L’angelo necessario (Mario Dondero)

di Danilo De Marco

Dondero e Capa bis copyDevo a Francesco Altan l’incontro con Mario Dondero, nei primi anni ’80. Quando Francesco seppe delle mia partenza per Parigi mi disse con tono perentorio, quasi sciamanico: “Devi incontrare Mario Dondero”. Mi diede il suo indirizzo. Io lo trascrissi male. Bussai così alla porta sbagliata… Ma, come accade quando ogni cosa si riassesta per opera del destino… poiché la prima freccia era stata scagliata, il fato non lasciò nulla in sospeso: per pura coincidenza, più causale che casuale naturalmente, qualche mese dopo incontrai davvero Mario a Parigi, alla libreria italiana ‘La Tour de Babel’. Detto fatto mi invitò a pranzo per l’indomani, nella sua casa su Boulevard du Temple. Fu il primo di una serie di innumerevoli pranzi sempre gioiosi, loquaci, a volte più che propizi. Così conobbi anche la sua compagna Annie che, come mi confidava Mario, tifava per una mia riuscita, in quelli che per me erano anni un po’… duretti.  “Un’irresistibile forza del destino”, come direbbe Mario, aveva così determinato il futuro di una grande, fraterna e solidale amicizia.

 

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Chi incontra Mario Dondero per la prima volta, vista l’energia che sprigiona, ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un ragazzo solo un po’ in là con l’età. Poi, quando comincia a raccontare, da esperto istrione che conosce l’arte della fascinazione e della cattura, si scopre che arriva da lontano. Ma l’età vera, come dice di lui Bernardo Valli, non bisogna andare all’anagrafe a cercarla, perché l’età vera di una persona non è legata alla data di nascita. Né allo stato delle arterie. L’età è nella mente. Nella fantasia. Sognare ancora quello che si farà da grandi, come fa Dondero. E ancora oggi è un arcano capire dove Mario trovi tutta quell’energia per essere così… gagliardo. In compagnia di Mario le cose ‘terra-terra’ prendono ancora il volo, s’alzano dal grigiore quotidiano, e quelle importanti pur conservando il senso tragico di un mondo che non vogliamo, recuperano quell’energia dell’umano che sappiamo capace di risollevare e dare dignità che sembrano perdute.

Ho sempre pensato a Dondero come ad una specie di doganiere Rousseau della fotografia. Nelle sue fotografie spesso gli orizzonti sono obliqui, sbilenchi, come potrebbe fotografarli un bambino o dipingerli uno dei pittori «primitivi» di Lionello Venturi. Se il doganiere Rousseau fu «un allegorico costruttore di miti primordiali» e non un pittore naïf, nella libera semplicità/sostanza colta della fotografia di Dondero ritroviamo quello spessore conoscitivo che lo ho fatto diventare, e lo fa essere, cantore di una epopea del quotidiano. Un cantore, e Mario lo sa, non deve e non può affinare solamente la tecnica per diventare così un abile artigiano che pur sapendo tutto del mondo finge di non conoscerlo e passa all’incasso. Ecco perché Mario, al di là di brevissime collaborazioni, non ha mai cercato l’indirizzo di un gallerista o di un’agenzia fotografica per preparare la sua carriera e la sicurezza economica.

 

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Un cantore è anche sognatore, e un sognatore, che per di più in questo caso è anche un viaggiatore dotato di tante mappe umane, esplora tutto instancabilmente. Per ritrovarsi poi, come deve essere, sempre al punto di partenza. Non esistono traguardi per Mario dove arrivare prima degli altri. E soprattutto non ama i vincitori. Mi pare chiaro quindi che in tempi di marketing sfrenato dove non c’è posto per il mistero dell’idea ma solo preoccupazione di passare all’incasso, per molti mediatori-manager dell’immagine fotografica, produttori instancabili di libri e riciclaggio di grandi mostre, le fotografie di Dondero fanno sorridere. Sono foto ‘sbagliate’. Ma Dondero non scatta solo una fotografia, come quando dal finestrino del treno fotografa un tramonto o ferma per la strada una persona fino a quel momento sconosciuta. Non assiepa – come dice lui – gli amici, anche se da poco incontrati, in una brasserie di Montmartre perché vuole fare tante belle foto. Non scatta una foto all’esterno della sede del Genoa club nei quartieri popolari di Genova perché ne è tifoso. Certo, anche tutto questo, ma prima ancora fissa con la macchina fotografica quegli istanti del reale che altrimenti perderemmo, per renderli di nuovo possibili, mentre fruga garbatamente tra gli spigoli e le timidezze dell’umano. “Non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono” afferma Mario in modo deciso. Ecco sorgere allora da ogni immagine una sua visione della vita e del mondo. Dondero il mondo lo vede così. O meglio: lo vorrebbe così. Il suo sguardo riordina il visibile attraverso l’esperienza. Ed è proprio attraverso un’esperienza continua nel quotidiano, assieme alla sua grande capacità affabulatoria che Dondero trova la sua necessaria forma poetica.

