La disperazione di Adamo. Su Malcolm Lowry

lowry

di Andrea Caterini

Quanto potrebbe cambiare la nostra percezione dell’opera di Malcolm Lowry se solo venisse finalmente tradotto il suo epistolario? Cosa potremmo scoprire di quel privato che Lowry maschera e reinventa in tutte le pagine dei suoi libri? Mi chiedo: è davvero necessario, dico per uno scrittore tanto egocentrico quanto bugiardo (come scrive spesso di se stesso nelle sue opere), sapere qualcosa di più di quello che già ci ha raccontato? (Va detto che anche la lettera al suo editore inglese nella quale spiegava il motivo per cui non era possibile tagliare parti di Sotto il vulcano resta a conti fatti un contributo fondamentalmente critico, quindi interpretativo, alla propria opera, più che la rivelazione, in ginocchio al confessionale, della propria autobiografia). Ma non bisogna commettere errori. Lowry pubblicò in vita meno della metà delle opere che possiamo leggere oggi. Quei libri straordinari che sono Ascoltaci Signore (nel quale sono contenuti due racconti imprescindibili per capire il pensiero e la struttura mentale dell’opera di Lowry, mi riferisco a Elefantessa e Colosseo e Il sentiero per la sorgente nella foresta) o Buio come la tomba dove giace il mio amico non hanno il visto si stampi del loro autore (pubblicati entrambi postumi, rispettivamente nel 1961 e nel 1968). Dunque, restano brogliacci, tentativi di scrittura suscettibili di chissà quante revisioni ancora, se è vero che Lowry continuò a correggere Sotto il vulcano (1947), considerato per giudizio unanime il suo capolavoro, perfino dopo la sua pubblicazione. Ma se prendessimo appunto quelle opere – Ascoltaci Signore e Buio come la tomba dove giace il mio amico – come fossero il diario, cioè le confessioni di un bugiardo? Voglio dire: che forma assume una confessione menzogniera? E soprattutto la menzogna è appena un vezzo intellettualistico, come dire la mistificazione della propria autobiografia nelle pagine di un racconto o di un romanzo, o la forma stessa in cui Lowry percepiva la sua condizione di caduta terrena, la sua percezione di essere umano?

In Sotto il vulcano sentiamo pressante il senso di colpa del protagonista, il Console, ovvero Geoffrey Firmin; una colpa che sembra derivare tutta da un dono che si è ricevuto ma che non si desiderava ricevere. Quel dono è la vita. È terribile sentire come Lowry provi questa disperazione di essere in un luogo in cui non vorrebbe essere, un’asfissia che lo opprime – lo stordimento dell’alcool, quell’alcool bevuto per avere, di quel dono che non si voleva, una visione sfocata, miope. Eppure, restare nella consapevolezza di non poter colpevolizzare Dio: cioè chi quella vita gliel’ha donata, e forse proprio da qui nasce il suo senso di colpa. Lowry è cosciente come lo è il primo uomo, Adamo, che ha visto e convissuto con Dio ma ora che l’ha perduto, che ha perduto la possibilità di coabitare con Lui, vive nella malinconia e nella disperazione, non in uno spazio diverso da quello che gli era stato precedentemente donato – l’Eden-Terra – ma in una terra che è incapace di amare. Lo dice lo stesso Geoffrey:

«Sapete, Quincey, che mi sono spesso domandato se non ci sia, in quella leggenda del Giardino dell’Eden e tutto il resto, più di quanto non sembri? E se Adamo, per esempio, non fosse stato scacciato affatto dal paradiso terrestre? Nel senso, voglio dire, in cui siamo soliti intenderla, questa antica leggenda […] E se il suo castigo fosse consistito in realtà […] nel dover continuare a viverci da solo, naturalmente… soffrendo, non visto, escluso dalla tutela del Signore… […] E poi vedete, chi non mi dice che il vero motivo del castigo, quel dover Adamo continuare a vivere nel giardino, cioè, fosse che quel poveraccio, chi sa? nel segreto del suo cuore, detestava il luogo beato? Chi non mi dice che semplicemente lo odiasse a morte, e magari lo avesse sempre odiato? E che il Vecchio avesse finito per accorgersene?…».

