L’onere della prova e gli eroi bambini
di Lorenzo Declich
Ci sono volte in cui la semplice esposizione di cose presenti lancia messaggi molto chiari. In principio, dunque, vi racconterò cosa ho nel mio computer, nella cartella “hero boy”, dove ho messo diversi video scaricati da YouTube. Aggiungerò a questa descrizione alcuni dettagli, facilmente reperibili in rete.
Nel primo video un bambino si trova sotto il fuoco dei cecchini. Fa finta di cadere, colpito, poi si rialza e va a salvare una bambina. Si intitola “Eroe siriano: un ragazzo salva una ragazza”. Il titolo è in inglese e in arabo.
Nel secondo video, taggato “BBC trending”, si scopre che il video precedente è un falso, che la scena è stata girata su un set. La didascalia spiega che: “il video dell’eroe bambino siriano è un falso costruito da filmakers norvegesi”. Apprenderemo poi che la scena è stata girata lo scorso agosto a Malta. I titoli, qui, sono in inglese.
Il terzo video contiene una sorta di rassegna stampa intitolata, in inglese: “la NATO usa un falso video virale su un eroe bambino siriano per invadere la Siria”.
Il quarto video, in inglese, è un’intervista al regista del video, Lars Klevberg, che: “non si pente riguardo al video falso”. In un dispaccio che ha diffuso via twitter, spiega che col suo lavoro voleva porre l’attenzione sui bambini nella guerra siriana.
L’”opera” di Klevberg ha raggiunto milioni di persone ma, nonostante questo “non pentimento” pubblico, animato dal desiderio di “accendere i riflettori” sui bambini siriani, il video originale è stato cancellato da Youtube: ne abbiamo oggi solo copie. Una di esse, postata dal network Sham, ha oggi 4.600.000 visualizzazioni.
Abbiamo solo copie anche del secondo video, anch’esso è stato cancellato, anch’esso era molto popolare. L’originale complottardo, invece, rimane online, è stato visto da più di centomila persone.
Ho un quinto, un sesto e un settimo video nel mio computer. Nel quinto (12 marzo 2012) andiamo a Homs. Un ragazzo salva un altro ragazzo, ferito, mettendo a rischio la propria vita. 1.100 visualizzazioni. Nel sesto (28 aprile 2012) un bambino di Dera’a corre in mezzo alla strada con una borsa in spalla. Si sente un forte brusio e poi un’esplosione. Il bambino continua a correre, irrompe correndo un ragazzo, che lo prende in braccio e lo porta via. 350.000 visualizzazioni. Nel settimo (3 novembre 2012) ci sono quattro ragazzini che corrono in direzione della telecamera su una strada che, secondo le indicazioni, si trova nelle campagne di Aleppo, Khan al-Asal. Sullo sfondo c’è un carro armato. Si sentono rumori di spari. Le voci fuori campo si fanno sempre più concitate. I ragazzini fanno una cinquantina di metri, in ordine sparso, si mettono tutti in salvo. L’ultimo a trovare riparo porta in braccio un quinto bambino, piccolissimo. 4.700 visualizzazioni.
Ho trovato i video su un blog. Facendo ricerche incrociate su Youtube li ho ritrovati con difficoltà. E’ vero, sono relativamente vecchi e portano titoli in arabo, ma l’ostacolo più grande è stato un altro. Per scovarli ho dovuto scorrere decine e decine di pagine di ricerca, tutte dominate dall’onnipresente vera-falsa storia del “bambino eroe” siriano. Sempre gli stessi quattro fotogrammi, presentati in tutte le salse, un elenco che non è tale perché ripropone continuamente la stessa cosa. Pochi sono i click su queste copie secondarie, ma il loro numero provoca un effetto di saturazione, l’attenzione inesorabilmente cade. Il falso eroe è ovunque.
Bellingcat, un sito che si occupa di fact checking partecipato, ha diffuso nei giorni scorsi questo comunicato:
Noi sottoscritti esprimiamo la nostra condanna sul carattere ingannevole del film diretto da Lars Klevberg e finanziato dal Norwegian Film Institute e l’Arts Council Norway sulla Siria. È incosciente e irresponsabile distribuire una fiction come se fosse una ripresa reale perché ciò sminuisce la reale sofferenza dei bambini della Siria e il duro lavoro svolto dai giornalisti professionisti e dai cittadini all’interno della Siria.
