La fuga romanzesca. Note su “La Lentezza” e “L’identità” di Milan Kundera

di Massimo Rizzante

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La Lentezza: breve formato; struttura che si sviluppa dall’inizio alla fine a partire da un solo nocciolo; articolazione in corti capitoli dove il tema viene costantemente rielaborato; principio di imitazione, che regge tanto la costruzione dei personaggi quanto quella tematica.
Le due caratteristiche fondamentali della fuga musicale: la composizone in contrappunto, prodotta dalla presenza di due o più voci legate ma autonome (polifonia, che per il romanzo, non potendosi dare uno sviluppo simultaneo, non deve naturalmente intendersi come in musica); monotematismo.
È vero: anche Bach si è allontanato da una di queste due caratteristiche, costruendo una fuga su più temi. Qualcuno ha detto, forse a ragione, che ogni fuga è un caso a sé, dal momento che non possiede una tonalità. In effetti, la fuga è nata prima della codificazione della tonalità e ha avuto il suo apogeo nel periodo barocco. Ma non si deve dimenticare – e Kundera certo non lo fa – che essa ha incontrato i favori del tardo Beethoven, e poi di Stravinskij e soprattutto di Schönberg – «gli eredi integrali (e probabilmente gli ultimi) di tutta la storia della musica», ha affermato una volta l’autore dei Testamenti traditi. Senza contare la venerazione, in particolare di Schönberg, nei confronti di Bach, che il compositore viennese era solito chiamare, scherzando, «il primo compositore dodecafonico»!

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Ciascuno dei tre romanzi – La lentezza, L’identità, L’ignoranza – è un caso del tutto specifico di fuga romanzesca. Tuttavia, la cosa importante è che le caratteristiche fondamentali del modello musicale sono presenti in tutti e tre.
Prendo, ad esempio, il primo capitolo della Lentezza.
L’autore e sua moglie Vera desiderano trascorrere un week-end in un château-relais fuori città, in campagna. L’autore, mentre guida, osserva attraverso lo specchietto retrovisore un’auto il cui conducente, «come un rapace che fa la posta a un passero», vuole superarlo. Vera, al suo fianco, gli dice: «Sulle strade francesi ogni cinquanta minuti muore un uomo. Guardali, tutti questi pazzi che corrono accanto a noi […] Com’è possibile che quando guidano non abbiano paura?». L’autore vorrebbe risponderle. Di fatto, la sua risposta si trasforma in una riflessione che si conclude così: «La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo». Poi, si ricorda di un’americana, conosciuta trent’anni prima, una sorta di «militante dell’erotismo». L’orgasmo, per lei, doveva essere raggiunto il più in fretta possibile fino all’«esplosione estatica, unico vero fine dell’amore e dell’universo». Poco dopo si domanda: «Perché è scomparso il piacere della lentezza?». Guarda di nuovo nello specchietto retrovisore: dietro c’è sempre lo stesso conducente che, impaziente, freme per superarlo. A questo punto pensa a un altro viaggio, da Parigi alla campagna: quello di Madame de T. e del suo giovane cavaliere, protagonisti della novella di Vivant Denon Senza domani, pubblicata nel 1777. Rivive «l’ineffabile atmosfera che li circonda», che nasce «appunto dalla lentezza del ritmo», dal loro percorrere la distanza, tra un sobbalzo e l’altro, in carrozza.
Fin dalll’inizio la forma della fuga è presente: il tema (soggetto in musica) della lentezza, sebbene in modo ironico attraverso il suo contrario, la velocità, è esposto dalla prima voce, Vera. Per il principio di sovrapposizione, proprio della fuga musicale, la voce di Vera è imitata, cioè ripresa, dalla voce – in questo caso silenziosa – dell’autore che risponde alla prima (nel linguaggo musicale è così che si designa tale trasposizione in un’altra tonalità e per mezzo di un’altra voce dello stesso tema: risposta), attraverso la sua riflessione. In seguito una terza voce, quella dell’americana (grazie alla mediazione dell’autore) entra ed espone, annunciando in contrappunto ciò che in musica si chiama controsoggetto, un elemento tematico subordinato al soggetto o tema, ovvero «il piacere», e come Vera, lo fa ironicamente attraverso il suo contrario, esaltando il coito spogliato di ogni sensualità. Ora entra di nuovo in scena la voce dell’autore e, grazie a un’unica domanda o, se si vuole, nello spazio di una sola battuta, enuncia il tema (soggetto) e il contro-tema (controsoggetto): «Perché è scomparso il piacere della lentezza?». Questa domanda, che è il nucleo a partire dal quale viene creata l’intera opera, lo porta a sognare un altro viaggio dove la lentezza e il piacere avevano un altro peso e giocavano ben altro ruolo nella vita degli uomini e delle donne. Da questo momento, e fino alla fine del romanzo, l’uno e l’altro non saranno più abbandonati.

