Contro l’occhio. La scrittura del dolore vero
di Giacomo Verri
In un piccolo volume del 2006, La Letteratura dell’inesperienza, Antonio Scurati rifletteva su quanto la società di plastica in cui viviamo abbia sostituito l’esperienza diretta del mondo (com’è, per antonomasia, quella vissuta da chi ha fatto la guerra) con una sorta di cognizione del dolore indiretta, asettica, disinfettata e interrotta da assidui diaframmi che sono prima di tutto gli schermi attraverso i quali giunge a noi la realtà, a pillole, frammentata, amplificata e voltata in evento per far fronte all’insufficienza del nostro presente: in sostanza, cioè, esperiamo quotidianamente l’inesperienza; la quale non solo crea una letteratura incapace di poggiare i piedi per terra, ma genera un cortocircuito che impedisce di gettare ponti verso il passato e verso il futuro. L’uomo finisce così per mancare, nel campo delle cose narrabili, di quel copioso materiale che ebbero per la testa i nostri nonni. Ed è ovviamente un problema letterario, sì, ma prima di tutto psicologico e morale; è un buco nella coscienza, colmato talora, e tragicamente, dal piombare furioso dell’evento eccezionale: un terremoto, un’alluvione, un disastro della natura. E quando accade, gli scrittori aggrediscono il caso anomalo e terribile, lo accerchiano e se ne lasciano invadere come la terra riarsa accoglie il fortunale.
Così, se l’uomo d’oggi è questo, incapace di dire la sofferenza, il freddo e la paura, la letteratura percorre due vie soltanto: o rende manifesto, quando riesce, l’handicap e, nel tentativo di superarlo, forza la scrittura ad aprire il diaframma e a farsi denuncia e superamento dello iato che ci separa dall’esperienza; oppure, in altri rari casi e avvalendosi di un campo d’indagine inedito per le nostre coscienze sopite, essa s’immerge nei brividi dolorosi provocati dalla vita quando la vita si leva i guanti e ci tocca con le sue dita gelide e ossute.
Scrivere intorno alle tragedie significa sfidare se stessi e il proprio tempo. Lo hanno fatto, nell’ultimo lustro (quello dei terremoti dell’Aquila e dell’Emilia, per arrivare all’alluvione di Senigallia del 3 maggio scorso), diversi scrittori, più sovente attraverso volumi collettivi che non con opere ‘in solitaria’: è il caso di E lieve sia la terra (Textus edizioni, 2011), antologia di testi, a cura di Luca d’Ascanio, dedicati alle persone scomparse il 6 aprile 2009 in Abruzzo; o dei 14 racconti attorno alla tragedia emiliana del maggio 2012, nel volume a cura di Paolo Roversi, con introduzione di Loriano Macchiavelli, Scosse. Scrittori per il terremoto (Felici editore, 2012); o ancora, con un titolo che è un brivido onomatopeico, delle testimonianze raccolte in Tremaggio. L’alluvione di Senigallia nel racconto di otto scrittori (a cura di Antonio Maddamma, con un testo di Massimo Cirri, Ventura edizioni, 2014). E c’è anche chi, come Enrico Macioci, ha affrontato il tema della terra che trema, ancora in Abruzzo, all’Aquila, con una scrittura via via più sperimentale, da Terremoto (Terre di mezzo, 2010) al labirintico ed espressionistico La dissoluzione familiare (Indiana, 2012).
Sono testi che, provando uno spettro di soluzioni che va dall’approccio cronachistico a quello filosofico, dallo sguardo sociologico alla stratificazione e trasfigurazione postmoderna, riattivano tutti, in prima istanza, una sacra ispirazione che fu della letteratura d’ogni tempo, e che forse nell’epoca dell’inesperienza ha cessato di funzionare, o di funzionare bene: quella di dare forma all’informe o, per dirla con Calvino, di “scegliere una strategia per affrontare l’inaspettato senza essere distrutto”; o, ancora, di impartirci, con le sue storie immutabili, con l’impossibilità di cambiare il destino che ai personaggi letterari è riservato, la più grande e utile lezione di vita, che è lezione “repressiva” – scriveva pochi anni fa Umberto Eco –, di educazione al fato, alla sofferenza, alla morte. Tanto di più quando si applica direttamente, e non per via teorica, a quegli oggetti della coscienza.
Ma oltre a ciò, scrivere del dolore e della morte (allorché il dolore e la morte sono veri, e non esercizio, seppur onorevole, della fantasia) significa recuperare altre funzioni umane spesso atrofizzate dalla piattezza delle nostre esistenze. La scrittura del dolore non solo cerca di scardinare l’apatia, non solo dimostra la lacerazione tra l’esperienza tragica e l’inesperienza diffusa, ma porta a scoprire ancora il pudore, quello che c’era nelle sofferenze di una volta, nelle guerre di un tempo, e che, come scriveva cent’anni fa Antonio Baldini in Nostro Purgatorio, riduceva al confine delle zone d’operazione quelli che la guerra non la facevano e non la dovevano fare. Baldini sosteneva che non può esserci spazio per chi guarda, perché era nel giusto solo chi la guerra la combatteva. La nostra società – che ci sia o che non ci sia la guerra – è invece tutta edificata sulla visione: forse vediamo troppo, ci è concesso di vedere troppo, e il nostro sguardo morboso (quello che ha iniziato a esercitarsi sulla morte in diretta di Alfredino Rampi) ha perduto l’organica moralità che un tempo fu eccitata dagli ostacoli del pudore.
