Sul Vulcano: intervista al regista Gianfranco Pannone.
Igiaba Scego
Sul vulcano, l’ultimo film documentario di Gianfranco Pannone, [presentato nella selezione ufficiale, Fuori concorso, alla 67ma edizione del Festival del Film di Locarno] oltre a continuare il tour nelle sale cinematografiche di tutta Italia, arriva anche in Home Video distribuito da Cinecittà Luce.
Un film documentario che è un po’ un’eruzione di immagini, colori, parole, visi, citazioni. Il Vesuvio ci appare qui in tutto il suo fulgore di morte e possibilità.
Un viaggio attraverso lava e ricordi che il regista ha compiuto anche partendo dalla sua esperienza personale del vulcano.
Descrivendo le vite di Maria, Matteo e Yole, Gianfranco Pannone descrive uno dei territori più magici e più martoriati d’Italia.
Nazione Indiana: Come ti è venuta l’idea del film?
Gianfranco Pannone: Sono nato a Napoli, ma non ci ho mai vissuto realmente. E questo invece di allontanarmi mi ha avvicinato a lei, al punto che anche con i miei film torno periodicamente nella “mia” città. Per me Napoli è il mondo, anche perché da quelle parti non si mette la polvere sotto il tappeto e la vita viene esaltata in tutte le sue forme. E’ una metropoli, insomma, dove le miserie e le nobiltà sono sotto gli occhi di tutti, così come accade in altre città del Mediterraneo, a Istanbul o a Il Cairo… I miei ricordi dell’infanzia sono ancora vivi: il dialetto, gli odori, quel senso di vita e di morte che si intersecano a ogni istante, in ogni angolo della città, tutte cose che provavo da bambino come da adolescente, quando ero a trovare i miei parenti o le mie ragazze, guarda caso sempre tutte partenopee. Napoli mi incantava e al tempo stesso mi metteva paura e certamente sui miei timori pesava anche la presenza del Vesuvio, che vedevo dal centro della città, a Largo Donna Regina, affacciato alla terrazza dei compari che abitavano sopra casa dei miei nonni paterni. Fantasticavo sul vulcano anche perché erano ancora vivi i ricordi magici e terribili di chi visse in prima persona l’eruzione del Vesuvio nel 1944. Mi raccontava l’altra nonna, quella materna, sfollata con la famiglia non lontano dal cratere, che per via della “pioggia” di cenere seguita all’eruzione (e dopo i cento e più bombardamenti degli angloamericani su Napoli), lei fosse convinta che si era arrivati ormai alla fine del mondo.
N.I.: Ti ha sempre affascinato il vulcano?
G.P.: Sì, i vulcani in genere mi affascinano molto. Ho ancora ben chiaro il ricordo di una notte passata in cima al cratere di Stromboli, che ribolliva a bassa intensità. Fantastico! Senti l’energia che ti entra dentro, però ti percepisci anche molto piccolo, sai che da solo non ce la puoi fare… Ecco perché a Napoli e nell’area vesuviana in particolare c’è una grande fede religiosa, specie negli strati più bassi della popolazione. La fede in Dio e nei santi è una necessità dovuta anche ai capricci periodici del Vesuvio e di fatto finisce col rendere più profonda la gente di quei luoghi, che noi siamo abituati a considerare, invece, superficiale per via dei suoi eccessi teatrali, in realtà, a mio giudizio, solo la facciata di un “male di vivere” ben più profondo. Ecco, il vulcano, restituisce una grande vitalità, non solo perché con le sue “invasioni” periodiche rende la terra più fertile, ma perché ci costringe a fare i conti con ciò che è oltre noi. Un tempo ai piedi del Vesuvio si onorava Dioniso/Bacco, ieri come oggi si pregano le numerose Madonne del posto, San Gennaro e tanti altri santi… Sapevi che Napoli, dopo San Gennaro, conta ben 99 vicepatroni?
N.I.: Come hai proceduto nel lavoro?
