Genealogie del presente
Può essere scontato dire che talvolta mancano le parole, e magari si pensa a qualche film romantico in cui i protagonisti dichiarano l’impossibilità di esprimere il proprio amore l’uno per l’altro. Ma cosa vuol dire quando mancano le parole in campo politico? Forse percepire come esse sfuggono e non si lasciano catturare. Forse avvertire come i termini disponibili siano già pesantemente ricoperti da significati ormai stratificati che non li rendono facilmente fruibili per un uso differente, fuori dalla fisionomia divenuta abituale. Questi strati non pervertono o insozzano parole altrimenti pure: piuttosto pare estremamente difficile strappare un determinato significante alla costellazione di significati al quale è stato lungamente vincolato. Consegnate tanto all’uso comune quanto all’uso ufficiale, ordinate e spesso immobilizzate, quello che non è permesso sembra essere esattamente pervertire e compromettere le parole, nel senso di piegarle in altre direzioni, verso altri significati.
In questo senso, il recente Genealogie del presente. Lessico politico per tempi interessanti a cura di Federico Zappino, Lorenzo Coccoli e Marco Tabacchini (Mimesis, pp. 275, euro 22) è un libro corale che riunisce diciotto autori e autrici impegnati in un lavoro genealogico (e al contempo decostruttivo) attorno a diciotto diversi termini che scandiscono la nostra quotidianità. L’obiettivo è quello di esplorare queste parole, di sovvertirle e di torcerle fino a renderle irriconoscibili rispetto ai modi in cui esse circolano nell’ordine del discorso ufficiale. Ne emerge un lessico politico di lemmi ritenuti necessari ad attraversare questi nostri tempi interessanti, questi tempi «caotici, mutevoli, sfuggenti», come scrivono i tre curatori nel Preludio, in cui «gli antichi dei sono fuggiti e quelli nuovi ancora tardano a fare il loro ingresso» (p. 9). Se da un lato è dubbia l’esistenza di periodi storici totalmente privi di queste caratteristiche, dall’altro non si può non rilevare quanto il nostro sia un tempo interessante contraddistinto da un vuoto, da una mancanza di parole – e non tanto perché queste non siano presenti, quanto perché appaiano strettamente incanalate, sottraendosi a usi alternativi o declinazioni critiche. E da qui la necessità di un lessico che si prenda carico e non abbandoni quei termini che più di altri risultano decisivi proprio perché chiavi del funzionamento della retorica del dominio, e quindi capaci di diventare fertili spazi di lotta e resistenza alla presa biopolitica e al governo del linguaggio.
Non si tratta di cercare e immettere termini nuovi e antagonisti da contrapporre, in un muro di parole d’ordine, ai termini del discorso ufficiale, quanto sottrarre a questo i termini utilizzati – o meglio, scardinare tanto il monopolio della dicibilità delle singole parole da parte del discorso ufficiale quanto l’esclusiva sul loro orizzonte di senso. E piuttosto che una riappropriazione, come se si potesse davvero strappare una parola e portarla da una supposta propria parte, il tentativo è volto a restituire la parola a se stessa, alla sua propria complessità. Il Lessico non ospita parole nuove, bensì mette in movimento le parole ascoltate ogni giorno, cristallizzate in costellazioni strategiche e funzionali. «Oltre che un processo di mirata risemantizzazione», le parole pronunciate dalla retorica ufficiale subiscono anche «un costante processo di degradazione» (p. 15), e in questo caso non si può non pensare al termine rivoluzione, mai come ora invocato costantemente e mai così lontano da ciò che ha significato per generazioni. E se il termine rivoluzione non è presente, gli altri lemmi non possono che risuonare: Bene Comune e Beni Comuni di M.R. Marella, Costituzione di G. Amendola, Crisi di F. Zappino, Democrazia di L.Bazzicalupo, Destra/Sinistra di F. Remotti, Eccellenza di F. Giardini, Eguaglianza di G. Zanetti, Governabilità di S. Chignola, Legalità di U. Mattei e M. Spanò, Movimento di M. Tabacchini, Popolo di P. Amato, Povertà di L. Coccoli, Precarietà di C. Morini, Responsabilità di B. Giacomini, Sacrificio di M. Esposito, Società di M. Ricciardi, Trasparenza di V. Pinto, Futuro di L. Bernini.