Non c’è dubbio che il Console sia stato tradito da sua moglie Yvonne, la quale si è allontanata ma non è capace di stare senza di lui, e gli scrive, scrive lettere che Geoffrey mai leggerà, se non quando tutto è già deciso e perduto. Geoffrey e Yvonne sono Adamo ed Eva, i primi esseri umani. Ma sono esseri che, proprio per aver conosciuto il Paradiso, non sono capaci di abbandonarsi come i loro predecessori, di sopportare la terra, cioè uno spazio senza Dio. Yvonne come Eva tradisce; il Console stesso, probabilmente, la spinge a quel tradimento. Perché solo ripetendo quel tradimento potrà legarla a lui per sempre, legati da un comune senso di colpa e accompagnarla ad accettare di morire insieme, di abbandonare il dono della vita.

Ma per quale ragione Lowry cerca tanto disperatamente la morte? Perché, non temendola, la sua opera ci appare come un continuo esercizio di avvicinamento alla morte, un ripetuto gioco di provocazione, ed evocazione – proprio nel momento in cui la provoca, quasi sbeffeggiandola, la vuole evocare? Quando leggiamo una pagina di Lowry ci accorgiamo, in maniera evidente, che ogni volta che l’uomo si allontana dall’impossibile cade nella menzogna, e che non c’è nulla di più vero dell’impossibile (Lowry sostituirebbe «impossibile» con «sublime», probabilmente). Lowry sa che la sua disperazione, il suo tormento, derivano da nient’altro che da quell’allontanamento. Allontanandosi dall’impossibile, cioè trovando una ragione che giustifichi scientemente la sua presenza nel mondo, egli cade nella menzogna. Da qui il suo bisogno di bere. Perché, a ben vedere, se Lowry è stato, come è stato davvero, un alcolizzato, questo è successo perché quella giustificazione in cui il mondo sembra apparirgli come un processo di causa ed effetto gli è insostenibile. Lowry è appunto come Adamo, cioè come colui che ha già vissuto nell’impossibile e che di conseguenza non può più accettare l’idea che il mondo, la terra che vive, sia governata da altre leggi – quelle che appartengono al sapere e alla conoscenza, quel sapere che rende evidenti il male e il dolore rendendoci impotenti, annichiliti – che non siano l’impossibile stesso. Ma non ha, di Adamo, la forza per abbandonarsi a una vita senza Dio. Allora cerca qualcosa, l’alcool, che gli renda sopportabile le leggi della terra, ovvero qualcosa che le eluda.

Il filosofo e teologo Lev Šestov scrive in Kierkegaard e la filosofia esistenziale (pubblicato nel 1939; Lowry aveva già stampato sei anni prima il suo romanzo giovanile, Ultramarina) che

«Il peccato non si trova in ciò che uscì dalle mani del Creatore; il peccato, il vizio, la mancanza sono nel nostro “sapere”. Il primo uomo ebbe paura della libertà illimitata del Creatore, vi vide quell’“arbitrario” che per noi è tanto terribile, e cercò protezione presso il sapere che, come gli aveva suggerito il tentatore, lo avrebbe eguagliato a Dio, cioè lo avrebbe collocato insieme a Dio nella stessa dipendenza dalle verità eterne e increate, rivelando l’unità delle nature divina e umana».

