Cent’anni dalla linea d’ombra
di Giuseppe Schillaci
Un secolo fa Joseph Conrad scriveva una delle sue opere più importanti, e lo faceva in soli due mesi, tra il 1914 e il 1915, proprio all’inizio della prima guerra mondiale. Questa coincidenza è una chiave fondamentale per capire il testo di Conrad, come nota Simone Barillari, curatore e traduttore della nuova edizione de La linea d’ombra, appena pubblicata da Feltrinelli. In quei mesi d’inizio Novecento, il conflitto incombe in Europa e rappresenta un trauma collettivo, il passaggio a una nuova epoca, catastrofe e catarsi; è la guerra che spinge Conrad a prendere parola.
Un primo indizio sulla motivazione che anima l’autore è già presente nella dedica: «a Borys e a tutti gli altri che come lui hanno varcato nella prima giovinezza la linea d’ombra della loro generazione». Borys è il nome del figlio di Conrad, diciassettenne nel 1914, che volle arruolarsi volontario nell’esercito inglese e prestò servizio nelle trincee francesi. La linea d’ombra sembra essere dunque la trincea, la linea che separa irrimediabilmente la vita dalla morte, la giovinezza dall’età adulta.
Insieme al titolo e al tema, scrive Barillari, la guerra dettò allo scrittore anche la trame e il tono. Un altro indizio è presente, infatti, nel suo sottotitolo: « a confession ». La confessione è quella di Conrad, ovvero di un uomo quasi sessantenne che racconta come abbia avuto il suo primo incarico di comandante, a soli vent’anni, su una nave alla deriva nel golfo di Siam.
La confessione è voce senza volto che si rivolge a un generico you, presente all’inizio del testo e mai specificato; continua Barillari: «è indubbio che quel tu o voi (you) sono tutti gli indistinti destinatari della storia, coloro che stanno idealmente ascoltando il narratore non meno di coloro che stanno realmente leggendo la narrazione, ma è possibile pensare che […] nella misura in cui, per ammissione dello stesso Conrad, questa è la sua esatta autobiografia, il primo e più profondo destinatario della lunga confessione sia proprio Borys, il figlio dell’autore, e insieme a lui tutti i ragazzi che combatterono (e morirono) nella prima guerra mondiale. […]. Se è così La linea d’ombra è quel racconto perpetuo, quel disperato testamento in cui ogni padre dice di sé a suo figlio e ogni generazione alla generazione che la segue, in cui chi ha vissuto vorrebbe avvisare della vita chi vivrà, chi è stato giovane dire a chi lo è ora che cos’è la giovinezza».
Ecco cosa scrive Joseph Conrad per chiarire la scelta del titolo: «avevo avuto in mente questa storia per anni. In principio la pensavo con il titolo di First Command (Primo comando). Quando riuscii, durante il secondo anno di guerra, a concentrarmi abbastanza da poter riprendere a lavorare, mi dedicai a questo lavoro. Ma come conseguenza del mio mutato atteggiamento mentale nei confronti della storia, essa diventò La linea d’ombra».
L’opera è stata tradotta dai più grandi scrittori del Novecento e in italiano, più recentemente, da Gianni Celati per Mondadori e da Flavia Marenco per Einaudi. Insieme alla nuova traduzione di Barillari, l’edizione Feltrinelli presenta un ricco apparato di note, da cui emergono le costanti citazioni alle opere di W. Shakespeare e alla Ballata del vecchio marinaio di S.T. Coleridge, un brano inedito in Italia, ovvero una scena tagliata da Conrad ma ben leggibile sul manoscritto, e una mappa del Sud Est asiatico.
La linea d’ombra, a distanza di un secolo, rimane nell’immaginario collettivo, a separare la giovinezza dall’età adulta. La sua potenza narrativa è amplificata dal cambio di ritmo, dal contrasto tra la prima parte del racconto e la seconda, tra il passaggio repentino (della linea) e la condizione di stallo (oltre la linea). Dopo l’entusiamo per il nuovo incarico, infatti, il capitano Conrad si ritrova sulla sua nave, in mezzo a un mare immobile, con l’equipaggio ammalato, senza un soffio di vento.
Passano i giorni e la situazione non cambia: si resta nello stesso mare desolante e sconfinato; lo stesso mare in cui naviga chiunque varchi la linea e assuma, in prima persona, la responsabilità. Perché andare oltre significa non potere tornare, mai più, significa penetrare uno spazio ignoto, vivere un’iniziazione che si conclude, soltanto, con la morte.
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davvero un bel pezzo!
grazie schillaci :)
ps devo assolutamente rileggere questo classico.