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Il procedimento imitativo, fondato su una struttura monotematica, fa sì che ogni personaggio (l’autore, Vera, l’americana, Madame de T., il cavaliere e quelli che faranno la loro comparsa nel corso del romanzo, Vincent, Berck, Pontevin, Machu, Immacolata, l’entomologo ceco) esplori un aspetto specifico del tema (o del contro-tema). Non solo. Tutti loro, come le voci in una fuga musicale, si dispiegano sullo stesso piano, sono privi di gerarchia. Nessuno di loro domina sugli altri e questo – cosa essenziale – al di là del maggior o minor spazio che occupano. In una fuga romanzesca, ancor più che nei romanzi scritti precedentemente da Kundera, non ci sono personaggi principali o secondari, tutti partecipano alla costruzione e all’esplorazione polifonica del tema.

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C’è un altro aspetto molto importante e che appartiene solo a questa fuga romanzesca (e non alle due successive, L’identità e L’ignoranza) che è La lentezza. Alla polifonia delle voci o dei personaggi che si alternano seguendo un principio imitativo, si aggiunge nel romanzo un’altra polifonia, quella relativa alle quattro possibilità formali (forme, non registri stilistici, la cui varietà e coesistenza all’interno di uno stesso romanzo è già comune nel XIX secolo) che lo stesso Kundera, unico grande erede di Broch e del suo tentativo incompiuto con I sonnambuli di integrare diverse forme (saggio, novella, reportage, poesia) in un’opera romanzesca, enumera sin dal suo primo saggio, L’arte del romanzo: a) il pensiero che, attraverso la riflessione saggistica (quella che si trova, ad esempio, già nel primo capitolo de La lentezza), amplia le frontiere cognitive del romanzo b) l’incontro di tempi storici (il XX secolo dell’autore e di sua moglie Vera con il XVIII secolo di Laclos) c) l’immaginazione (o il sogno) che, grazie all’incontro di due epoche, spinge il romanzo oltre il regime della verosimiglianza e fa incontrare alla fine del romanzo il giovane cavaliere e Vincent vestito da motociclista d) il gioco che, grazie al suo corteo di coincidenze tanto casuali quanto necessarie, indica al lettore che ciò che sta leggendo è opera di un artefice. Come nel caso delle voci o personaggi, anche per le diverse forme vige il principio polifonico di non subordinazione, tipico della fuga. Grazie ad esso, riflessione saggistica, sogno, incontro di tempi storici e gioco sono posti sullo stesso piano, hanno lo stesso valore e la stessa libertà, cosa questa che, last but not least, depotenzia la story, che da colonna portante del romanzo, come è di solito, diventa una possibilità formale fra le altre, la quinta forma.

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L’identità: stesso breve formato de La lentezza, stessa struttura monotematica, stessa articolazione in brevi capitoli, perfino stesso numero di capitoli, cinquantuno; stesso principio imitativo grazie al quale le voci dei personaggi espongono ed esplorano il tema.

