I fantasmi di Luca Ricci
di Ornella Tajani
Domestici, familiari, quasi innocui. È il ritratto dei Fantasmi dell’aldiquà che popolano i racconti di Luca Ricci (Napoli, La scuola di Pitagora, 2014), fantasmi d’intérieur che si aggirano in paesaggi privi di una connotazione geografica precisa. L’io narrante e polimorfo mangia sandwich e dipinge staccionate, prende il sole sul prato e sogna piscine in stile David Hockney, prepara biscotti di Halloween e descrive pomeriggi dal sapore di provincia americana. Non ci sarebbe da stupirsi se, accanto al gatto dell’ultimo racconto Il piede nel letto, sbucasse d’improvviso anche l’enigmatico pavone che compare in Penne di Carver, o se la chiazza liquida che si forma nel letto dei due coniugi in Livelli d’acqua non fosse in realtà provocata da un guasto al frigorifero, come in Conservazione, ancora di Carver; nessuna sorpresa se, in una delle cucine di Ricci, si accendesse di colpo una radio «straordinaria» col design curato da Cheever.
Eppure, come si diceva, la latitudine di queste narrazioni è indefinita: sia perché l’attenzione è focalizzata sugli interni piuttosto che sugli esterni («Preferibilmente non si esce mai di casa nei miei racconti», concludeva Ricci in un intervento per la rubrica Usus Scribendi qui su Nazione Indiana), sia perché i fantasmi in generale non hanno indirizzo preciso e riescono a viaggiare nel tempo e nello spazio, in tre moderni minuti necessari a scongelare una pizza al microonde, così come in un battito di ciglia di colore più romantico. Dagli States del XX secolo alla Francia dell’Ottocento: il racconto d’apertura, La lunga attesa, che gioca su un elemento denso di riferimenti letterari come la somiglianza fisica, e crea un tempo coniugale cristallizzato dalla segregazione domestica dopo un funerale, ricorda il Villiers de l’Isle-Adam dei Contes cruels, in particolare quello di Véra, rivisitato però in chiave hitchcockiana; Uscita in giardino, col suo trompe-l’œil troppo attraente per essere completamente finto, solleva una nebbia di mistero in stile Vénus d’Ille di Mérimée. Il fantastico va per la sua strada, viaggiando su un binario parallelo, quasi ucronico, un po’ come gli amici immaginari dell’omonimo racconto, o come il gatto del già citato Il piede nel letto, che appartengono a dimensioni altre, a mondi che la realtà incrocia a tratti e spesso poi abbandona. Come scriveva Calvino su Repubblica, in una vecchia recensione che del fantastico era una piccola enciclopedia, a volte «il soprannaturale è solo in una connessione o sconnessione misteriosa che si delinea tra i fatti di tutti i giorni». Lo sa bene Ricci, per il quale il mistero può risolversi in una sorta di sospensione narrativa, oppure è utilizzato come un ironico grimaldello, che apre a interpretazioni dei fatti molto più concrete: è il caso di La prima bugia, oppure di Ikebana, che si chiude su un finale dal silenzio pinteriano.
Il testo che più di tutti resta impresso, però, è forse L’eclissi. Se il Nuotatore di Cheever compiva un viaggio a nuoto verso il disincanto (di recente Forlani ha proposto per il cinédimanche l’adattamento cinematografico con Burt Lancaster), il protagonista di Ricci esce dal racconto dalla stessa finestra attraverso cui era entrato: ne esce correndo, pensando che “aveva voluto provarci”, e smette di correre soltanto quando è ormai troppo lontano per tornare indietro, così come il nuotatore smette di prendere a pugni la porta della casa quando capisce che l’abitazione è vuota.
Solitudine, bugie, routine, incomunicabilità, tradimenti, senso di inadeguatezza: sono loro, fra gli altri, i fantasmi dell’aldiquà che l’autore convoca in questi racconti brevi, misurati, linguisticamente cristallini e sempre dotati di quella particolare carica elettrica che solo il fantastico, quotidiano e non, sa fornire.
Postfazione di Umberto Silva.
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