G.P.: Mi sono prima documentato sui miti, le leggende e le evocazioni letterarie intorno al Vesuvio, arrivando alla conclusione che sul “formidabil monte”, come lo canta Leopardi ne La ginestra, si potrebbe fare anche una serie di 20 puntate. Allora ho deciso che dovevo diventare un piccolo viaggiatore e ho cominciato a fare il flaneur sopra e sotto il vulcano, ficcando il naso un po’ dovunque, da solo o in compagnia del mio direttore della fotografia e soprattutto amico e complice, Tarek Ben Abdallah, alla ricerca di punti di vista diversi, meno scontati sul Vesuvio. E ho scoperto che i vesuviani conservano una verità delle cose, una genuinità più forte che la gente di Napoli. Se oggi, per esempio, dovessi fare un casting per un film, le persone me le andrei a cercare tra Ercolano, Torre del Greco, Torre Annunziata, Somma Vesuviana, Ottaviano… dove ancora sopravvivono facce vere scavate dal tempo e dalla storia. Napoli, invece, si è imborghesita e anche molto involgarita nell’hinterland. Ha in buona parte perso quella poesia che aveva tanto incantato Pasolini e che, infine, mi ha spinto a fare questo film. Perché Napoli è il mondo, va solo vissuta e “letta” con amore e un pizzico di distanza, per non farsi fagocitare dalle sue affascinanti e pericolose sirene.
N.I.: Come hai trovato i tre testimoni della storia?
G.P.: I miei testimoni un po’ me li hanno presentati gli amici che mi hanno dato una mano durante la preparazione, ma soprattutto li ho incontrati per caso. Matteo, il pittore che dipinge con la pietra lavica, è diventato presto un compagno di strada e abbiamo così trovato il modo di confrontarci diversi mesi prima che cominciassero le riprese. Yole, la cantante “neomelodica” e Maria, che vive nell’azienda florovivaistica di famiglia, sono invece arrivate dopo, le ho incontrate, appunto, facendo il flaneur. In Maria, per esempio, mi sono imbattuto, per così dire, da rabdomante, cercando una villa vesuviana del ‘700 abbandonata, che è proprio di fronte alla casa di lei. Attraversavo le terre intorno alle Vesuvio come si cammina in una sorta di paradiso perduto, ma mai e poi mai sarei potuto arrivare a trovare una strada per il mio film, oserei dire, esistenziale, senza incontrare Maria e le tante altre figure “minori” che contornano il film, sempre in bilico tra razionalità e fatalismo. Un fatalismo generato non solo dalla storia, ma appunto, da un vulcano che da sempre prende e dà.
N.I.: Come mai hai unito documentario e letteratura?
G.P.: Sono rimasto molto affascinato se non addirittura soggiogato dalle tante suggestioni letterarie che “cantano” il Vesuvio, dagli scritti di Plinio il giovane alle parole infuocate di Malaparte… Amo molto mettere insieme cultura “alta” e cultura “bassa”, ecco perché lungo il film i testi di scrittori come De Sade, Marai, Matilde Serao…, affidati alle voci degli attori, si incrociano con le vite vissute di chi con il Vesuvio ci convive ogni giorno. E tra questi ho scelto anche il nume tutelare di Sul vulcano, Giordano Bruno, il monaco filosofo bruciato a Campo de fiori per eresia dall’Inquisizione. E’ lui, nato a Nola, proprio sotto il vulcano, a rappresentare un certo spirito del luogo, uno spirito vesuviano duro a morire, dove vita e morte si intrecciano costantemente e dove il vulcano attivo può essere anche un amico se visto da una certa prospettiva. “Guarda laggiù il Vesuvio, può esserti fratello”, dice in sogno il dirimpettaio Monte Cicala al giovane Giordano che guarda con timore verso il cratere spoglio di vegetazione; una testimonianza letteraria che nel film ho affidato alla voce calda di Toni Servillo. Insomma, il Vesuvio non è necessariamente un nemico, ma al contrario può essere dispensatore di energia positiva. Il problema è che oggi i partenopei hanno dimenticato questa grande sapienza, finendo persino con il costruire le proprie case sulle antiche strisce laviche!
N.I.: Il materiale d’archivio? Come ci ha lavorato?