Ecco allora che la sua vecchia macchina fotografica, troppe volte ricomperata perché donata al primo che gli stava simpatico (come dimenticare quell’incontro a Genova, proprio appena uscito dalla bottega di materiale fotografico usato con il nuovo acquisto di una Pentax K100 e regalata ad una giovane ragazza incontrata per strada pochi minuti prima con cui aveva attaccato bottone e scoperto che era una appassionata amante della fotografia?), diventa solo medium per poetare. Un modo affettuoso, il suo, per canticchiare la vita. Non c’è traccia di decorazione o di artificio nelle sue fotografie. Ma potente, cosa che a rarissimi fotografi riesce, dai suoi scatti ne esce il racconto dell’utile certezza della nostra fragilità. Si tratta di svelare quella che Kant chiamava «arte nascosta» nelle pieghe più profonde dell’animo umano.

 

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Di Dondero si raccontano episodi che sono entrati a far parte della storia epica della fotografia italiana, non tanto legati a scoop o alla cattura di sequenze tecnicamente strabilianti, ma troppe volte senz’anima, quanto marcati dal segno del suo passaggio, duraturo nella memoria. Proprio come una fotografia ben fissata e stabilizzata con un bagno al selenio. Quando, un po’ di anni fa arrivai in un villaggio africano con la macchina fotografica  ben visibile in spalla, mi venne incontro con un largo sorriso di benvenuto e un’espressione di stupore in volto quello che si presentò come il capo-villaggio. Mi porse la mano come si fa con un ospite gradito e in un francese un po’ stentato mi chiese se conoscevo Mario Dondero.  Capii che quell’uomo associava la macchina fotografica alla calorosa umanità di quel passato incontro con Mario, quasi che quell’oggetto a tracolla fosse una garanzia annunciata e propria a tutti quelli che si muovono per il mondo con tale strumento in spalla.

Quando improvvisamente, senza mai avvisare prima, appare – perché proprio di apparizione si tratta, in carne ed ossa – in qualche redazione giornalistica, con il suo tono di voce suadente e la forte propensione giocosa e connaturata alla seduzione riesce a catalizzare l’attenzione su di sé e sulle cose che dice, paralizza totalmente i lavori in corso. Terribile in questo nostro tempo misurato solo dalla produzione, dal rendimento e dal conseguente introito economico. Solo un bombarolo anarchico ottocentesco potrebbe riuscire ad avere risultati più “devastanti” di quelli che riesce a provocare Mario nell’ingranaggio di questa nostra sofisticata e costrittiva era tecnologica. Ne sono stato testimone più volte, per esempio avendolo visto far scomparire le sue foto dal tavolo delle redazioni dei giornali, – quando ancora andavamo con il nostro tesoretto di immagini stampate su carta ad offrirle -, se si accorgeva che un suo simile, in difficoltà, aveva fotografato lo stesso avvenimento. È un procedere quasi enigmatico, nel senso edipico del termine, quello di Dondero, di cui praticamente non è ancora stata esplorata la natura. Una capacità dell’umano questa, che ci è stata sottratta, rubata, in via di sparizione, ma che sentiamo il dovere di proteggere e conservare, perché non c’è altra maniera di accedere davvero all’altro da noi.

 

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Elisa, sua figlia, bene ha scritto quando intuisce che in Mario ci sono quattro ragazzi di vent’anni ancora pieni di passione che spingono per venire alla luce. Un bel guaio per Mario questo quando viene trascinato da queste irrefrenabili e oscure forze giovanili. E decisamente un guaio ancora più serio per chi gli sta accanto, come molte volte mi è accaduto, e poi, volontariamente, decidere di seguirlo. Mario è un taumaturgo del tempo… libera il tempo dai lacci sempre più stretti di appuntamenti di lavoro, di incontri d’affari e, così facendo, riporta il senso dell’esistenza al centro di tutto per rimettere in sesto questo nostro tempo fratturato, stremato, obbligato. È l’essenzialità, l’umiltà e la forza dell’incontro: la sua grandezza è questa. Per questo Dondero è un instancabile agitatore di umanità.

