante regalo.
(ad)
Quattro Poeti americani che non hanno mai visto il Lago Emma,
Ma se l’avessero fatto …
Carl Sandburg
Giunge la pioggia
con soffice strascichio di suole
sul tetto del capanno,
sosta un istante,
poi procede.
Robert Frost
Qualcosa chiede di parlare in questo abete:
Il modo umile e desolato in cui i suoi rami gettano
Quasi il Creatore avesse giocato a tira e molla
Con le sue braccia tese in alto. Un triste soldato.
Queste conifere, dritte carabine, non si chinano.
William Carlos Williams
Così tanto dipende
da un verde carrello per valigie
con quattro ruote gommate
in attesa nel parcheggio
vuoto e fiducioso
a fianco di un abete nero
William Stafford
Fratello vento, quali nuove oggi?
Smetti un attimo di fare turbini
con le foglie di betulla e parlami
di tutti i luoghi in cui sei stato.
Forse rammenterai una casa,
abbandonata sulla pianura scabra,
polvere che s’aduna, brani di cuori
ancora là aggrappati, incluso il mio.
(ad)
Dieci anni e un giorno dopo l’11 settembre
per Peter von Tiesenhausen
Sono in un capanno sul Lago Emma a dieci anni e un giorno
dall’attimo esatto in cui il mio amico artista bussò
alla porta della baita e, quando aprii la porta,
mi annunciò che il mondo era completamente impazzito,
che i terroristi dirottavano aerei di linea
contro le torri gemelle a New York.
La passione nella sua voce mi convinse che l’umanità aveva
davvero raggiunto un altro crocevia e le prospettive
in ogni direzione apparivano ugualmente incerte e tetre.
Vorrei che il mio amico oggi fosse qui. Mi manca quella
speciale convinzione che portava con sé come un pennello,
la fede che potremmo cambiare il mondo se solo
avessimo volontà positive in quantità sufficiente da sgominare
quelle negative, quasi fosse una faccenda semplice
come scegliere le giuste sfumature per la tela.
Sì, c’è bisogno di più energie positive nella vita
e quando c’era lui mi sono nutrito, senza ritegno,
di quella passione, della sua incrollabile fede,
per cui ognuno di noi, fino al più irrilevante ciascuno,
fa la differenza. Sto aspettando
che bussi alla mia porta, ora, sebbene
so che non sarà. Ma so anche questo:
ovunque si trovi in questo istante,
anche lui sta ricordando, e ancora crede,
ancora è convinto che esistono minutissime crepe
nella tenebra immensa che ci assedia
e tutto quel che ci resta da fare è soltanto trovare fessure
e far entrare la luce.
(ad)
Questo sabato notte sono il solo abitante del campo –
scenario inconsueto, pure non inquietante per me,
benché i capanni, tutti tranne il mio, si staglino come lapidi.
Tengo stretto questo silenzio. Il sole è calato
e sulle quattro zampe il buio s’insinua nei boschi,
mentre esco per l’ ultimo giro prima dell’ultima luce.
Una daina coda-bianca mi guarda imboccare la pista battuta.
Come m’appresso, si scosta, in silenzio, svanendo dietro un arazzo
di gialle foglie d’avellano. Un piccolo daino, il suo cucciolo,
spunta da dietro un capanno e a balzi, come un canguro,
la segue. Un altro cerbiatto screziato, poi nulla più.
Nessuno del trio è un minimo distolto nella ricognizione.
Io sono solo una curiosità temporanea, un breve intermezzo
nel loro cercare. La notte lentamente ci avvolge tutti.
(ad)
*
White-tailed deer emerge to browse from deeper woods where
their days are free from prying eyes and human intrusions.
In falling light they are insubstantial, one with the forest,
moving in utter silence, hesitant wraiths, cautious but curious.
Sunset glow languishes; trees and undergrowth blur to oneness
in this slow merge into black night. For the moment,
in this twilight, otherworldliness descends on Okema Road,
upon the forest that holds the road and all along it, everything
and everyone, in a glow, not of ominousness, but of well being.
This is the time when to walk along Okema Road is to move
through a story of your own making, a story you may or may not
choose to share, one that will lie in the mind like a dormant seed.
I actually hear him before I see him, up ahead,
around the bend, moving in my direction –
more a flat rattle than a high tinkle of bells,
a sound you might associate with sambas,
or an ensemble of Andean street musicians.
When the jogger bobs into view, I realize
this auditory forewarning has nothing to do
with me, but is to avoid being an unwanted
surprise to bears, or creatures undesirous
of human intrusion. As he nears, he muffles
the bells until we’ve exchanged greetings.