G.P.: Volevo fonti d’archivio diverse da come lo conosciamo abitualmente. E le ho trovate scegliendo materiali di repertorio spesso non montati, in particolare alcuni girati dagli operatori dell’Istituto Luce tra il 1929 e il 1932, un periodo curiosamente lungo di bassa attività del Vesuvio poco conosciuto ai più, e quelli americani dei Combat film risalenti al 1944, quando il vulcano si risvegliò nel bel mezzo della guerra. Così, mettendoli in relazione con le riprese di oggi, concepite con il direttore della fotografia fuori da ogni forma di reportage e, dunque, molto attente alla composizione, con la mia montatrice, Erika Manoni, ho optato volutamente per il repertorio sporco, laddove era possibile, lasciando ben visibili gli statici e le ripetizioni di ripresa, dando così maggior risalto ai fiumi lavici di settanta-ottant’anni fa. Di solito si fa il contrario, ma questa volta ho pensato bene di insistere da un lato, con il girato di oggi, su una calma apparente, quasi una suspence, che accompagna la vita ai piedi del Vesuvio “inerte”; e dall’altra parte, sul fronte archivistico, di dare al contrario un sensazione di forte instabilità, quella che “dona” un vulcano visibilmente attivo, restituendo, insomma, al pubblico quella sensazione di non completo, di incerto che si avverte convivendo con una montagna viva.
N.I.: Cosa ti ha regalato questo film?
G.P.: Mi ha regalato la consapevolezza di essere nato in una grande città, in quel “paradiso abitato da diavoli” di cui scrisse qualcuno un bel po’ di tempo fa, inevitabilimente legato alla presenza del Vesuvio. Pensaci bene, nel cuore del Mediterraneo c’è una metropoli, per secoli importante capitale del Sud, che da più di duemila anni vive ai piedi di un vulcano, il quale periodicamente si riaccende anche in modo violento! Ecco perché a Napoli e nell’area vesuviana tutto è in bilico, tutto e relativo… Sai qual è la formula magica dei napoletani? “Se po’ fa!”. Si, si può fare tutto a Napoli, persino accettare il male della camorra. Ed è in ciò la tragedia. Ma – come dire? – il bene lo scopri solo attraverso il male… Un pensiero di matrice cattolica che fa storcere il naso a molti, ma nel quale io, pur da laico, comunque mi riconosco, forse perché, nato a Napoli, sono infine un pezzetto di lava che si è sovrapposta ad altra lava.
N.I: Il vulcano è quello che erutta o il cemento?
G.P.: Ho intitolato il mio film Sul vulcano perché a Napoli e dintorni si vive sopra un cratere geologico e, non dimentichiamolo, anche sociale. Dalle mie parti, negli ultimi decenni in particolare, ognuno ha fatto un po’ come gli pareva, non c’è stata una cultura in grado di preservare i “beni comuni”, la collettività. Intorno al Vesuvio imperversano le case abusive come le discariche e il degrado è un po’ ovunque. Perché tanta criminale trascuratezza? Io credo perché dentro di sé chi appartiene all’area vesuviana porta un male di vivere: prima o poi il Vesuvio si porterà via tutto e allora perché costruire una società migliore? Non bisogna dimenticare però che, per contrasto, esistono a Napoli una cultura giuridica e filosofica che non hanno eguali in Italia; questo proprio in contrapposizione a chi non crede in nulla e in nome di quel nulla crea solo distruzione intorno. E’ vero comunque che, grazie a una connivenza che ha visto agire insieme politica, malavita organizzata e comuni cittadini, ai piedi del Vesuvio ha fatto più danni l’uomo in meno di cent’anni che il vulcano stesso in venti secoli!
N.I.: C’è qualcosa del Vesuvio che ti ha affascinato?
G.P.: Mi affascina comunque la vitalità della sua gente. E’ come se quella ferita aperta sul mondo esterno, che di fatto finisce con l’essere un vulcano, sprigionasse costantemente energia vitale; un’energia inevitabilmente positiva e negativa, che porta con sé bene e male, insomma. Certo a Napoli e dintorni il libero arbitrio non può essere percepito come valore assoluto, si avvertono delle energie che non dipendono solo da noi e che si esplicitano nel credo religioso, al punto che una giovane cantante dichiaratamente lesbica come Yole, una delle mie testimoni, tutta immersa nel mondo di oggi, è una autentica devota della Madonna dell’Arco! Qualcosa che non accade nelle altre città… Lo aveva ben capito anche Rossellini nel suo magnifico Viaggio in Italia. La coppia di borghesi benestanti inglesi, protagonista del film, si ricongiunge finalmente sullo sfondo di una processione giunta al suo apice religioso, come se dalla devozione della gente del posto si propagasse un energia che investe finanche le persone estranee a quella cultura. Siamo non troppo lontani da una religione magica, sincretica… dove l’ambiguità accompagna le cose piccole e grandi della vita, qualcosa che ho cominciato a capire anni fa seguendo Roberto De Simone come assistente volontario al San Carlo e immergendomi nei suoi studi sulla cultura popolare campana. Il Vesuvio è maschio per la letteratura ed è femmina per i contadini, che infatti lo/la chiamano ‘a muntagna. Per me è l’uno e l’altra e non a caso la sua voce l’ho affidata a quel grande attore “androgino” che è Enzo Moscato. Ecco, sono completamente soggiogato dalla natura ambigua del Vesuvio, dove Dioniso come lo yn e lo yang rappresentano uno stesso approdo.