Eppure, quel bisogno di «protezione presso il sapere» di cui parla Šestov, per Lowry è la disperazione stessa. Ma cosa significa essere disperati se non aver abolito dentro se stessi la speranza, o aver sottratto, alla speranza, un fine – aver reso il fine della speranza il nulla? Di fatto Lowry comprende che il vero dramma del suo Adamo, il suo stesso dramma, è quello di non poter più sperare. Perché se la verità che ha visto e vissuto (l’Eden nel quale coabitava con Dio) gli è stata sottratta dalla verità stessa (da Dio), cosa altro potrebbe sperare di meglio? Da qui il rifugio nella ragione. Ma quella ragione – la capacità di ordinare il caos del mondo, di spiegarlo secondo le leggi di causa ed effetto, appunto; si legga il momento in cui Lowry, nel racconto Il sentiero per la sorgente nella foresta, ultimo di Ascoltaci Signore, si sbilancia in una preghiera: «Caro Signore Iddio, ti prego sinceramente di aiutarmi a ordinare questo lavoro, per orribilmente caotico e peccaminoso che sia, affinché risulti accettabile ai Tuoi occhi […]» – è ancora una lontananza, forse la maggiore delle lontananze, perché il mondo – una terra senza Dio – diviene qualcosa che la ragione sente di poter comprendere, e nello stesso istante in cui crede di comprendere trasforma la sua intelligenza in una forma di dominio. E il dominio della ragione altro non è che un allontanamento da quello stato primordiale che apparteneva alla fede – o, come dice Šestov, all’“arbitrario”, che, come spiega più avanti nel libro seguendo i ragionamenti di Kierkegaard, è un abbandono nel possibile (il «tutto è possibile» che è Dio stesso). L’illusione di dominare, con l’intelligenza, con la ragione il mondo sottrae all’uomo ogni speranza, cioè lo rende maturo, consapevole delle proprie potenzialità. Ma appunto, le potenzialità dell’uomo cos’altro sono se non già una volontà di potenza? Adamo-Lowry capisce di essere colpevole nel momento in cui percepisce di non essere più capace di sperare; ovvero nel momento in cui la sua volontà di potenza – il suo dominio, la sua maturità – si è sostituita alla fede, a quella «libertà illimitata». Ciò che ha perduto non coabitando più con Dio è la sua natura più profonda, o per meglio dire, la sua natura primigenia: l’infanzia – quella che, a ben vedere, cerca con tutto se stesso di riconquistare attraverso l’espressione. E non è quella natura infantile che, pur perdendosi negli anni, resta come un grumo di luce in ognuno, a lasciare aperta nell’uomo la capacità di sperare? E non è sempre quella natura – il mistero della nascita – che ci ricorda la nostra fragilità, la nostra condizione di precari al mondo, cioè di coloro che nascondono una nudità che supera il dominio della ragione e alla quale continuamente aspirano oltre ogni potenza?

Pare assurdo, eppure è così: il vero capolavoro di Lowry non è Sotto il vulcano ma Buio come la tomba dove giace il mio amico. Eppure sappiamo che il secondo, Lowry non avrebbe potuto proprio scriverlo senza il primo, se è vero che Buio come la tomba si struttura come rilettura di Sotto il vulcano, quasi Lowry avesse bisogno di rivivere quello che aveva scritto, di sublimare l’esperienza dello scrivere con una nuova sublimazione. E cos’è la sublimazione di una sublimazione se non un’esperienza che continuamente rilancia la vita fino alla vertigine oltre la quale non si può far altro che cadere? O forse il punto è più propriamente questo: per Lowry la vita – una vita dopo la caduta – è sopportabile solo nel momento in cui viene espressa, cioè sublimata. Del resto, anche a leggere Caustico lunare, il racconto lungo che iniziò a scrivere negli anni Trenta ma che pubblicò solo in traduzione nel 1956 (un anno prima di morire) in una rivista francese (in verità accettando venisse stampato per paura di perdere le numerose versioni e appunti che aveva accumulato), si capisce che il suo protagonista, Plantagenet, che sbarca a New York, sceglie di alloggiare in un manicomio comunale con la scusa di doversi disintossicare dall’alcool, proprio per incapacità a sopportare la vita. E allora si confronta con la follia – l’unica forma di vita realmente sublimata; cioè: Lowry vede nella follia ciò che cerca nell’espressione –, quella dei pazienti del reparto (il vecchio Kalowsky – simbolicamente un padre – e Garry – un figlio –, come intuisce Franco Cordelli in un saggio acutissimo che dedica al racconto in La religione del romanzo), solo perché in essa trova una fonte di riscatto dalla degenerazione, dalla caduta sulla terra, una volontà, e un desiderio, di ritorno a quel Paradiso, a quell’infanzia primordiale e archetipica che si è perduta inesorabilmente. Ma se il Paradiso, dopo la caduta, non gli è più concesso, allora va ad abitare un luogo di mezzo, uno spazio altro dalla terra, a lui non totalmente estraneo, un territorio, si direbbe, in divenire, purgatoriale, nel quale le anime che lo vivono sognano ancora una possibilità di rinascita, che è poi un ritorno alla casa del Padre. Così Plantagenet rimprovera il dottore del manicomio di voler sottrarre ai suoi pazienti quella visione – quella necessità – di rinascita:

«Ma Cristo santo, dottore, in questo posto la gente, i pazienti, sono rassegnati, rassegnati! Non vede l’orrore, l’orrore della supina accettazione, da parte dell’uomo, della propria degenerazione? Perché molti che qui dovrebbero essere pazzi, rispetto a quelli che sono degli ubriaconi, sono soltanto delle persone che una volta, magari, hanno visto in se stessi, benché confusamente, la necessità di un cambiamento, di una rinascita, ecco la parola».