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Un tema, nella concezione kunderiana, è una domanda. In questo caso: che cos’è l’identità di un individuo?
All’epoca della redazione del romanzo, Kundera stava scrivendo un saggio sull’opera pittorica di Francis Bacon, uscito nel 1996 come introduzione a un catalogo e poi pubblicato in Un incontro (2008), dove si può leggere: «I ritratti di Bacon sono un’interrogazione sui limiti dell’io. Fino a quale grado di distorsione un individuo resta ancora se stesso? Fino a quale grado di distorsione un essere amato resta ancora un essere amato? Dov’è la frontiera, al di là della quale un “io” cessa di essere un “io”?». Alla fine del saggio, osservando soprattutto i quadri intitolati Studi sul corpo umano, Kundera afferma che Bacon, attraverso i suoi dipinti, ci mette di fronte a qualcosa di essenziale: al di là di tutti i suoi sogni, i suoi entusiasmi, le sue illusioni, l’uomo è fondamentalmente il suo corpo. Non solo. L’artista ci fa intravedere anche il «carattere accidentale» del nostro corpo, come se un «Demiurgo» ci avesse intrappolato «per sempre con questo “accidente” del corpo che ha fabbricato nel suo laboratorio e di cui noi, per qualche tempo, siamo costretti a diventare l’anima». Ed è questa rivelazione improvvisa del «carattere accidentale» del nostro corpo che, conclude Kundera, ci spronfonda in un orrore del tutto particolare, che non ha niente a che vedere con quello che siamo soliti provare di fronte alle sofferenze, alle guerre e alle catastrofi.
Identità e corpo saranno il tema e il contro-tema o meglio il soggetto e il contro-soggetto della seconda fuga romanzesca di Kundera.

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Due esseri umani che si amano: Chantal e Jean-Marc. Lei, dopo un matrimonio fallito, un figlio morto e un passato che desidera cancellare, lavora in un’agenzia pubblicitaria. Sebbene non ami granché il mondo che la circonda e abbia scelto la sua professione più per guadagno che per passione (avrebbe preferito insegnare), sembra una donna che ha conquistato la sua autonomia e che di questa conquista è soddisfatta. Jean-Marc ha frequentato la facoltà di medicina per poi abbandonarla. Da quel momento, disilluso e convinto di non possedere alcuna vera vocazione, ha cambiato parecchi lavori. L’incontro con Chantal, di quattro anni più vecchia, dà una direzione alla sua vita. Tutto tra i due sembra procedere senza intoppi, ma l’amore, come è noto, ha una dura contropartita: la paura di perdere l’essere amato.
Nel primo capitolo del libro – siamo un paesino della Normandia dove i due amanti hanno deciso di trascorrere un weekend – Chantal, che è giunta nella località un giorno prima di Jean-Marc, entra nel ristorante dell’albergo per cenare. Nessuno la bada. Il televisore è acceso. La trasmissione che sta andando in onda parla di gente scomparsa: si chiama Perso di vista. Un’anziana cameriera, le si rivolge, esclamando: «Ma ci pensa? Una persona che le è cara sparisce, e lei non saprà mai che cosa le è successo! C’è da diventare pazzi!». Fin dall’inizio il tema (o soggetto) della fuga romanzesca è esposto dalla prima voce, Chantal, che, grazie al titolo di una trasmissione televisiva, si interroga su come in un mondo come il nostro, dove ogni nostro passo è sorvegliato dalle telecamere e dove «non si può nemmeno far l’amore senza dover rispondere il giorno dopo a inchieste e sondaggi», qualcuno possa scomparire senza lasciare tracce. Se le accadesse di perdere di vista Jean-Marc che farebbe? Non potrebbe far altro che «immaginare» e cadere nell’«orrore».
Quel che succederà a Chantal e a Jean-Marc sarà esattamente questo: si perderanno di vista e cadranno nell’immaginazione e nell’orrore per poi ritrovarsi. Ultimo capitolo (51). Scena finale: i due amanti sono a letto. Jean-Marc ha la testa appoggiata al cuscino, mentre quella di Chantal è «a pochi centimetri» dal suo viso. «Lei diceva: “Non staccherò più gli occhi da te. Ti guarderò continuamente». E ancora: «Ho paura quando le mie palpebre si abbassano. Paura che nell’attimo in cui il mio sguardo si spegne al tuo posto si insinui un serpente, un ratto o un altro uomo”».
Per perdere chi si ama non occorre attendere che scompaia nel nulla, è sufficiente che per un attimo le nostre palpebre si abbassino, ponendoci di fronte, come in un brutto sogno, in un incubo, un altro uomo, un’altra donna, che non riusciamo a riconoscere. Com’è possibile che all’improvviso un individuo, e soprattutto un individuo amato, ovvero colui che abbiamo elevato al disopra di tutti, il più riconoscibile di tutti, perda la sua identità?
Nel secondo capitolo, all’esposizione del soggetto della fuga romanzesca, si aggiunge una coda, un breve e libero frammento che di solito precede l’esposizione del soggetto da parte della voce seguente, cosa che puntualmente avverrà con l’entrata in scena di Jean-Marc. Chantal fa un sogno, dove le appaiono alcune figure del passato, fra cui quella del marito, che stranamente non possiede le fattezze della persona che ha conosciuto, e quella della sua nuova moglie, che non ha mai visto. Quest’ultima la bacia con forza infilandole la lingua tra le labbra. Chantal rabbrividisce: «Due lingue che si leccano le hanno sempre dato una sensazione di disgusto». In questa breve coda la prima voce, dopo aver esposto il tema principale, annuncia il controsoggetto, il corpo, sviluppando allo stesso tempo una riflessione sul potere dei sogni, sulla loro capacità di «abolizione del presente», di imporre un segno di uguaglianza tra le diverse epoche della nostra vita, confondendo i tratti degli individui che conosciamo o addirittura sostituendoli con quelli di uno sconosciuto. Tuttavia, la cosa essenziale è che per Chantal un bacio, grazie al potere deformante del sogno – è una donna che la bacia, una sconosciuta –, diventa un disgustoso scambio di saliva. Il sogno, paradossalmente, le mostra la nudità del bacio, la sua disgustosa corporeità, e con essa l’assoluta «accidentalità» del corpo che qualcuno, un «Demiurgo», come afferma Kundera davanti ai quadri di Bacon, o un «regista», come l’autore fa dire a Chantal, ha scelto per noi e che noi siamo costretti ad abitare. Da questa rivelazione nasce il «malessere», il «disgusto», quel particolare «orrore» – così diverso da quello che si prova davanti alle catastrofi, alle guerre, alla sofferenza umana – che accompagnerà Chantal per tutto il romanzo. L’orrore, inoltre, è, se possibile, acuito da un’ulteriore scoperta: che il «regista» della nostra vita notturna è lo stesso della nostra vita diurna e che perciò la frontiera tra il sogno e la realtà, come quello tra un individuo e un altro, tra un’identità e un’altra, è invisibile. Basta un attimo, un movimento delle palpebre, per perdere di vista l’identità di un individuo, perfino di colui che amiamo, per perderci noi stessi. Non siamo padroni di nulla: né del nostro corpo né della nostra identità.

