Il “mio” Perturbamento di Thomas Bernhard. Un racconto
di: Luca Barbirati
Sono rientrato a Firenze due giorni fa. Ho aperto la porta di casa e la prima cosa che ho trovato, oltre all’odore di umido, è stata la caldaia con la spia rossa. Fuori uso. Nessun tecnico fino ai primi di gennaio, mi ha risposto la centralinista del servizio clienti. Tutto regolare. Non mi aspettavo niente di diverso. Indosso il secondo maglione, la sciarpa e un berretto di lana con paraorecchie, e mi riparo come posso in cucina, dove l’umidità dei miei due pranzi caldi al giorno mitiga i quindici gradi che il termostato segna nel corridoio. Ricordo che pativo un freddo simile alcuni anni fa, quando presi in mano il mio primo libro di Bernhard, mi pare fosse Perturbamento.
Lo avevo evitato per molto tempo. La sua prosa, ancora prima di leggerla, mi impressionava per la sua disposizione. Riempiva, fino a soffocarla, l’intera pagina. Ed era troppo vicino il tempo in cui i miei genitori (quelli che allora chiamavo “i miei genitori”, senza le ulteriori specificazioni che potrei aggiungere adesso) mi rimproveravano perché disponevo male i ciocchi di legna – alcune decine di quintali l’anno – che usavano per riscaldare il convento che avevano comprato e poi trasformato nella loro abitazione principale. Quella sintassi avrebbe potuto ricordarmi i mattoncini colorati che usavo a dodici anni per occupare i miei pomeriggi passati da solo, e invece mi riportò alla mente l’immagine della legnaia vuota e il marasma di ciocchi spaccati in due che riempivano il giardino adiacente, e i rimproveri per come intassavo la legna. Ho le mani fredde come allora. Umide e fredde come quell’inverno di qualche anno fa, non ricordo con precisione quando fosse. Ricordo solo i rimproveri e quella maledetta legna che avrei preferito bruciare all’istante anziché intassare in legnaia. Il libro di Bernhard non mi lasciò mai, quell’anno. Mi seguì, come mi seguiva l’ossessione della legna, per tutto il periodo estivo. Lo infilai nella valigia quando mi mandarono per un mese, alla fine del primo anno al Collegio Vescovile, alle Tre Cime di Lavaredo. Era una colonia estiva cattolica. A quell’epoca io odiavo la montagna forse solo quanto odiavo i preti. Ma nemmeno quell’estate riuscii a leggere Perturbamento, o forse era Gelo e mi sono confuso scrivendo di come ho scoperto Perturbamento riferendomi invece a Gelo. Non ricordo, o forse non voglio ricordare. So solo che l’anno seguente, finito il secondo anno al Collegio, mi mandarono in un’altra colonia cattolica sulle Dolomiti, e più precisamente sull’altopiano delle Pale di San Martino. Odiavo l’estate, odiavo la montagna, odiavo i preti ma forse più di tutto odiavo la legna che mi aspettava in agosto nel giardino adiacente alla legnaia, che affiancava il convento che i miei genitori avevano comprato e poi trasformato nella loro abitazione principale. Passarono alcune estati, alcuni inverni, alcuni anni al Collegio Vescovile e alcune colonie estive cattoliche sulle Dolomiti, prima che i miei nervi decidessero di spezzarsi e finalmente di liberarmi da quei vincoli che i miei genitori mi avevano legato addosso. I miei genitori avevano pagato il Collegio Vescovile affinché i preti mi legassero come loro desideravano al prezzo di undicimila euro l’anno, spese extra escluse. Fu grazie al mio crollo nervoso che potei finalmente rimanere a casa a guardare il giardino pieno di legna durante l’estate e di neve durante i mesi invernali, senza più dover muovere un dito e soprattutto senza dover intassare quella maledetta legna che avrei preferito bruciare, cosa che forse ho tentato di fare prima che mi permettessero di stare nella mia camera e di guardare il giardino dalla finestra senza più dover muovere un dito. Ho passato tre anni chiuso in camera, dispensato da ogni incombenza che la vita quotidiana impone all’uomo ma che la precarietà nervosa non mi permetteva. Non potevo muovere un dito. Dovevo riposarmi, assolutamente. Un riposo assoluto, aveva ordinato il medico curante. Ho passato tre anni chiuso nella mia camera e dopo il primo anno di riposo assoluto ho iniziato a muovere un dito, ma un dito soltanto. Potevo muovere solo un dito, e scelsi di muovere l’indice. Giravo le pagine dei libri che a ogni mio compleanno avevo ricevuto per pacco al Collegio Vescovile, ma che non avevo mai letto per odio verso tutto quello che riguardava i miei genitori e il Collegio. Cambiai idea quando venni a sapere che i libri non erano una scelta diretta dei miei genitori, ma che loro pagavano un libraio che mi cercasse i migliori titoli della letteratura europea. Io dovevo leggere la letteratura europea, andare al Collegio d’inverno, alla colonia d’estate e intassare la legna prima dell’inizio del nuovo anno scolastico. Dopo il mio cedimento nervoso, scelsi di assecondare uno solo dei loro desideri: conoscere la letteratura europea. Il libraio pagato dai miei genitori aveva, e forse ha ancora, sede in via S. Giovanni sul Muro a Milano. Lo incontrai solo una volta, al mio ventunesimo compleanno. Ma Bernhard, non ricordo quando è stato. Non ricordo il compleanno preciso in cui lo ricevetti. Forse ho dimenticato troppe cose accadute prima del mio ricovero forzato. Ma un giorno ho avuto tra le mani il mio primo libro di Thomas Bernhard. Era Perturbamento. Ne sono quasi sicuro, ma non ci metterei nuovamente la mano sul fuoco.
Caro Luca, in te e nelle tue intime scritture trovo sempre una presenza profondamente amica. Quei tuoi nervi pulsano di pulsazioni vespertine che sento tanto vicine a quelle dei miei, di tante sere anche troppo vicine.
Su questo piano c’è la vicinanza, il riconoscimento di qualcosa di confitto in me e in quanto scrivo dentro qualcosa di confitto in te e in quanto tu scrivi. Poi c’è una forma di distanziamento, l’intraprendere una scelta differente dalla tua e da cui scaturisce l’interesse per l’alterità; tu dici: “Dopo il mio cedimento nervoso, scelsi di assecondare uno solo dei loro desideri: conoscere la letteratura europea”; io tra le tue quattro opzioni avrei scelto quella che incallisce materialmente le mani, avrei scelto di “intassare” la legna, per il bisogno materiale che ho di appagare di fatica la natura “gropolòsa e ligadìzha” che compone la mia psiche e i suoi martoriati ideali. Ma in fondo anche questa scelta sarebbe stata in qualche misura speculare alla tua, proprio sul piano della materia, della vita: legna e libro sono fatte della stessa pasta, quella degli alberi che popolano la scrittura e gli sguardi di tutti noi.
Infine, a me che ho scritto da critico ma della critica (la mia compresa) non sono un estimatore né un gran fruitore, l’unico valido avvio a certa letteratura, a certe letture è quello che scrivi tu, raccontandolo, confitto come “ris-ce” (le schegge dolorose dei ciocchi) nella tua vita che – nel suo stesso ricordarsi e subito dimenticarsi – si fa racconto e dono.
Paolo S.
Castello Rog. 5.1.2015, con tanti auguri di lieto anno.