Così non va, Veronica
di
Francesco Forlani
Mai non potrebbe il pianto
Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno
Giacomo Leopardi
Quando ho visto al telegiornale le immagini di lei, l’infanticida sospetta, caricata su un’auto della Polizia tra le urla dei nuovi turisti del “fait divers” che gridavano “vergogna vergogna”, la prima cosa che mi è venuta su dalla pancia è stata di pensare: cazzo dicono questi! smammare via, tutti, sciò sciò.
Quando ho letto delle dichiarazioni della madre grande della piccola madre, della fierezza di una distanza decennale dalla figlia, ho pensato: vergogna! Nell’uno e nell’altro caso si tratta di “scuorne”, ovvero “vergogna di cui ci si deve vergognare” come ho trovato scritto in rete alla definizione della parola napoletana. La Treccani ci dice: scòrno s. m. [der. di scornare]. – Senso di umiliazione e di vergogna, spesso accompagnato da beffa o dal ridicolo, provocato dal fatto di non essere riusciti in un intento, o dall’essere stati facilmente superati o sconfitti da altri: subire uno s.; con suo grave s. ha perso la causa che mi aveva intentato; è stato un grosso s. per lui vedersi anteposto il suo odiato avversario; addorno D’intagli sì, che non pur Policleto, Ma la natura lì avrebbe s. (Dante).
Negli stessi giorni in cui si protraeva la nuova serie della saga famiglia, ho potuto vedere uno dei film più belli, intensi, profondi, su un caso simile a quello che la stampa italiana inforcava tra le menti distratte dell’italica gente: Sorrow and Joy, film del danese Nils Malmros. La vicenda, autobiografica, racconta l’uccisione della piccola figlia di nove mesi da parte della madre affetta da psicosi, ma soprattutto la ricostruzione della storia d’amore tra i due con il difficile percorso di un ritorno alla normalità.
“Una persona con una psicosi non può essere colpevole, e non si tratta quindi di colpa. Volevo mostrare che l’amore conquista ogni cosa”, ha dichiarato il regista danese Nils Malmros.
Vaglielo a spiegare tu, lettore e commentatore di giornali, blog, facebook, al giudice che ha dichiarato a proposito della nostra piccola madre: “non è ragionevole ritenere che di fronte alla tragica situazione di un figlio di 8 anni ucciso in un modo così brutale si rifiuti ostinatamente di raccontare la verità“.
E alla stampa?
In un’intervista allo stesso regista a un certo punto leggiamo: “Quando avvenne la disgrazia, la stampa fu molto discreta: i nostri nomi non vennero mai menzionati nelle notizie. Sapevo che quando la storia del film sarebbe venuta fuori avremmo avuto una reazione forte, ma i media hanno avuto pieno rispetto e così abbiamo deciso di raccontare la verità. No, non mi sono pentito di averlo girato.” (qui l’intervista completa)
Vaglielo a dire tu, lettore e commentatore di giornali, blog, facebook alla Stampa italica.
Nel film, a poche settimane dal tragico evento, assistiamo a una scena che definire marziana sarebbe davvero poco esaustivo.
I genitori degli alunni dell’infanticida vanno a trovare il padre per comunicargli la volontà di tutti i genitori e della scuola di riavere in classe la sfortunata e amata maestra. E sarà proprio questo episodio a dare il via a un percorso lento, di cura in clinica e ripresa della vita activa della donna che la riconquista dell’amore dei due renderà possibile.
Danimarca, eros e civiltà, il marcio non è da voi ma da noi.
Intanto leggo sulla stampa di qualche giorno fa:
“Veronica Panarello, lasciata sola dalla famiglia, riceve la solidarietà della altre detenute: “I vestiti e la biancheria per cambiarsi le vengono dati dalle altre detenute”
La prima cosa che mi è venuta su dalla pancia è stata di pensare: enfin! Almeno loro, ci sono.
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un pezzo osceno.
dedicare una serie (bad mommy) a un evento del genere, scrivendo pezzi di tale livello di bassura (contenutistica, retorica e stilistica) fa davvero impressione.
Da vergognarsi.