Nel luglio del 2008 Dondero fu invitato ad esporre, in villa Sulis a Castelnovo del Friuli, le sue ultimissime fotografie scattate in Russia a cui aveva dato come titolo “I rifugi di Lenin”. Come se a Castelnovo del Friuli un genius loci caparbio, che non si arrende alla brutale evidenza del tempo, attirasse su di sé uomini il cui motivo del loro stare al mondo è ancora quel “Sogno di una cosa” di pasoliniana memoria. Da Castelnovo del Friuli, nel ‘37 del secolo ‘900 … da questo luogo segnato appena sulla mappa geografica regionale, un nutrito numero di giovani partì volontario per difendere la Repubblica Spagnola dai militari golpisti e fascisti. Quelli che ritornarono, pochi anni… e diventarono i resistenti partigiani delle nostre montagne. Come toccati da una maledizione, nell’immediato dopoguerra, i più furono obbligati a ripartire. Chi per un esilio politico chi in cerca di lavoro. Ecco allora che la presenza di Mario Dondero, il giovanissimo partigiano Bocia a Castelnovo del Friuli, non è stata probabilmente casuale. Ma come in un racconto di Borges, l’andare e il non andare in un luogo predispone al luogo e il luogo non diventa un punto di passaggio nell’errare, ma un cerchio magico dell’esistere e dell’esistenza, nel cui centro, invisibili, colpiscono i raggi dell’appartenenza.

Giorgio Agamben scrive in un suo piccolo saggio intitolato “Il Giorno del Giudizio”, quello che lo affascina e lo incanta nelle fotografie che ama, e in particolare in quelle di Mario Dondero. “La fotografia – dice – è per me in qualche modo il luogo del Giudizio Universale, essa rappresenta il mondo come appare nell’ultimo giorno, nel giorno della Collera”. Visionario e affascinante questo sentire di Agamben, ma che in verità stride con l’assoluta speranza che cova Mario verso l’esistente. Quella di Mario è una umanità tenace. Una comunità che trasporta preziosamente con sé il patrimonio genetico della fratellanza e della solidarietà e che guarda nonostante tutto ancora ad un mondo possibile. Leggo nelle foto di Dondero, per dire qualcosa ancora su quel Giorno della Collera, le prime immagini, i primi bagliori di un’umanità che risorge dopo il disastroso rischio dell’olocausto finale. Le sue sono le foto di una umanità ritrovata. Occhi, volti, corpi, abbracci questi fermati da Mario Dondero, che sono, per dirla alla Agamben, una nuova stazione speranza. Sono quel luogo fra “il sensibile e l’intellegibile, fra la copia e la realtà, fra il ricordo e la speranza” di una comunità che viene.

 

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Eccolo Mario, sulla soglia, all’improvviso e inaspettato come piace a lui. E come accade all’angelo necessario di W. Stevens pare dire: “Sono uno come voi, e ciò che sono e so/per me come per voi è la stessa cosa”. Perché per Mario, con scarpe vissute, tasche bucate, bisaccia in spalla e sinapsi linguistica affettuosa e gagliarda, solo la poesia può rappresentare le contraddizioni senza risolverle concettualmente, perché solo dietro le cose così come sono c’è la potenzialità di un’altra realtà che preme per venire alla luce. Riscopriamo così grazie all’andare di Mario, che le cose dell’esistenza sono sempre lì pronte a sorprenderci, e ci accorgiamo che un dettaglio, fermato con uno scatto fotografico o anche ascoltato, improvvisamente può cambiarci la vita. Un uomo che per più di ottant’anni abbia posseduto consapevolmente questo elemento costante offre uno spettacolo tanto terrificante quanto necessario. Egli rende reale la possibilità della creazione di un mondo più giusto, quasi potesse giustificarla col suo discernimento, con la sua resistenza, con la sua pazienza.

 

le fotografie, in ordine di apparizione:

  1. Danilo De Marco: Dondero e sullo sfondo Robert Capa
  2. Mario Dondero: Pierpaolo Pasolini
  3. Mario Dondero: Francis Bacon
  4.  Mario Dondero: Orson Welles con Pasolini
  5.  Danilo De Marco: Dondero a Macerata il giorno della Laurea ad honorem
  6. Danilo De Marco: Dondero e Danilo De Marco: verso la metà degli anni ’90 a Parigi

 

 

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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