La scrittura, il fascismo, la storia

gianfranco-fini-saluto-romanodi Giacomo Sartori

I miei testi nascono da scintille che non si spengono, che si ostinano a crescere e   diventano fuochi. Una decina di anni fa volevo scrivere un romanzo sulle ultime settimane della malattia di mio padre, sulla sua agonia. La scintilla era quella, lo scandalo di quel calvario corporale privo di empatie, non parliamo di amore, o anche solo di benevolenza, o di indulgenza, della persona che mi ha messo al mondo, e che poi ha vissuto un’esistenza parallela alla mia. Quelle occhiate e quei rantoli che erano solo rabbia e rancore per noi che non crepavamo, per usare il suo linguaggio, non ancora. E invece la scrittura mi ha portato altrove. Mi ha preso per mano e mi ha condotto indietro, in plaghe dove non avevo pianificato di avventurarmi, un inospitale campo di battaglia dove risuonavano canzoni patriottiche e motti guerrieri, sfilavano camice nere. La guerra, e soprattutto il fascismo.

Mio padre era stato fascista, lo era rimasto anche dopo, e aveva fatto la guerra. Questo lo sapevo da sempre, era per così dire il suo insolente biglietto da visita. Scrivendo scoprivo però che guerra e fascismo erano indissolubilmente legati. Scoprivo che il fascismo non era l’aneddotico vestito quasi comico, quasi tenero, del burbero e spartano alpinista che non aveva mai rinnegato le sue idee, ricavandone una impertinente maestà appunto apprezzata, per non dire carismatica (stava simpatico perfino a persone che detestava). Era un veleno intimo e viscerale, una logica necessaria e pervasiva, un’infezione della realtà che era entrata anche in me, e era proprio quel fiele che mi rendeva la vita impossibile. Perché anch’io, che mi ero schierato fin da giovanissimo all’estrema sinistra, e che mi ero sempre considerato libero e indipendente, ero contagiato da quelle stesse vicende storiche, coagulate in modi di sentire e esistere. Qualcosa di tremendo ci legava. Il romanzo su di lui diventava un romanzo anche su di me, sulla necessità che avevo provato di liberarmi, rifugiandomi all’estero.

Per capire qualcosa del marasma in cui mi dibattevo, e che appunto aveva a che fare con il mio essere più profondo, ho cominciato a macinare decine libri di storia. Disordinatamente, e con la mia solita foga di autodidatta forse non molto dotato per le speculazioni astratte, e con debole memoria. Di tanto in tanto chiedevo aiuto a qualche storico di mia conoscenza, ma i suoi consigli si rivelavano sempre poco utili, rami secchi. I libri li trovavo io, e molto spesso per caso, il cosiddetto caso, quel filo di necessarie contingenze che regge le nostre esistenze, e erano proprio quelli che mi servivano, che mi facevano andare avanti in quella mia ricerca parallela alla scrittura, e ad essa funzionale.

Non procedevo dai libri di storia alla scrittura, ma dalla scrittura alla storia, per poi tornare di nuovo alla scrittura. Nei testi storici cercavo risposte, o più spesso ancora conferme. Nella scrittura, e con le armi potentissime ma anche ridondanti e imbrogliate della scrittura, arrivavo a certe conclusioni, e per essere sicuro andavo a consultare chi su quei soggetti aveva lavorato con altre finalità e altri metodi, con programmata sistematicità, e nel quadro rassicurante ma anche asfittico di una disciplina con i suoi assiomi e le sue regole (io invece ero da solo, e dovevo darmi io stesso le mie regole). Finivo spesso per constatare che le intuizioni e le conclusioni alle quali ero arrivato erano giuste. Ma appunto adesso ero sicuro del fatto mio, trovavo ben altro slancio: potevo procedere, andando più in profondità, cercando ancora. Utilizzando ancora gli ingredienti della mia esistenza e della mia memoria, vagliandoli e assemblandoli con quell’unico utensile che avevo, il linguaggio, che strizzavo e forzavo stando seduto in concentrata solitudine davanti a una tastiera.