I bambini siriani sono stati il bersaglio di cecchini, barili-bomba e di atrocità di massa per oltre tre anni. Gran parte di queste cose sono state documentate, faticosamente, da giornalisti-cittadini e giornalisti professionisti in circostanze pericolose e terribili. Questo film mina il lavoro delle persone che continuano a documentare questi crimini contro l’umanità. Piuttosto che impegnarsi in un dibattito, utilizzando elementi esistenti, di cui vi è abbondanza, il film invita a mettere in discussione, sia eticamente che professionalmente, il lavoro svolto per documentare questi crimini all’interno della Siria.
Il modo in cui questo film è stato presentato al pubblico è volutamente fuorviante. In un tale conflitto, decifrare il vero dal falso è un compito difficile e molti attivisti, giornalisti e analisti trascorrono ore e ore spulciando tra i video al fine di fornire informazioni accurate al pubblico. Il metodo volutamente ingannevole col quale il video è stato diffuso ha provocato maggiore disinformazione sulla Siria.
Questo video non farà che alimentare i tentativi di diffondere dubbi su storie reali provenienti dalla Siria, prodotte da giornalisti-cittadini e giornalisti professionisti. La vicenda dimostra che i filmakers, e coloro che li hanno finanziati, hanno poca comprensione della complessità del conflitto e non hanno riguardo per il rischio che la gente prende su di sé per documentare la violenza e il conflitto.
In un conflitto così crudele e incerto come quello in Siria, ci sono storie vere di eroismo quotidiano che testimoniano la sofferenza di un popolo. Molti hanno pagato con la vita.
Invece di far luce su una generazione perduta, il film ha messo in pericolo vite, ha posto l’onere della prova a chi soffre piuttosto che su quelli che causano la sofferenza, ha sminuito il coraggio delle persone che lavorano in zone di conflitto.
Ci ho pensato a lungo, poi ho deciso di postare almeno uno dei video che ho descritto. Eccolo, non è fiction.
I commenti a questo post sono chiusi
agghiacciante.
il fondamento di ogni bugia è una verità che fa male – che è “brutta”, un video sfuocato che sobbalza per le esplosioni e si fatica a capire cosa si vede. Si fatica a capire che è vero. Stiamo forse diventando tutti sempre più “pigri”, sempre più incapaci di toccarci le gambe che fanno camminare e scappare e sorreggono la testa che sogna e produce menzogne?
Si fa fatica a capire che è vero, infatti; a collegarsi con quel che si vede. L’effetto di saturazione che video o immagini di guerra possono creare è un problema che esula dal caso specifico, penso. Non si tratta solo di distinguere il vero dal falso (che è senz’altro la priorità), ma anche di rendersi davvero conto che quell’informazione mediata è realtà, seppur incorniciata da uno schermo. Sembra che la sovraesposizione alle immagini e l’ipertrofia delle fictions -tutte, dichiarate e non- provochino una specie di intorpidimento intellettivo, contro il quale forse il solo antidoto è il discorso, che, come in questo pezzo, ricontestualizza, collega, avvicina – scongiurando il rischio che foto o riprese galleggino nel flusso di informazioni senza essere realmente recepite.
Strana coincidenza: mi sto occupando del probabile caso-matrice di questo problema.La foto iconica del “Falling Soldier” (o “Miliziano colpito a morte) di Robert Capa.
Nel 1974 il giornalista inglese Phillip Knightley contesta l’autenticità di quell’immagine in un libro significativamente intitolato “The First Casualty” – la prima vittima della guerra, ossia la verità.
Da allora, la polemica ha visto difensori, detrattori, nuove scoperte che aiutano a definire meglio il luogo e il momento in cui la foto è stata scattata, ma non è saltata fuori nessuna prova regina sul fatto che essa è frutto di una messa in scena o di un accadimento reale e letale, però meno romantico-eroico di quello che l’immagine veicola.
Una delle ipotesi più verosimili è che mentre quei miliziani anarchici stavano simulando un attacco per i fotografi simpatizzanti (con Capa c’era anche la sua compagna Gerda Taro) per sbaglio a qualcuno fosse partito un colpo in canna.