Un compito della letteratura potrebbe essere allora – e la scrittura attorno alle tragedie ne è un esempio – il rigetto della visione, e la riconquista delle parole che fanno vedere, anch’esse, ma con dignità. Senza clamori, senza spettacolo, in maniera nostalgica. Per ottenere, infine, di avere ancora paura, e rispetto, per la nostra vita.
Caro Giacomo, premesso che non ho letto il libro di Scurati, devo dirti che nel tuo discorso ci sono alcuni postulati che non mi convincono, a partire dal titolo stesso: perché contro l’occhio? Mi pare che ci sia qui un’idea preconcetta della visione come attività passiva, laddove non è detto che sia per forza così. Il cinema c’insegna che l’occhio può essere chiamato in causa, reso partecipe (e attraverso l’occhio diciamo la nostra coscienza di spettatori) anche di una realtà “indiretta”, che non per questo definirei meno reale – altrimenti dovremmo smettere di scrivere di un sacco di cose. Perché lo schermo dovrebbe essere un filtro più “asettico” di quanto non lo sia l’altoparlante di una radio o la pagina di un libro? Forse questo discorso di Scurati, al quale tu ti rifai, riguarda soltanto un certo modo di lavorare con l’immagine?
L’altro postulato che non mi convince affatto riguarda la definizione di “dolore vero”. Esiste forse un dolore non vero? Esistono senz’altro dolori più o meno forti, ma qua mi pare che il senso del discorso sia un altro. Visti gli esempi che poi citi, mi pare che tu intenda dire che il “dolore vero” è quello delle grandi tragedie con cui gli scrittori sono chiamati a confrontarsi. Ma anche qui ti (e mi) chiedo: lo scrittore non si confronta forse anch’esso attraverso il filtro del proprio sguardo? E perché, allora, quella citazione tratta da Baldini? E se io una guerra non volessi combatterla, che cosa accade: che non ho lo stesso diritto di raccontarla attraverso il mio personale sguardo, anche se più distaccato, o apatico o quant’altro?
Non me ne volere per tutte queste domande, ma è un argomento che sta particolarmente a cuore anche a me.
Simone
Caro Simone, eccomi, con ritardo, a rispondere alle tue questioni. In effetti devo fare delle precisazioni: l’occhio che viene bersagliato dalle mie parole è quello inidiscreto dell’informazione che si volta in sensazionalità a tutti i costi; non è l’occhio artistico del cinema. Seconda cosa: la categoria di ‘dolore vero’ va intesa in contrapposizione a ‘dolore verosimile’, alla Manzoni, per così dire. Lungi da me l’azzardo di dire ch esistono dolori di serie a o z, il dolore se c’è c’è, e basta. Ma un conto è scriverne o farne un film quando quel dolore c’è stato fuori di noi, come cosa tangibile, e un conto è ricrearlo verosimilmente in un ‘ambiente’ di finzione, come può essere, per pesare sempre dal nostro, il dolore della madre di Cecilia.
Infine, la frase di Baldini è, direi, una provocazione, una richiesta di maggior pudore da parte di chi vuole a ogni costo trasfromare la sofferenza in sofferenza di plastica da somministrare attraverso uno schermo.
Grazie per la risposta, direi che con queste precisazioni mi è un po’ più chiaro il terreno su cui si muove il tuo discorso ;-)
Anch’io, Giacomo, ammetto di aver avuto alcune perplessità simili a quelle di Simone, leggendoti. Ma credo che il nucleo del tuo pezzo stia in questa tua frase finale, che è come se riaprisse all’interpretazione del pezzo: il rigetto della visione, e la riconquista delle parole che fanno vedere, anch’esse, ma con dignità.
C’è in effetti una questione che tocca la dignità e – se vogliamo – l’etica rispetto al dire sul o del dolore. In un saggio interessante di Franco Lolli, L’epoca dell’InconShow (titolo che sembra tradire il testo e da cui non ci si dovrebbe far ingannare : è molto valido) c’è un riferimento specifico alla rappresentazione del dolore che ha a che fare con quel “contro l’occhio” di cui tu stesso scrivi. Lolli denuncia (vado a memoria, non avendo sottomano il libro) una tendenza alla rappresentazione nuda e bruta del dolore di deriva giornalistica e “ipermoderna” : un volto deturpato in prima pagina, senza filtro – mettendo in contrapposizione questa rappresentazione, questa “esposizione totale”, si potrebbe dire, con la modalità, che dovrebbe essere propria dell’arte, di saper narrare, ricostruire una trama nel raccontare il trauma, la tragedia, o il vissuto esperienziale/esistenziale. Là dove c’è narrazione, dove c’è un lavoro di ri-scrittura del dolore (che per sua natura è, io credo, sempre vero) c’è anche la possibilità di riconquistare le parole e recuperare dignità. Ritracciare un velo, una linea divisioria, mettere in forma – che non significa in “bella forma” – una ferita. Quando quella ferita può diventare feritoia, quando lascia passare, entrare, aprendo buchi e non imponendosi in modo totale e forse -azzardo- totalitario, ipervisibilizzato, allora quel dirne diventa non solo possibile ma necessario. E la dignità della parola recuperata.
ps a prescindere da alcune perplessità, grazie per questo scritto che apre a molte riflessioni.