Avevo le idee sempre più chiare. Vedevo ormai che dietro a molti atteggiamenti di mio padre, a molte parole del suo lessico (me ne frego!), c’era il fascismo, c’era la Storia. Io, tutti noi, le avevamo sempre considerate particolarità del suo carattere, sue fisime, e invece quelle peculiarità erano elementi fondanti dell’aria che aveva respirato, lui figlio di un fascista, e nato l’anno dell’avvento al potere del fascismo. Vedevo anche che la società in cui vivevo si pavoneggiava in una colpevole amnesia, un’irresponsabile indulgenza verso i crimini che aveva commesso. Seimila ebrei, seimila donne e uomini e bambini e vecchi dei quali nessuno parlava, sarebbe bastato questo, gasati e bruciati. Scoprivo, questa era la cosa più delicata, e per certi versi insostenibili, che anche il padre di mio padre, mio nonno, era implicato in prima persona nelle deportazioni, e forse addirittura in quel crimine di cui nessuno parlava, il massacro degli ebrei italiani o che si trovavano in Italia. Quella persona che io non potevo ricordare, e che tutti descrivevano come educata e delicata, e spiritosa, era stata probabilmente coinvolta, nel suo ruolo di ufficiale di collegamento addetto ai contatti con i tedeschi (la nostra provincia era stata annessa al Reich), in quel misfatto che ora appariva quasi irreale, da quanto era atroce. La divertita vulgata che circolava in famiglia, secondo la quale si era sempre arrangiato perché in Germania partissero dei delinquenti, era probabilmente una irresponsabile e inscusabile impostura.

Vedevo dell’altro. Vedevo che quel soffocante clima politico e culturale e umano nel quale avevo vissuto la mia adolescenza, e lo stesso terrorismo, che io come molti altri avevo incontrato di striscio sul mio cammino, erano il risultato di quei nodi storici non risolti, di quell’aver voltato pagina senza fare i conti con il passato, senza designare dei colpevoli, non foss’altro come antidoto simbolico, accontentandosi di stantie e spesso ipocrite retoriche di facciata, cristallizzando quella micidiale violenza che avrebbe dovuto appartenere ormai al passato. Il mio stesso precoce schierarmi nella sinistra extraparlamentare, la mia costruzione identitaria, portavano molte tracce di quei nodi non risolti. Ero quindi legato al fascismo in più modi, per così dire dall’esterno e dall’interno. Come del resto lo erano anche moltissimi miei connazionali, visto che in quasi ogni famiglia c’era stato almeno un camerata, anche se nessuno parlava mai del fascismo dei propri parenti. Il mio percorso non era solo un’emancipazione personale, era un qualcosa che riguardava anche gli altri.

 

Qualche anno dopo ho sentito il bisogno di scrivere la vicenda dell’incarcerazione e della fucilazione di Galeazzo Ciano. Anche qui è stata una scintilla che non saprei spiegare, e che è diventata un rogo indomabile. Per certi versi era un mistero ancora più grande: qui non c’erano legami diretti che giustificassero il mio bisogno di scrivere. E in un certo senso i miei conti li avevo regolati, mi ero liberato dal fascismo, quella tenia che a mia insaputa s’era incistata, sopravvivendo a se stessa, in me. Certo, consideravo incredibile che nessuno scrittore italiano del dopoguerra avesse posato il suo cantiere sui ruderi di quella tragedia centrale per la storia del paese, e che per molti versi riassumeva con icasticità il carattere e tante magagne della nazione. Mi sembrava molto sintomatico, e anche assai grave. E da un altro punto di vista, più prosaico, anche un’irripetibile fortuna. Ma non era certo questa la molla.

Questa volta avevo bisogno della Storia, era per così dire il mio materiale di partenza. Lavoravo su un cono d’ombra che nessuno storico avrebbe mai potuto illuminare: tutti i testimoni della vicenda avevano scritto tutto quello che avevano da dire, due storici conosciuti avevano redatto due esaurientissime biografie di Ciano, tutti gli elementi disponibili erano stati spremuti e ristrizzati. Lui era morto, portandosi dietro i suoi segreti, la giovane amante nazista che era stata messa lì per controllarlo, e che invece aveva capitolato al suo fascino di navigato quarantenne, si era rifatta una vita sotto altro nome in Germania, e quando era stata rintracciata non aveva parlato: nessuno poteva dire cosa fosse davvero successo tra loro, in quella cella del convento degli Scalzi adibita a prigione. Un buco nero che mi strattonava verso quell’essere contraddittorio e detestabile, irresponsabile e spregevole, vigliacco e inconsistente, stragonfio di vanità e fatuo, e per altri versi anche umano, toccante, che aveva firmato il Patto d’Acciaio, e aveva commesso non poche nefandezze, tra le quali l’assassinio dei fratelli Rosselli.