Nel secondo romanzo, facendo i conti con Sotto il vulcano, entra dentro le articolazioni non già della sua psicologia, ma proprio della sua mente, scendendo passo passo nelle sue stratificazioni. In Buio come la tomba dove giace il mio amico Lowry non ci fa comprendere meglio Sotto il vulcano, anche se in parte questo è vero, ma ci chiarisce (in realtà complicandone la visione) qual era il rapporto di scambio tra la propria vita e quello che della propria vita esprimeva nei libri – uno scambio che modificava e contribuiva a dare senso all’una cosa come all’altra; come se l’arte non potesse proprio concettualizzarsi senza la vita, ma pure la vita si deprivasse di un senso – la ricerca di un senso, che è poi la ragione per cui la si vive, la vita – senza l’arte:

«[…] ebbe infatti la visione improvvisa di uno scorrere come di un fiume eterno; gli sembrò di vedere la vita scorrere e sfociare nell’arte: l’arte dare alla vita una forma e un significato e sfociare poi in essa, intanto che la vita stessa non rimaneva immota: che la vita trasformata dall’arte cerca un ulteriore significato attraverso l’arte trasformata a sua volta dalla vita […]».

Immaginate un Dante (la passione di Lowry per Dante e la Divina Commedia è esplicitata in decine di occasioni) che, dopo aver già attraversato l’inferno (Sotto il vulcano), il purgatorio (Caustico lunare) e immaginato di aver ritrovato il Paradiso (l’idillio di quel racconto ultimo di Ascoltaci Signore, ovvero Il sentiero per la sorgente nella foresta, racconto che avrebbe dovuto idealmente chiudere Il viaggio che non ha mai fine, una serie di sei-sette libri che dovevano comporre l’opera unica che Lowry aveva in mente, un’opera con al centro Sotto il vulcano), riscenda di nuovo e inesorabilmente all’inferno (Buio come la tomba dove giace il mio amico). Ma dobbiamo fermarci ancora un momento. Perché l’ultimo racconto di Ascoltaci signore rappresenta, nella simbologia, o meglio dire nell’allegorica opera di Lowry, il Paradiso? A ben vedere Lowry qui fa ancora riferimento al Giardino dell’Eden, ma non come uno spazio di coabitazione con Dio perduta, piuttosto come qualcosa che finalmente si riabita. Si domanda infatti: «E se fossimo vissuti sempre lì?». Il sentiero per la sorgente nella foresta è infatti un racconto prettamente autobiografico. È interessante notare che quando Lowry si approssima di più alla quotidianità della propria vita, anche la sintassi assume un aspetto meno ellittico; il racconto si scioglie in una descrizione idillica. Lowry vive qui con la seconda moglie, Margerie (a cui il racconto è anche dedicato), in una baracca costruita con le loro mani in una foresta, sulla baia di Eridanus (tutto è simbolico in Lowry; anche Eridanus, oltre ad essere la baia in cui vive e in cui trova la sorgente, è una costellazione che in Buio come la tomba così descrive, creando ancora un parallelismo con la propria vita e col proprio destino: «È il nome di una costellazione, quella a sud di Orione. Sembra un fiume e gli antichi l’identificarono con lo Stige. Questo è tutto quello che so al riguardo. Tranne che è anche chiamato il fiume della giovinezza, forse perché associato con Fetonte, un tale che s’intestardì a guidare il carro del sole contro gli ordini del padre e finì col bruciare la terra. E così veniva chiamato il fiume sia della morte che della giovinezza.»). Tutte le mattine attraversa la foresta per un sentiero che lo porta a una sorgente dove raccoglie acqua. Quella sorgente è per Lowry la fonte stessa della vita, lì dove è ancora possibile trarre una ragione di felicità:

«Era possibile tradurre questa specie di felicità nella propria vita? Poiché quello era soltanto un momento di felicità mi sentivo travolto da impulsi contrastanti. Non è possibile rendere eterno un momento, e forse già solo il tentativo può essere una forma di male; ma non c’era in tutto questo qualcosa che faceva pensare sia anche alla sola esistenza di tale felicità, la quale è poi ciò che s’intende per libertà, la quale è come la sorgente, la quale è come il nostro amore, come il desiderio di essere veramente buoni?».