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Nel terzo e quarto capitolo entra in scena Jean-Marc. Ha deciso di andare a Bruxelles a far visita a F., un amico morente (per questo arriverà un giorno dopo all’appuntamento con Chantal in Normandia). Si erano conosciuti al liceo. Poi aveva smesso di vederlo. Si era sentito tradito. L’amicizia, dirà Chantal, è «una romanticheria» maschile. Quando lo vede sul letto d’ospedale non lo riconosce. La sua testa gli sembra quella «mummificata di una principessa egiziana morta da quattromila anni». I due cominciano a parlare. F. gli ricorda di come all’epoca del liceo fosse convinto che un «bel corpo» non servisse ad altro che a «produrre secrezioni». Jean-Marc, secondo F., era d’accordo, tanto che gli avrebbe risposto che gli bastava vedere «sbattere gli occhi» a una ragazza per «provare disgusto». In realtà, Jean-Marc non ricorda nulla delle loro conversazioni d’allora. Il soggetto dell’identità, enunciato dalla prima voce Chantal, è ora imitato dalla seconda voce Jean-Marc. Non solo il sogno azzera le epoche storiche, anche l’oblio lo fa: chi era quel «moccioso» di sedici anni che frequentava F.? Jean-Marc non lo sa. La terza voce, quella di F., dialogando con la seconda, propone di nuovo il controsoggetto, il corpo, concepito dalla prima, dalla seconda e dalla terza voce allo stesso modo: come una fabbrica di secrezioni verso cui si prova disgusto. Con la differenza che la seconda voce non si riconosce più nelle sue stesse parole riportate dalla terza, quella dell’amico. Ciò significa che Jean-Marc è cambiato? E da quando? Da quando ha smesso di guardare disgustato il corpo come un laboratorio? Forse da quando si è innnamorato di Chantal? In realtà, come lui stesso rifletterà molto più in là (cap. 21), ricordando il dialogo con F. all’ospedale, per molto tempo non aveva fatto altro che dimenticare «quel perpetuo battere della palpebra». In fondo, soltanto se sottostiamo «il contratto che ci impegna all’oblio» e che ci permette di concepire l’occhio come «finestra dell’anima», «luogo dell’identità» individuale e non come «uno strumento che ci consente di vedere e che ha costantemente bisogno di essere deterso», possiamo amare qualcuno.
Quando si dice che l’amore è cieco, si va in fondo a una verità tanto banale quanto ineliminabile: l’amante, attraverso il corpo dell’amata, raggiunge la sua identità, ma per fare questo deve credere che il suo corpo ne sia l’espressione fedele, deve, in altre parole, dimenticarne il funzionamento. Appena il corpo mostra la sua autonomia – uno sbattere delle palpebre, una vampata di calore, un rossore determinato dalla menopausa, com’è nel caso di Chantal –, l’identità dell’amata va perduta, ci si ritrova davanti a un viso sconosciuto. Appena l’amante apre gli occhi sulla realtà corporea del mondo precipita paradossalmente nell’«immaginazione» e nell’«orrore». Siamo di fronte a un romanzo d’amore, certo, nella misura in cui, tuttavia, l’amore, più di ogni altro sentimento, mette alla prova l’identità di un individuo.

