L’arrampicata
di: Federico Pevere
E’ una tragedia, zingara, da lacrime, da dividerci il mondo. Due attori da periferia. Entrambi sono all’ultima possibilità. Il Primo storto come una malattia, un ultimo stadio, una voce che ripete le rimangono una decina di giorni al massimo. Di marmo come la sua terra, i Balcani o il fegato d’Europa, immondezzaio ostinato: all’occorrenza cimitero, all’occorrenza occorrenza.
Invincibile come la sconfitta, Il Primo. L’Altro, fatto di bolle e uncino e sterile come qualunque, non è l’uomo qualunque, è solo qualunque. Chiunque altro. Loro due, due disgrazie da sempre, da rincorse contro il muro loro due oggi sono finalmente vivi. Certo, il palco è quello ambito da sempre, ma niente recite pomeridiane per oggi, né ruoli secondari, oggi si vive. Si vive a braccio, s’improvvisa fra le luci, tutto saprà di finalmente e di mai più. Non ci sono pareti, una rete pure lei fiacca a separarli – sì, da sempre – l’arena gremita che sputa tifo ignorante e devastazione ad ogni gesto, come se fosse decisivo, da sempre, ogni gesto. Tutto sarà decisivo, di superfluo ci sarà solo il pubblico, l’arena sfocata lì attorno. Dentro ci si contorcerà sull’elegia di ogni singolo passo, l’elevazione di ogni singola decisione a vita propria sarà necessaria per la sopravvivenza, un’arrampicata verso l’assoluto di un giorno – e i popoli dietro, in marcia, pronti a scaraventarsi entrambi: chi in una fossa, chi in cielo. Lì dentro si brucia. Precipizio o gloria imperitura. E’ questione di rincorsa, cose da equilibristi. Da saltello sottorete, in posizione, colpire forte e dannarsi. Poi ritorni anonimo, diventerai provincia, dimenticanza. Non c’è palcoscenico che tenga. E cos’è tutta questa epica, questo pathos, è solo uno spettacolino, sport, direte voi. No, dietro tutto questo solo il vuoto. Perché loro hanno vissuto solo per quel giorno. Poi cosa sarà mai la vita, per loro.
Il Primo serve per il match (serve sempre per il match, Il Primo). E’ un animale che invoca supremazia. Quando batte, se lo vedi da dietro, ha già la testa oltre la rete, due passi e saltella una manciata di volte e ti copre tutto, non vedi nulla. Acceca, non si piega, è un’ondata di pelle che avvolge i movimenti, li satura, li snerva, vedi nero. Colpisce un attimo prima l’attimo. S’accascia, prega quasi, ancora. Ha tutte le facce. Gli occhi feroci, lacrimano qualcosa di scuro. Smandibola, sa che manca poco, un’altra scenata, una sberla come si deve e via a rete, sulla rete. Rete! Niente, ha preso la rete. Ancora e ancora, si mette male. C’è aria di sommossa. Colpisce ciò che è destinato ad uscire, tormenta insistendo quando dovrebbe solo aspettare, Il Primo. Rischia la seconda, quando dovrebbe attendere il nulla dell’Altro. Siamo proprio sotto, Primo. Che succede, Primo, ma l’hai visto? L’Altro non è neppure l’attore non protagonista, è il classico copione scadente, è già tutto scritto, L’Altro. E’ una pianta, immette radici ovunque e continuamente e spera di essere colpito. Scenografia, insomma. Ma reagisce. Colpisce, viene colpito, a chi importa. Sorprende e s’allontana dal vuoto, dal vuoto che sei tu, ora, Primo.
Dunque Il Primo è sotto, l’equilibrio delle loro due vite già un lontano ricordo. I denti bianchissimi hanno fame, sono denti da predatore, lucidissimi. Il Primo. Dei capelli sottilissimi, fili d’erba. Il Primo. Delle gambe fatte per prenderti a calci in culo. Il Primo. Una barbetta adolescenziale, sparuta e impaurita, e dei baffi sottili, adolescenziali, li vedi dal basso verso l’alto, mentre s’accuccia su di te, mentre dilania la preda tu che sei la preda. Perché lui, Il Primo, rischia la seconda e L’Altro è solo sorpresa sommersa. Avete capito bene, rischia la seconda, è sul baratro e rischia la seconda. Lui vive di battuta. Lui è una battuta di caccia. Vuole rifare la stessa battuta, Il Primo, stesso movimento, stessa pallina marchiata a carbone e a bestemmie sussurrate. L’Altro è un adulto alle prese con pensieri da bimbo incompreso. Non capisce. Chi mai comprende la sconfitta imminente? Un bambino poi?
C’è un frastuono da non sopravviverci. Le persone si trattengono l’un l’altra per non impazzire. Voci, polveri, graffi sulla pelle delicata del campo centrale. Non c’è direzione, il regista si è sacrificato per la causa. Andato pure lui. Su Primo, una botta e via, porta a casa tutto. Azione. Nulla da fare. Parità. E’ tutta una questione d’ignoranza, ora. Svuotare cervelli, corsa al buio. Colpire dove c’è da colpire. Il corpo è tutt’altro, il corpo non lo senti. I vostri corpi ignoranti. Altra possibilità, via. Niente, rischia sul nulla. Lascialo giocare, dagli tempo, ascolta quello che da dire L’Altro. Balbetterà. Questa maledetta altalena. Non rischiare, non rischiare che qui si rischia d’incoraggiarlo, qui si rischia il linciaggio. Primo, aspetta. Striscia a rete, incrocia e ora attendi, perché sbaglierà, la pianta. Ha sbagliato. Una palla ancora, poi il pieno di tutto. Ora accucciati, sii debole. Affidati. Ridi, fatti male. L’Altro è il muro, tu una delle tante rincorse. Eccoci, è la tua terza possibilità. Baci dolce la palla.
Ma ti sembra il caso di farsi fottere da un pallonetto? Complimenti. Parità. Ora non c’è più nessuno attorno. Siete delle occasioni. Sei ombra. L’aria è diversa, ora, sta per succedere qualcosa. Gli occhi sono seri come la prima volta, come poco prima del tuo primo tuffo. Avevi sei anni. Qualcuno ti chiese di essere il primo a farlo, quel tuffo. Facci vedere chi sei, ti dissero. Era alto da lassù, tu non così tanto.
Il Primo corre a rete; non ha neppure bisogno di colpire, fa paura. Il talento non serve, conta la rabbia, sputa rabbia. Sputa involontariamente ovunque. Vince e nasconde la faccia, ridiventa solo animale, Primo. Si scopa l’erba. Come un bambino che imita gli animali. La pianta, l’Altro è disgrazia diseredata. Era un pretesto per la tua gloria. E’ un chiunque altro che ha avuto una possibilità. E’ l’Altro, non si discute nel suo ruolo di vittima già sacrificata. Il tutto dura otto minuti. Ma che vite. Piangi come dopo quel tuffo. Era alto, tu non poi così tanto. Ma sapevi, sai arrampicarti. E poi buttarsi da animale. Abbracciare poi tuo padre. Ancora.
Res ipsa loquitur
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