Il fatto interessante è che i cultori di Capa – l’International Center of Photography che ne custodisce il lascito ma anche fotografi famosi e stimati come Mario Dondero – continuano a difendere l’autenticità di quella foto a spada tratta.
Poi c’è un’altra scuola di difesa che sostiene che l’immagine è vera per quel che simboleggia e rappresenta e quindi la sua autenticità sarebbe una questione di secondo piano.
Ma la questione a cui mi interessava arrivare è un’altra. Non solo Robert Capa non ha evidentemente simulato la sua morte su una mina vietnamita, ma soprattutto sembra probabile che il Falling Soldier (del quale non si trovano più i negativi) sia l’unica foto falsa della sua carriera.
Nel ottobre 1938, per esempio, Capa fotografa una delle ultime battaglie vittoriose dei repubblicani, quella del Rio Segre. E tra le immagini scattate nel pieno del combattimento ce n’è anche una di un soldato ferito a morte che consegna l’ultima lettera a un compagno. Ma quella immagine non è “iconica” e famosa come il miliziano che cade all’indietro nella sua camicia bianca.
Purtroppo il problema sembra ineliminabilmente collegato alla richiesta che un documento vero sia anche veicolo efficace di un messaggio, anche se quel messaggio di denuncia può essere il più condivisibile.
I “taroccatori” svedesi mi sembrano quegli incoscienti delle cui buone intenzioni è lastricata la via per l’inferno: ma che il male, anche se autenticamente documentato, debba aderire a delle regole estetiche e funzionali di fruibilità (e quindi di consumo) per poter essere comunicato è un problema che travalica l’esempio.
Questo, soprattutto oggi che la diffusione di immagini, filmati e altre testimonianze non è più solo affidata agli specialisti, pone un grande problema; vuoi di deontolgia stretta dell’informazione vuoi di attenzione vigile ma anche “astuzia” nello stare consapevolmente al gioco della comunicazione.
Sì, è vero, e questo pone un numero di problemi di deontologia. E io non ho risposte, rimango senza parole. C’è il livello “meritorio” di Bellingcat, cioè il tentativo di documentare, di dare nomi e cognomi, in una situazione come quella siriana in cui molto spesso le uniche fonti sono quelle che ci arrivano via youtube. C’è però un limite al lavoro di Bellingcat: youtube è pensato per intrattenere le persone, non per documentare una guerra. O meglio: è pensato per intrattenere le persone *e quindi anche* per documentare o falsificare una guerra. Il decerebrato che produce un fake professionale è parte attiva del gioco di youtube. E lo rivendica, mentre youtube monetizza. C’era un meccanismo simile negli anni 30? Ovvero: c’era una “terza parte” disinteressata al conflitto che produceva la piattaforma su cui questo conflitto veniva documentato o falsificato allo scopo di fare soldi? Voglio dire: viviamo in un ecosistema mediatico che fonda la sua fortuna sull’assenza di deontologia.
Il fenomeno è ampio e non riguarda soltanto le guerre militari, ma anche tutte quelle situazioni di conflitto e malessere sociale/esistenziale. Ho visto da poco un graffiante film filippino, “The woman in the septic tank”, in cui viene descritta la pre-produzione di un film indie che due studenti vogliono presentare come elaborato finale all’università e con cui sognano di aprirsi la via del successo globale. E cosa vende meglio nella cultura, indie e non, di un bel film documentaristico su uno slum filippino e su una madre che per povertà e disperazione vende il proprio figlio a un pedofilo? Così, tra scene immaginate con diverse attrici e con diverse soluzioni (usiamo un bambino o una bambina? il pedofilo è caucasico o asiatico? etc.) i due aspiranti testimoni e denunciatori del male ne diventano allegramente parte, con un finale che per fortuna ristabilisce un po’ di giustizia. Certo, gli esseri umani sono da sempre attratti dalla rappresentazione del male per esorcizzarlo catarticamente, però indubbiamente si è creato negli ultimi anni una specie di blob fatto di mercato e 2.0 che fagocita tutto e che trasforma un’esperienza di conoscenza in una fruizione on demand.
[…] Lorenzo Declich, per Nazione Indiana). Ci sono volte in cui la semplice esposizione di cose presenti lancia messaggi molto chiari. In […]
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