N.I.: E c’è qualcosa che ti ha spaventato?
G.P.:Mi spaventa la facilità con cui i vesuviani dimenticano il buon vivere comune. Mi spaventa certo loro individualismo malato, che a volte può condurli persino all’indifferenza, in un misto di terrore e cinismo che li tiene lontani dal senso di responsabilità che è una componente fondamentale del cittadino moderno. Non dimenticherò facilmente le immagini, riprese da una telecamera a circuito chiuso, di un’esecuzione camorrista avvenuta nel pieno centro storico di uno dei tanti paesoni dell’hinterland napoletano: l’uccisione a freddo di un uomo davanti ad adulti e bambini… Nessuno subito dopo l’agguato si è avvicinato al corpo della vittima, che poteva essere ancora viva, ognuno se ne stava per i fatti propri e questo è difficile da digerire!
Lo racconta, d’altro canto, molto bene Curzio Malaparte ne La pelle, che non a caso ho citato nel mio film: la gente a Napoli si sveglia solo quando accade una tragedia provocata dalla guerra o dal Vesuvio stesso. Allora ecco che scende come lava la collera della plebe; una collera terribile, belluina, che si riversa non solo sui più deboli, ma anche contro il potere, di solito lasciato libero di fare ciò che vuole in cambio di un pezzo di pane. Si racconta che l’ultimo episodio di cannibalismo in Europa fu alla fine dell’esperienza della Rivoluzione francese a Napoli, quando i popolani, per sfregio, si mangiarono alcuni giacobini fatti prigionieri, dopo averli uccisi e cotti sul fuoco. Qualcosa di terribile, che evoca immagini dantesche, come del resto è dantesca la grande “caldara” degli stessi Campi Flegrei, l’altra area vulcanica a rischio eruzione. Perché, non dimentichiamolo, sono gli esperti stessi che da tempo parlano di un possibile risveglio dei due vulcani di qui a un tempo relativamente breve.
N.I.: Hai pensato ad un pubblico per questo film?
G.P.: Ho pensato a un pubblico curioso, non necessariamente colto, magari composto da giovani che sanno ben poco delle magnifiche commistioni naturali e culturali che “vorticano” sotto il Vesuvio. Sono certo che questo pubblico esista, contrariamente alla vulgata che vuole tutti cinicamente indifferenti, oltre che ignari, di ciò che accade intorno a noi. E i riscontri positivi che ho verificato portando il mio film in giro per l’Italia, mi fanno pensare che un po’ di ragione ce l’abbia a essere ottimista, malgrado tutto.
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[…] di IGIABA SCEGO, “Nazione Indiana”, 19 dicembre 2014 […]
Pannone per illustrare il suo lungometraggio ci dice tante cose sul vulcano, su Napoli e sui napoletani. Certo Napoli è una delle capitali del Mediterraneo,ed è pure, rispetto all’Italia una specie di mondo a se, un unicum….Pannone è un napoletano verace, una mente aperta, duttile….Basta scorrere l’intervista. Gli aperti contrasti, le dicotomie apparentemente insanabili, le contraddizioni di sempre e da sempre fanno si che Napoli in qualche modo, a suo modo si sottragga all’atmosfera di lutto, di oltraggio che aleggia sul nostro paese..
A proposito del sacco di Napoli e dell’ambigua accettazione di tutto quel che accade in questa area, ricordo la frase che sintetizza lo spirito partenopeo ” E fernnimola e’ scassà”.
E….dimenticavo quel bellissimo (allora) ‘Le quattro giornate di Napoli’ sulla città che insorge contro le truppe tedesche e tanto, tantissimo ancora….