è d’uopo intervenire…in realtà lo scritto lo trovo bello, ha un suo particolare dinamismo e corrività che sottende un lavoro dietro…è un breve pezzo che non si impantana nelle parole…nè voglio scandalizzarmi a mia volta dello scandalo di laserta – ben prevedibili reazioni simili su un tema così critico – per quanto si tratti di uno scandalo a radice decisamente conformistica e dunque in sé odiosa…tuttavia, sul merito, ovviamente delicatissimo, anch’io penso ci sarebbe da discutere… il problema di fondo mi pare questo: all’interno di qualsivoglia visione etica del mondo – che sia del primitivo del mafioso e persino dell’amorale – che cosa giustificherebbe la presunta follia di una madre? il confine fra l’io e il mondo è di per sé (e normalmente) talmente inconsistente, sfumato e arbitrario, che risalendo la catena di cause che hanno prodotto qualsiasi atto o decisione, si perviene necessariamente a una causa pregressa “altra”, e si arriva dunque a deresponsabilizzarlo completamente. dunque, o neghiamo del tutto l’opposizione bene-male, o ammettiamo l’atto di condanna – che altro non è che un modo di opporsi al male. peraltro, concordo con forlani nel criticare (condivido dunque la sua “scelta etica”…)il “modo” aberrato, insincero e superficiale in cui è stata finora inflitta questa condanna (dai media ecc.)
Livio condivido il senso della tua riflessione. Quello che mi ha colpito di più rimane comunque la differenza tra le due narrazioni: quella cinematografica e autobiografica di Nils Malmros e la media ballade italica di questi giorni. Della stridente comparazione emerge in modo limpido e sostanziale l’esistenza nel primo caso di una comunità in grado di farsi carico delle responsabilità a cui accenni e nel secondo la totale “disparizione” di ogni grado di coscienza collettiva. effeffe
ah beh, per conto mio condivido anche l’idea che in nordeuropa siano, detto in breve, più “civili”…. (anche se un amico olandese mi diceva giorni fa che sono privi di “slanci” e non hanno il senso del “gesto”…)
Ringrazio Francesco Forlani per il suo pezzo. L’etica non ha un confine preciso nell’anima individuale, che puö’ cedere allo squilibrio di una psicosi. L’etica e’ un processo necessariamente collettivo dove quello che si puö’ fare e non si puo’ fare si determina al livello sociale, dentro e fuori la coscienza individuale, all’interno di una cscienza collettiva. La domanda e’ perche’ una donna puo’ arrivare ad uccidere suo figlio? Tutta la responsabilita’ e’ nelle pieghe della sua coscienza? Quando il confine del bene e del male e’ stato rotto all’interno della sua psiche, non erano forse le pressioni sociali alla base di questo?
Anch’io ringrazio Francesco Forlani per il suo scritto e per il piccolo scambio di opinioni e riflessioni. Un gesto così dolorosamente drammatico ha bisogno di attenta analisi e rispetto lasciando per ultimo un pensiero “sospeso”
Il film non l’ho visto, ma ho visto un film spagnolo, La dimora, in cui il tema è quasi lo stesso. Anche se lì la “vittima” è un anziano padre ammalato. Comunque, mi colpisce la cura che le altre donne in carcere si prendono della madre che ha ucciso il figlio. Se l’ha ucciso. Ammesso questo, probabilmente non si tiene conto di quale potenza costruttiva e/o distruttiva abbia un bambino nella vita di una donna. Di una madre. Spessissimo non avviene alcun delitto fisico, ma uno psicologico, specialmente nei confronti del figlio maschio, altrettanto feroce. L’amore, ricordiamolo, è anche un demone. E come tale annebbia la mente, la eclissa. In senso buono, a volte, ma spesso con effetti delittuosi in senso ampio. Di castrazione. Di eliminazione, come se fosse l’origine stessa del proprio male. A maggior ragione nel caso di questa donna giovane lasciata con un bambino che già portava in sé molti sintomi di disagio di essere nato in un contesto instabile. Come se fosse cresciuto su una terra in cui c’è sempre il terremoto. Scusate la metafora semplicistica. Io non voglio essere deterministica, ovvero dato un certo contesto, si verificano certi fatti. Ma davvero qui si tratta di non poter giudicare il gesto dell’omicidio come slegato da ogni altra vita, ogni altro fatto che l’ha agevolato. C’è un tabù nella civiltà occidentale che pare insuperabile, ovvero quello che un bambino nasce da uomini e donne, da esseri umani che infragiliscono con l’arrivo di un figlio – tutti – perché scardina ogni sicurezza precedente. Questo può dare crescita o regressione. Quasi allo stato animale. Anzi, questo è l’attaccamento madre-figlio, sempre. Poi dovrebbe, giorno per giorno, subentrare un progressivo distacco, ma ciò non sempre avviene. A volte il figlio diventa il terminale di ogni nostro dolore o fallimento.
Gentile Daniela,
trovo molto bello e calzante il tuo commento. L’unica cosa che non condivido è il concetto di “regressione allo stato animale”. Se il poeta diceva che “la Storia non è magistra di niente che ci riguardi”, la natura, anche matrigna, rimane forse l’unica magistra veramente divina che ci rimane. Quando guardo un animale, vedo l’infinito nei suoi occhi, e non riesco più a leggerlo in quelli umani. Purtroppo.