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Nella fuga romanzesca non esistono dettagli e motivi. Perché? Perché l’elemento più piccolo è già il tutto. Perché non esiste propriamente uno sviluppo. Perché quello che sembra un dettaglio o un motivo è solo un modo di manifestarsi del tema. Il tema, fuggendo incessantemente da un personaggio all’altro, da una situazione all’altra, rivela le identità dei personaggi, i quali, seguendo un procedimento imitativo e contrappuntistico, esplorano, ciascuno a suo modo, un aspetto particolare del tema.
Fra i molti esempi che ne L’identità si potrebbero scambiare per dettagli e motivi (il dettaglio, ripetendosi forma un motivo), e che lo sarebbero in un altro contesto formale (la saliva, il grido, il battere del martello, lo sbattere delle palpebre), ne prendo uno che dovrebbe dirci qualcosa sull’identità di Chantal e Jean-Marc, allo stesso tempo, sul modo in cui Chantal e Jean-Marc vivono la propria identità: le vampate di calore che, dall’inizio alla fine del romanzo (capitolo 49), segnano la menopausa della protagonista. Al capitolo 5, dopo una brutta nottata (quella in cui sogna l’ex marito e la sua nuova moglie che le infila la lingua in bocca), Chantal, in attesa dell’arrivo di Jean-Marc, è sulla spiaggia. Osserva con sarcasmo una schiera di uomini alle prese con passeggini e bebé e pensa che si siano «papaizzati», abbiano cioè perduto sia la loro autorità di padri sia la loro virilità. Nessuno, si dice con ironia, si volterebbe a guardarla. Poco più in là, al capitolo 8, Jean-Marc, che nel frattempo era andato sulla spiaggia a cercare Chantal e l’aveva scambiata per un’altra, torna alla camera d’albergo e la trova di cattivo umore. Chantal, non sapendo come uscire dall’imbarazzo provocato dal suo malessere fisico – sente infatti che una vampata di calore le sta montando su tutto il corpo – ripete la frase che si era detta con ironia sulla spiaggia: «Gli uomini non si voltano più a guardarmi». Jean-Marc non comprende lo scherzo e vede Chantal arrossire sempre di più e pensa: «Quel rossore sembra tradire desideri inconfessati». Al capitolo 9 Chantal si rende conto del malinteso, ma non «può dargliene una spiegazione, perché quell’avvampare improvviso le è già accaduto di percepirlo, negli ultimi tempi».
Al capitolo 30 Jean-Marc ricordando la frase di Chantal, rivede il loro primo incontro di quache anno prima durante un cocktail in un alberghetto di montagna. Anche allora era arrossita. «Diventò tutta rossa, non solo sulle guance, ma sul collo e anche più giù, su tutto il décolleté… Quel rossore fu la sua dichiarazione d’amore, fu quel rossore a decidere tutto». Il rossore di Chantal fu davvero la «sua dichiarazione d’amore» a Jean-Marc? O non piuttosto la prima manifestazione della sua entrata nella menopausa? O le due cose coincisero: forse fu proprio la consapevolezza di Chantal di aver varcato per sempre la frontiera della vecchiaia a spingerla la sera stessa del loro incontro tra le braccia di un uomo più giovane? E in che senso quel rossore decise tutto?
Quella prima vampata di calore sul corpo di Chantal, che la ricoprirà molto tempo dopo, il giorno in cui dirà a Jean-Marc che gli uomini non si voltano più a guardarla, farà sì che l’amante, fraintendo la frase, comincerà a scriverle in incognito diverse lettere d’amore. Le lettere, invece di consolarla, faranno credere a Chantal di essere spiata, tanto che anche quando ne scoprirà l’autore la protagonista non lo perdonerà. L’atto di tenerezza di Jean-Marc è interpretato da Chantal come quello di un sorvegliante che vuole introdursi nella sua vita. L’incomprensione tra gli amanti è totale, l’amore svanito e il loro viaggio a Londra, alla fine, diventerà un incubo.
Il rossore, riaffacendosi lungo tutto il romanzo, ci dice qualcosa sull’identità di Chantal e allo stesso tempo qualcosa sull’identità di Jean-Marc. E dice qualcosa sull’identità del loro amore: sul suo malinteso originario, sul suo disequilibrio dato dalla diversità età della donna e dell’uomo. Inoltre, è decisivo per la story. Soltanto in una fuga romanzesca, infatti, il soggetto o tema, attraverso una delle sue manifestazioni, apparentemente banale, tanto che può essere scambiata per un dettaglio o un motivo, può diventare il motore dell’intera vicenda.

