La stufa a parabola + una nota su Ponge
traduzione collettiva*
Questo intero quartiere della città quasi deserto dove m’inoltravo non era che uno degli angoli monumentali della sua altissima muraglia minuziosamente lavorata, rosea al sole che tramonta.
Alla mia sinistra si apriva una via di case basse, secca e sordida ma inondata da una luce ammaliante, semi spenta. All’angolo, con l’albero un poco di traverso, si ergeva una sorta di giostra minuscola, non molto più alta di un piccolo pero, dove giravano diversi bambini uno dei quali indossava un maglioncino d’un puro color limone.
Si sentiva una musica, come il grattare ritmico di diversi violini, senza melodia.
Grandi avvenimenti erano nell’aria, imminenti, che avevano più dell’avventura intellettuale o logica che di circostanze di ordine politico e militare.
Atteso per cena da questo scrittore, più vecchio di me, uno dei principi della letteratura dell’epoca, sapevo che mi avrebbe edotto sulla vittoria definitiva della nostra famiglia di intelletti.
Ero come un trionfatore, accompagnato da questo grattare di violini.
Allo stesso tempo, sentivo sul viso e sulle mani il calore come di un sole basso ma così vicino, raggiante, e mi resi conto, bruscamente, che stavo sognando, quando, deciso a svegliarmi, mi accorsi di non poter più riaprire gli occhi.
Nonostante i molti sforzi dei muscoli delle palpebre, non riuscivo a sollevarle. In realtà, come capii solo dopo, sbagliavo muscolo: agivo proprio su quello dell’occhio, facevo roteare gli occhi sotto le palpebre.
La cosa cominciava a prendere una brutta piega quando, d’un tratto, avendo per un attimo abbandonato ogni sforzo, le palpebre si schiusero da sole e intravidi la spirale ardente della stufa a parabola, sistemata vicino alla poltrona su un’alta pila di libri, che m’illuminava.
Mi ero addormentato, tenendo con una mano la penna, con l’altra il leggio e la pagina vergine sulla quale non rimaneva che consegnare quanto precede, con questo titolo conservato qui per la fine: «Sentimento di vittoria al calar del giorno, e conseguenze funeste».
.
Francis Ponge, Pièces, Gallimard, 1962
°
*Atelier di traduzione coordinato da Andrea Inglese con Cristina Guerra, Cinzia Imperio, Cristina Longo, Federica Merati, Antonella Rea, Mariateresa Sala allieve del corso di Letteratura francese (proff. Hélène de Jacquelot e Barbara Sommovigo) Corso di Laurea magistrale in “Traduzione Letteraria e Saggistica”, Università di Pisa (a.a. 2013-2014).
°
Da Ponge nostro contemporaneo
di Andrea Inglese
[…]
3.
Ponge è, quindi, un nostro contemporaneo, e la sua lezione è particolarmente proficua, in quanto si ostina a considerare in modo non velleitario e nostalgico l’unità del gesto etico, estetico e conoscitivo. Quando celebra “l’eroismo della più piccola cosa”, ci ricorda la tristezza di cui è ampiamente intrisa la nostra vita fintantoché siamo incapaci di godere del mondo che ci circonda, e ne siamo incapaci perché ciechi a quanto è costantemente sotto i nostri occhi, prossimo e familiare, laddove le instancabili macchine pubblicitarie e dell’informazione popolano di fantasmi e chimere la nostra esistenza, la rendono dipendente dalle droghe dell’esotismo, la allontanano dalle piccole e più enigmatiche evidenze. Ponge è un nostro contemporaneo perché ci parla della felicità possibile, del posto preminente che dobbiamo restituire al mondo, della difficile riconquista della realtà terrestre: animale, vegetale, inorganica. In questa prospettiva, pur inserendosi a pieno titolo nel paradigma della lirica moderna, egli ne sovverte alcuni meccanismi dominanti: in primo luogo l’esigenza di trasfigurare il banale, il consueto, il quotidiano e di utilizzare la particolarità dei vissuti individuali come leva di questa trasfigurazione. La consuetudine, come insegnava già Proust, è solo una forma di neutralizzazione – funzionale alla vita moderna e urbana – dell’estraneità originaria del mondo. (Ponge parla di “un rapimento dovuto all’estraneità delle cose”.) Questa estraneità, ossia lo scarto fra l’espressione e la cosa, fra l’enunciato e il suo referente, va preservata e nutrita, affinché si generi quel movimento ampio, metonimico, di accerchiamento della realtà attraverso la scrittura di cui già si è detto. Ciò di cui Ponge diffida è l’occultamento della singolarità dell’oggetto – la sua qualità differenziale – sull’altare dell’espressione soggettiva e la tendenza di quest’ultima alla trasfigurazione metaforica. Ponge è nostro contemporaneo perché invece di fare del poeta il custode dei “grandi significati” e della “profondità”, ossia il sacerdote che, accanto al filosofo, tiene accesa la fiamma degli ideali umani contro la notte del non-senso, scende risolutamente in quella tenebra e si scontra con la sua idiozia. Scrive in Nioque de l’avant-printemps: “Non cercheremo (di dire) nulla di «significativo» sulla nostra epoca (ciò accadrà da sé; non potrebbe essere diversamente, ne siamo fin troppo impregnati). Noi cercheremo (al contrario) ciò che non appare significativo, ciò che non rientra nei simboli (nella sua simbolica), ciò che è del tempo seriale (o eternità)”.
.
[Da una nota apparsa sul n° 8 di Atti Impuri che introduceva un estratto della traduzione italiana di Nioque de l’avant-printemps realizzata da Michele Zaffarano per Benway Series (2013).]