Anche questa volta leggevo molti scritti storici. Per puntellare la scrittura di qualche linea attaccavo filoni che sfruttavo poi fino all’ultima vena, prima di passare a altri giacimenti, necessari per altre frasi. Ma anche questa volta era un’attività quasi sempre di verifica di verosimiglianza, di collaudo storico a posteriori, più che un lavoro preparatorio. La documentazione non precedeva la scrittura, la affiancava, la serviva. Ancora uno sciacallaggio di testi che avevano richiesto molto lavoro, molto rigore, a volte molta intelligenza.

Non mi interessava completare il lavoro degli storici, che come si è capito ammiro e non mi appassiona (non ho mai provato piacere, quella vertigine sottile ma anche violenta che è prima di tutto una forma di conoscenza, questo è il vero nodo della questione, nel leggere un libro di storia, beninteso se si escludono i classici): non credo che questo possa essere un compito interessante per la letteratura. C’era qualcosa d’altro. Probabilmente quella voragine nella storia della nazione parlava ancora di mio padre, di me, della realtà che a tanti anni di distanza vedevo attorno a me. Riempiendo quel buco scrivevo ancora una volta di me, per me, prima ancora che per i miei connazionali smemorati, per i giornalisti che senza capirne l’essenza l’avrebbero considerato un cattivo romanzo storico, per gli storici che l’avrebbero snobbato. Come tutti i romanzieri, che lavorano con il cervello ma anche con la pancia e senza potersi sbarazzare dei demoni interiori, con finalità mai disinteressate, e si interrogano sul senso del tempo, più che su quello di un tempo particolare (dopo l’uscita del libro, forse questa potrebbe essere una pista, ho saputo che mio padre era andato con un suo fratello, pure lui repubblichino, a vedere il processo: erano lì, in quella sala, vicino a lui, quando è stato condannato a morte).

(testo pubblicato su Lo Straniero, ottobre 2014, n. 172)

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10 Commenti

  1. caro Giacomo, è con vera commozione che ti abbraccio per questo straordinario pezzo che mi fa riandare a vicende, non strettamente analoghe,ma con vari punti di somiglianza, relative appunto al mio padre, fascista della prima, e anche dell’ultima, ora.

  2. ho qualche anno in meno e una storia familiare profondamente diversa, ma non posso non condividere la stessa commozione e empatia che le ha espresso già Sparz qui sopra.
    grazie.

  3. gran pezzo, complimenti (anche per il coraggio di questa esposizione di sé che, immagino, sia servito)

  4. Lucido, coraggioso. Tangente alle tue parole, è tornato al cuore un pensiero (anche autoaccusatorio) sull’arroganza che tanto spesso intride le parole di chi prova a scrivere la Storia con l’ansia di vagliare, di giudicare, di definire, di assolvere, di costruire la continuità, le relazioni necessitanti, il prima che (necessariamente) anticipa il dopo, il dopo che (consequenzialmente) spiega il prima. Giudici e padreterni a tavolino che sulle storie delle persone (persone, non personaggi) gettano luce o dimenticanza. Ma cosa c’era nel cuore di Ciano? Ma chi può (ma chi vorrebbe) indossare i suoi indumenti intimi? Cosa sappiamo? Le biografie – indirettamente me l’hai ricordato – sono difficili da scrivere, sempre in equilibrio fragile sopra una corda tesa sull’impudicizia, dove la distanza dal silenzio è sempre in qualche modo proporzionale a quella che separa chi le scrive dalla carità.
    Ciao Giacomo.

  5. vi ringrazio davvero degli apprezzamenti, che mi aiutano a credere in quello che cerco – con difficoltà – di fare;

  6. Sto lavorando su Bassani (perché così poco letto? ) , che ha fatto forse mosso da scintille simili un lavoro così ingrato e fondamentale come quello che sta a provando a fare lei, Giacomo. E voi due avete come scrittori , drammaticamente ragione, a considerare quell’amnesia vergognosa e perdonata, la causa più sottovalutata della nostra – agghiacciante – storia recente. Grazie per questo pezzo viscerale.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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