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Rispetto alle quattro possibilità formali che idealmente dovrebbero presiedere ogni romanzo kunderiano, qui non c’è, ad esempio, l’incontro dei tempi storici, mentre sono presenti la riflessione saggistica (dei personaggi e dell’autore) e il gioco che organizza con le sue coincidenze temporali l’insieme. In questo caso, il principio polifonico di non subordinazione, tipico della fuga, se vale per i personaggi sembra valere meno per le forme. La story sembra dominare. L’identità è in apparenza una composizione semplice, unilineare, incentrata dall’inizio alla fine sulle azioni e i pensieri dei due amanti e sullo sviluppo di un intreccio che invece di svolgersi in una sola notte, come nel caso de La lentezza, si estende su diversi mesi o addirittura anni. In realtà, la story è in funzione di un’altra possibilità formale, assai importante per Kundera, il sogno (o immaginazione). L’avventura amorosa di Chantal e Jean-Marc, con tutte le sue caratteristiche e situazioni verosimili, quotidiane, è costruita per precipitare progressivamente nel sogno, che proprio alla fine, con lo spostamento dell’azione da Parigi a Londra, si trasforma in un vero e proprio incubo. Quando nel penultimo capitolo (50) Chantal, tra le braccia di Jean-Marc sembra risvegliarsene, l’autore interviene interrogandosi: «E io mi domando: chi ha sognato? Chi sognato questa storia? Chi l’ha immaginata? Lei? Lui? Tutti e due? Ciascuno per l’altro? E a partire da quale momento la loro vita si è trasformata in quell’atroce fantasticheria?». Ogni lettore può dare la sua risposta. Tuttavia, se si vogliono comprendere le ragioni estetiche di questo romanzo la vera domanda forse è: perché raccontare una storia così verosimile e trasformarla attraverso un passaggio segreto, invisibile (un punto cieco), in un sogno? Intanto per confermare sul piano formale il tema: l’identità non è qualcosa di stabile, è una frontiera invisibile che può essere varcata in ogni momento. Poi perché l’identità di un individuo non è fatta solo di quel che fa e pensa nella realtà diurna, ma deve tenere in conto di quel che sogna. Infine, perché Kundera, fedele oltre che a Broch, a Kafka, ha sempre visto come un diritto e un dovere del romanzo moderno quello di poter varcare, per meglio esplorare i territori dell’esistenza umana, la frontiera della verosimiglianza.

*

Il saggio è tratto da: Comporre. L’arte del romanzo e la musica a cura di Walter Nardon e Simona Carretta, appena uscito presso le edizioni dell’Università degli Studi di Trento, 2014.

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2 Commenti

  1. Saggio molto chiaro, lucido e godibilissimo. Ho letto il suo L’albero e consultato Scuola del mondo. Li ho trovati entrambi ottimi e utilissimi. Posso dire che l’universo kunderiano ha sfiorato anche me.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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