Per costruire questo Lessico, il metodo proposto dai curatori e accolto dai singoli autori e autrici è quello genealogico, così come tracciato dal Foucault interprete di Nietzsche in Microfisica del potere. Una genealogia del presente a partire dai termini caratterizzanti il nostro tempo elimina definitivamente il dubbio che il progetto consista nel tentativo di avvicinarsi a parole pure, annidate in un’intoccabile origine, eliminandone le impurità che le ricoprono. A questa ricerca dell’origine si predilige piuttosto la riflessione sulla provenienza e sull’emergenza, sia dei singoli termini sia del nostro presente. Si tratta allora di reperire gli scarti e i salti, le molteplici deviazioni e discontinuità che per vie impreviste hanno portato al presente, non per fissarlo in una nuova definizione chiarificatrice, ma per scuoterlo, perché «la genealogia non fonda, al contrario: inquieta quel che si percepiva immobile».
Tempi interessanti perché «costitutivamente ambigui» (p. 10) affermano i curatori, interessanti anche perché si intravede, tra le pieghe delle retoriche dominanti, la possibilità di restituire i termini alla loro intrinseca complessità, confiscata da dispositivi linguistici che ne restituiscono un volto neutralizzato e pacificato, privato della propria densità. Ecco che allora il metodo genealogico funziona per mettere in movimento i termini e farne esplodere le ambiguità, i significati altri e latenti, offuscati e zittiti. La voce Crisi, elaborata da Federico Zappino, oltre a essere il termine che più di altri scandisce i «tempi interessanti» e percorre l’intero volume, è un chiaro esempio di quest’operazione. Partendo da un’analisi della retorica della crisi come instrumentum regni contemporaneo che impone decisioni necessarie, eccezionali e urgenti, riprendendo tanto alcuni passaggi biblici quanto le immagini della polis greca, l’autore fa emergere una lettura diversa dello stesso termine, luogo di possibilità e di agitazione.
Se si accetta la presenza di un uso ideologico e quotidiano dei lemmi confluiti nel Lessico e una loro costante degradazione come perdita del grado di complessità, la messa in movimento che effettua il lessico è ripiegata sulla parola stessa, volta a restituirne la carica conflittuale. La voce Popolo curata da Pierandrea Amato mostra proprio questo aspetto, cercando di sottrarre questo termine al monopolio degli usi statuali. Partendo da Deleuze e rileggendo la plebe foucaultiana e Il disaccordo di Rancière, Amato porta alla luce la crepa costitutiva all’interno di questo spinoso termine, autentico «architrave» della politica moderna. La tensione all’interno dello stesso termine in conflitto con se stesso, – luogo della «frattura biopolitica fondamentale», scrive Agamben in Homo Sacer – rivela un’eccedenza del popolo rispetto allo stesso termine, un suo non confluire completamente nel disegno dello Stato.
Tentare una genealogia del presente così come è stato fatto in questo volume vuol dire allora dichiarare il lessico luogo di presa e di cattura, ma anche di lotta e di resistenza. Mettere in movimento i termini politici, restituendo loro la complessità disciolta nella monotonia dei flussi dei discorsi ufficiali, significa riportare il conflitto proprio a ogni parola politica in uno spazio che era stato neutralizzato e pacificato. I termini incontrano il loro rimosso, e si ripropongono con inediti lineamenti e inaspettate sembianze, ritornando sulla scena che aveva preteso inquadrarli in una certa posa una volta per tutte.
quando ero bambino sentivo parlare genericamente degli Autonomi(solitamente non benissimo)
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Nel suo ‘Abbecedario tendenzioso di parole impossibili’ Tommaso Boni Menato ha ‘tendenziosamente’ isolato 30 lemmi (amore, libertà, guerra, pace, noia, politica etc.) cercando di darne ‘una comprensione più onesta possibile’, isolando, o meglio enucleando quanto suscettibile di ‘concrete esperienze di vita’. ‘Ogni parola è non soltanto occasione di riflessioni serie o semiserie (mai seriose!), prestandosi il più delle volte a narrazioni e rivisitazioni che ne illuminano uno o più fra i tanti significati possibili.’
[…] la recensione di Elia Verzegnassi, apparsa su Nazione Indiana (19 novembre […]