He passes, the sound resumes, gradually fading.
All of which, while striking me as interesting
preventative strategy, makes me wonder whether
I am careless or foolhardy to be walking alone,
only the metronomic scrunch, scrunch, scrunch
of my shoes on gravel alerting wilderness beasts.
I don’t dwell on this thought. Any vile-tempered spirits
these woods harbour have had their opportunities
and they have passed on me. I’ll just keep doing
what I’m doing, putting one foot in front of the other.
I was awakened about five this morning
by the persistent calling of an owl.
Whoo-hoo, hoo-hoo.
I don’t know whether it was horned or barred,
grey or white, long-eared or earless —
I did not see the owl at all.
Whoo-hoo, hoo-hoo,
it seemed to call straight to me through
the open window of the cabin.
Was it an omen? I ask myself this now,
later in the day when the hooting returns
to resonate loudly inside my mind.
I’d rather not see this as omen or a premonition.
Nothing in the articulation or tone made me
think for a moment it was my name
on the creature’s tongue, nor that the bird
intended its message just for me. Perhaps if I
was of the Pacific Coastal People of the rainforest
who link the call of the owl with impending death,
I would be predisposed to view such a visitation
as a dark precursor, enough to set every nerve
on edge – but I don’t see it this way at all,
perhaps because I regard myself as one who resists
absolutes of most belief systems. Show me.
But then, but then…
if I am recalling this early awakening
with accuracy and not creating specifics
in the aftermath of the creature’s presence,
something any writer might well incline to do,
I seem to remember the owl hoo-hooed at me
from different locations at different times,
spokes on a wheel, the hub being the cabin
where I lay, my eyes looking out a skylight
at the morning light, my eyelids still heavy
with slumber as if they were weighted down
beneath a pair of large George V pennies.
On my evening hike along Okema Road I meet
a woman and a dog. We stop to chat. The young
German Shepherd carries in its mouth what could
be a rag, or an extra large chamois cloth.
As the woman and I exchange pleasantries and discuss
the September night’s frost forecast, the dog drops
its soggy plaything on my shoe, then springs back
a few feet, crouches, and quivers with anticipation.
Oh, Rudy, he doesn’t want to play with you!
The dog pays no attention, locked in its trembling.
I know the game. I pick up what turns out to be
a piece of tanned rabbit skin, fling it up Okema Road.
Rudy happily sprints after it, snatching it from the air
like a frisbee before it touches down, then wheels,
returns, deposits it on my shoe again, looking up at me,
eyes aglow. I know the game. I throw it again.
Rudy probably pretends he’s catching one of those
flying squirrels we have around here. Have you seen any?
She tells me she sees them in the winter, not now.
We have not even exchanged names. Rudy’s the common
denominator, the reason for being here, for sharing
this unspoken social need. Animals do that for us.
I just came out to cover up the herbs against the frost
and give Rudy a run. As though an excuse was necessary.
Rudy chases the rabbit skin, until she takes it from the dog,
placing it atop the trailered boat where Rudy can’t reach it.
The dog disappears.
The woman tells me winter is a time of great peace here
in these northern woods — incredibly quiet. Rudy returns,
this time, a toy bunny clamped in its jaws and lays
the new toy in the usual spot — my shoe, Rudy’s altar.
Rudy knows a good thing when it comes his way.
Oh, Rudy, you’re such a pest! Look, I’d better not keep you,
or you’ll be finishing your walk in the dark.
She turns up her walkway, disappears into her home.
Rudy sits on the road, stuffed toy clenched in its jaws,
listening to the waning scrunch of my shoes, watching
me grow smaller and fade into the dark down Okema Road.
I am not sure where my mind had gone to hide,
or whether it was chiselling away at some large grey stone
in the sub-consciousness, unapparent images or sounds
bursting like fireworks, but whatever may have been
happening on an intellectual or even aesthetic level
was abruptly obliterated, the sculpture image toppled
and zapped into the void, the precise moment the red squirrel
shrilled loudly from its spruce limb just above my head.
I lurched sideways, taken aback by the stridence of its sudden
CHIR-R-R-R-R-R, which struck a note of near panic
somewhere deep inside me¸ as if I had been walking
through the Sonoran desert and had been stopped cold
by the chilling maraca of a diamondback rattlesnake.
I was not ready for it. But why should this tiny, harmless
creature have triggered in me, rational animal, such instant
fright-and-flight reflex? I am at Emma Lake, for godsake.
