Lo sguardo osceno
Ho evitato questa storia finché ho potuto. Leggevo i titoli dei giornali e saltavo d’istinto le pagine. L’ho messa fuori dal mio sguardo, dai miei pensieri, reputandola oscena. Non sapevo nulla e non volevo sapere nulla di questa infermiera. Non mi interessava entrare nella sua mente, capirne le ragioni. Non voglio neppure ricordarmi il suo nome. Non so, ad oggi, se è davvero colpevole di quello che viene accusata. Non posso, non voglio, essere in grado di giudicarla. Ci deve pensare la legge a garantirmi una risposta, non faccio processi sommari.
Poi hanno pubblicato le fotografie: on line, a mezzo stampa… ovunque. Ciò che può fare un’immagine può essere devastante. Cercare di mascherare il volto della povera signora anziana derisa dalla sua infermiera, “pixelarle” il volto, m’ha persino irritato. Quanta pelosa ipocrisia. Certe storie vanno raccontate con i guanti. Una fotografia è sempre una narrazione senza mediazione, tocca il cervello rettile, quello più istintivo, tocca il ventre molle del nostro io.
Quelle immagini ho dovuto guardarle, mio malgrado. S’è parlato di selfie del mostro. A sproposito. Questo linguaggio à la page di un certo giornalismo d’accatto mi imbarazza. Tecnicamente non si può neppure parlare di selfie. Non è un autoscatto, non sono fotografie pensate per essere diffuse nei social network. So che la difesa cerca di dimostrare che la povera signora anziana – doppiamente vittima, vittima ogni volta che guardiamo quelle foto – non fosse morta. Probabilmente cerca di evitare per la sua assistita il vilipendio di cadavere, che è un reato penale. (Non voglio neppure pensare agli altri morti, all’idea che siano davvero collegati in una catena perversa di omicidi. Non riesco a reggerlo dal punto di vista emotivo).
Se la poveretta fosse stata viva come affermano sarebbe stato uno spettacolo altrettanto osceno. A me quelle foto che la stampa m’ha obbligato a guardare hanno ricordato, e qui è il cervello rettile che s’è attivato, le foto scattate dieci anni fa ad Abu Ghraib dai militari statunitensi accanto ai prigionieri torturati. Lo stesso atto d’arroganza di chi si sente impunito per il ruolo che copre. Fatto anche in questo caso da una donna, a dimostrazione che di fronte alla possibilità di esercitare un potere, qualunque esso sia, purtroppo non c’è differenza di genere.
Quelle foto sono un trofeo. Un feticcio a portata di smartphone. Mi chiedo se c’era davvero il bisogno di pubblicarle. Tema antico che tocca il nervo scoperto del diritto di cronaca: quali sono i limiti per esercitarlo? Eppure io continuo a chiedermi cosa ipoteticamente ci abbia dato in più, dal punto di vista dell’informazione, la visione di quelle immagini, se non la consapevolezza che avrebbe di certo scatenato i nostri bassi istinti voyeristici. Quando il gruppo terroristico di Isis mette on line le sue macabre decapitazioni, mi chiedo, dobbiamo sottostare al gioco dei terroristi, replicandole, moltiplicandone la visione? O dobbiamo avere il coraggio di dire di no, di non cadere nella rete, nell’inganno propagandistico?
Sto esagerando? Quanto siamo capaci di cadere nel morboso, a colpi di click sulla tastiera, smarrendo quasi senza accorgercene il rispetto per la vita perduta o per le angosce dei parenti della vittima? Perché mettere in mostra questi trofei laidi? Per quale bieco interesse spiccio? E quanto siamo complici noi, guardandole? Quanto stiamo gonfiando l’ego di chi le ha volute? Non credo sia un caso che in rete siano già presenti pagine sui social network dedicate a questa donna, dove i più bassi istinti trovano terreno di coltura per commenti violenti, abominevoli, turpi. A chi fa bene la gogna?
La donna che s’è fatta fotografare imitando il volto emaciato della povera vittima, ha agito con arroganza, con sfrontatezza. Un gesto di supremo narcisismo. Io c’ero, io posso tutto. Voglio guardarmi e riguardarmi tutte le volte che credo. “La vita e la morte” ha scritto come commento su WhatsApp. Ma i miti bisogna saperli gestire. Ciò che Narciso vedeva riflesso nell’acqua era se stesso. Mentre si riguardava imitare la paziente forse quell’infermiera non si rendeva conto di riconoscersi già morta, più ancora delle umili spoglie che sbeffeggiava. Corpo vivo d’umanità, quello, che muove istintivamente alla pietas.
Ho evitato questa storia finché ho potuto, dicevo, perché avevo paura di guardarmi allo specchio. Quell’infermiera, quella donna in teoria votata alla cura dei nostri cari – i più deboli, i più indifesi – non ha le sembianze luciferine del mostro. Quanto sono rassicuranti le streghe delle fiabe, gli orchi delle leggende: deformi, diversi, altro da noi. No! Questa infermiera – sulla quale insisto ad esercitare una mia privata damnatio memoriae – questa donna dal sorriso sbarazzino, il corpo tonico, le sopracciglia ben curate, è una di noi. Il mostro, se è un mostro, ci somiglia.
(pubblicato su Grazia del 3 dicembre 2014)
C’è il diritto di cronaca; c’è il dovere di documentare (e penso ai fotografi militari americani che entrarono nei lager nazisti); e dovrebbe esserci la censura – no, non morale – la censura della pietas e del rispetto. Spesso i giornali confondono queste cose, a volte stupidamente, a volte volutamente per aumentare le vendite o gli accessi web. Bel pezzo, Biondillo.
Un articolo efficace. Il diritto di cronaca dovrebbe rispettare un codice deontologico della categoria, e questa impegnarsi(in tutta autonomia) a esprimere una censura etica, o come chiamarla, nei confronti dei suoi membri. Le immagini e riprese indecenti abbondano. Trovo per es. addirittura pornografico l’approccio dei TG a persone sconvolte da delitti e sciagure, esibite senza pietà a grandi e piccini all’ora dei pasti.