I know I share this space with squirrels – and I am
more than happy to do so. Is it because we want nature
on our terms and not on its own? I can now laugh
at my ignorance and my unseemly fear, shrug it off
as an aberration, though I know it’s nothing of the kind.
1.
The way the soft
first light of dawn
feels its way
through needles
of black spruce,
as water pries
its inexorable path
through dense
hardness of bedrock.
2.
The way a slab
of granite becomes
a garden where mosses
and lichen precede
birch and pine,
the way roots will
themselves to gain
a hold, then
drive upwards
to court the sun.
As I sit here in Cabin 6, notebook on my lap,
awaiting a quick sound or image to surface,
one I can chase until it gives in and tells me
what I want to know, my gaze locks on something
on the wood panel wall facing me,
something left behind by a previous occupant.
It’s not that I have failed to see it before
where it has been placed on the wall —
after all, it’s more than obvious,
this two foot length of birch branch,
the diameter of a broom-handle, forked
at the upper end, fastened at a 75 degree angle
on the wall. Indeed, it’s hard to miss.
The wire holding the branch in place
enwraps several birch bark peelings from larger limbs,
and most ingeniously, a plain grey medallion,
wired through a hole in its edge, suspended
from the birch, the wire festooned at the wall
with a jaunty green North Woods soap wrapper.
It may well be someone’s idea of a joke,
the result of too much idle time. Maybe.
But its precise positioning suggests deliberation,
some unique way of satisfying the need
to say, “I was here.” Birchbark graffiti.
The anonymous creator exercised care in using
the window’s position so the play of light
and shadows becomes vital to the installation.
If I didn’t know better, I’d attribute this
to an artist friend, but he hasn’t been here,
though he’d love this piece, just as he’d love
the motive that drove the installation.
No doubt it’s a mere lark, one that I’m imbuing
with unintended relevance and weight.
But I’ve been admiring it, at times now,
over the past three days and I’m beginning
to think of it as I do of a painting at home —
something that just belongs where it is,
something become an irrevocable part of the room.
something that has insinuated itself into my life.
Though I will leave this cabin behind, I want
this birch art to remain where it is, until it is
no longer a curiosity to me or anyone else at all.
Today, the meteorological gamut.
Early morning, cloudless and still,
a blue plate overhead. Then wind
tosses in a handful of clouds,
reaching out to clasp one another,
and the sun hides behind them
as greyness settles like an old cat.
Distant mutters as dark thunderclouds
loom. First rain, soft as sprayed mist.
Then raindrops ricochet off shingles,
chatter-clatter. Sudden burst of blue
as clouds part company and leave.
Wind flees into the forest and the lake
falls asleep in its reflection.
Across the grassy bay a paper birch
leans fifty degrees out over the marshy island point,
its wan whiteness in fast falling light
a bony finger pointing the way to somewhere,
I know not where. Is someone responsible
for the tree’s pronounced tilt –
some attempt to mark a visible bearing
for boaters, a waterways inukshuk?
Or could it be nature has managed this
of its own accord, this leaning birch
now gleaming pale under a rising moon,
pointing to a distant star?
Who has never fancied a star shared with another,
or singled out one special light in the starlit night?
Often we accord to stars our hopes and our dreams.
Who has never sought a galactic talisman,
some light in the dark bearing its own message,
a marker we can fix upon to untilt our own lives?
How responsible to hold a dream, to ponder
the unimagined? All this about a birch
become a finger, a ghostly signpost leaning,
pointing somewhere in the night.
I am finishing my evening meal in the dining hall
when one of the Native cooks strolls over to my table and says,
“You wanna see a nice pickerel? Come on out, I’ll show you, eh.”
I follow him outside to where he has two fish laid out on a table,
one, a fat walleye. “Nice fish!” I say. “A good five pounds.”
“Maybe six or more?” he says hopefully, his face a slick ad
for angler’s pride. “Yes, it has broad shoulders, for sure,”
I agree, a fishing expression favoured by my fellow anglers.
“Caught it right out there,” he offers, pointing to weed beds
that border the nearby channel connecting two distinct parts
of Emma Lake. He is obviously aware that I like to fish.
“Right in the middle of that opening. Put up a really good fight, eh.”
He turns the fish over gently, almost with reverence, as if
this splendid fish were a prestigious badge of merit and who
can say it is not? It is the largest walleye I have seen taken
from this lake — a prize anytime, anywhere.
Swimming through my head are many memorable meals
of walleyes so fresh and so succulent on the tongue you’d swear
the fillets were imbued with the nectar of the gods.
“You’ll get a great feed from that fish,” I tell him and his grin
widens, as the family dinner table image lights his face.
Next morning at breakfast, he finds me again. “You know,
that fish fed all seven of us, eh! Those fillets were so thick,
like this!” His forefinger and thumb measure the memory.
“I’ll bet it tasted real good, too.” I am stating the obvious.
His response – a face gift-wrapped in happiness.
Four American Poets Who Never Visited Emma Lake,
But If They Had…
Carl Sandburg
Rain comes along
with a soft-soled shuffle
on the cabin roof,
stays a short while,
then moves on.
Robert Frost
Something wants saying about this spruce –
The homely, forlorn way its limbs droop
As if the Creator had been playing fast and loose
With its upward-reaching arms. A somber troop –
These conifers, ramrod straight, refuse to stoop.
William Carlos Williams
So much depends
upon a green luggage cart
with four rubber wheels
waiting in the parking lot
empty and expectant
alongside a black spruce
William Stafford
Brother Wind, what news today?
Stop a moment in your turning
of birch leaves and speak to me
of all those places you have been.
Perhaps you will recall a house,
abandoned on the gritty plain,
the gathering dust, shreds of hearts
still clinging there, including mine.
Ten Years Plus a Day After 9/11
for Peter von Tiesenhausen
I am in a cabin at Emma Lake ten years plus a day
from the precise moment my artist friend knocked
on the door of my cabin, and when I opened the door,
announced the world had gone completely mad,
that terrorists were flying airliners
into the World Trade Towers in New York City.
The passion in his voice convinced me humanity had
indeed reached another crossroads and the prospects
in every direction looked equally uncertain and bleak.
I wish my friend were here today. I miss that
singular conviction he carried like a paint brush,
his belief we could change the world if only we
willed positives in sufficient numbers to overwhelm
the negatives, as if it were all a simple matter
of choosing the right hues for the canvas.
Yes, we need more positives in our lives
and when he was here I fed off them, unashamedly,
off that passion and unshakeable conviction
that all of us, each last insignificant one of us
can make a difference. I am waiting now
for his knock on my door, even though
I know it will not happen. I do know this:
wherever he may be right now,
he is remembering, too, still believing,
still convinced that there are the tiniest cracks
in the vast darkness that surrounds us
and all we have to do is find the fissures
and let in the light.
I am the camp’s lone occupant this Saturday night —
an unfamiliar scenario, but one I do not find disquieting,
though all cabins but mine loom, still as tombstones.
I hold this silence to myself. The sun has dropped
and darkness creeps four-footed through the woods,
as I step out for a final stroll before the last light.
A white-tailed doe eyes me as I tread the worn path.
As I near, she steps silently aside to fade behind an arras
of yellow hazel nut foliage. A smaller deer, its offspring,
emerges from behind a cabin and bounces, kangaroo-like,
after the doe. A second dappled fawn, then no more.
None of the trio is the least deterred from its browsing.
I am merely a temporary curiosity, a brief interruption
in their foraging. Night slowly tucks us all in.
*
Along Okema Road è una sequenza inedita. Renata Morresi ne ha tradotto due testi: Evening Settles on Okema Road e Amazing; le restanti poesie sono tradotte da Angela D’Ambra.
*
Glen Sorestad è nato a Vancouver e si è trasferito nelle praterie a dieci anni. È cresciuto in una fattoria nel Saskatchewan centro-orientale, frequentando una scuola di campagna d’una sola stanza. Ha insegnato a scuola per oltre venti anni. La sua prima raccolta è Prairie Pub Poems (Anak 1973). Nel 1975 ha co-fondato Thistledown Press con la moglie Sonia. Scrive poesie e racconti. È stato redattore e co-redattore di molte antologie. Ha pubblicato oltre venti raccolte poetiche, oggi tradotte in varie lingue, tra cui francese, spagnolo, norvegese, sloveno e afrikaans. L’ultima silloge è A Thief of Impeccable Taste (Sand Crab 2011).
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Queste traduzioni sembrano conservare intatto l’incanto attardato sulle immense selve…
Gran bel lavoro , brave
Fine traslation indeed. :)
What a treat to read these thoughtful and lyrical woodland meditations.
A wonderful way to start the morning, there being the telling of truth so evident it rushes over me like a tsunami cleansing the beaches of my mind and dragging the detritus of previous days away. Congratulations!
You certainly capture the flavour of the Saskatchewan north. What great fun to see your version of how other poets
might respond to that landscape.
Che meraviglia!
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