Quella casa che Lowry e sua moglie avevano costruito nella foresta però andrà in fiamme: l’immagine di un Paradiso riconquistato si riduce presto in nuove macerie, nella visione di un nuovo inferno, un nuovo passato con cui fare i conti, e quindi ancora vita da sublimare, da raccontare:

«Arrivavo a capire questo e capivo anche che, come uomo, ero ormai tirannizzato dal passato, e che d’altro canto era mio dovere trascenderlo ora nel presente. E tuttavia l’uso di quel passato coinvolgeva la mia vocazione – perché questo era il significato riposto della mia sinfonia, persino della mia opera, la seconda che stavo ora scrivendo, la seconda sinfonia che un giorno avrei scritto – trasformandola a favore degli altri. E per far questo, prima ancora di scrivere una sola nota, era necessario affrontare quel passato il più possibile senza paura. Sì, ed era proprio questo che avevo cominciato a fare. E se non l’avessi fatto, come saremmo potuti essere felici come eravamo? Come avrei potuto aiutarti, sembravo dire a mia moglie, e nel suo senso più profondo come avrei potuto persino amarti? Come, altrimenti, avremmo trovato la forza di sopportare il più furioso passato che allora era davanti a noi, di sopportare il fuoco, la distruzione delle nostre speranze, della nostra casa, la ricchezza e la povertà, conosciuta e sconosciuta di nuovo, di sopportare la paura, l’assalto e la sconfitta della malattia – sin della follia, perché essere privati della propria casa può, in un certo senso, dirsi che sia come essere privati della propria ragione?».

È un passaggio importante non solamente per lo sviluppo del racconto Il sentiero per la sorgente nella foresta. Qui Lowry anticipa quello che sarà il senso di Buio come la tomba dove giace il mio amico. Eppure abbiamo detto che Il sentiero avrebbe dovuto chiudere tutta la serie di libri che comprendevano Il viaggio che non ha mai fine. Quindi per quale ragione, proprio in conclusione, Lowry vuole farci tornare indietro, in quel nuovo viaggio all’inferno che dovevamo già aver letto precedentemente, in quella operazione di trascendenza del passato nel presente? Forse Lowry, rivedendo l’intera opera nel suo insieme, si sarebbe accorto di questa incongruenza strutturale e avrebbe finito per posticipare Buio come la tomba dopo Il sentiero. O meglio ancora: sapeva che la rigida struttura della Divina Commedia alla quale si ispirava la sua opera, la realtà della sua vita (pur chiamandola, e non a caso, una Divina Commedia ubriaca), non avrebbe potuto rispettarla perché nessuna beatitudine eterna avrebbe garantito un significato alla sua disperazione, cioè di caduto sulla terra; sola condizione che davvero desse senso a quella che chiamava, proprio in Buio come la tomba, «morte in vita» o «vita nella morte», poiché «Laggiù», scrive ancora Lev Šestov in Kierkegaard e la filosofia esistenziale, «nell’abisso insondabile della disperazione, il pensiero stesso si trasforma».

Basta leggere le prime due pagine per accorgersi del movimento di discesa che Lowry compie nuovamente; ed è un’azione tutta linguistica: il dono di una sintassi che si articola come può articolarsi una mente che allo stesso tempo cerca e sfugge – rimanda – il significato; o che trova il significato in quell’articolazione sintattica (mentale), in un ritmo che ha il tono di una rincorsa (che genera un’ombra, più che un’immagine) verso una scadenza, una rincorsa che sospende il tempo, o lo fa franare in un precipizio. Eppure, quella nuova discesa, proprio perché la si era già conosciuta, ha un tono non più, almeno in apparenza, realmente doloroso. Voglio dire che quel nuovo inferno, pur non smettendo di essere se stesso, ha qualcosa di straniante e insieme meraviglioso. È come se su un paesaggio in fiamme – la cenere di quella casa che lui e sua moglie si sono lasciati alle spalle e che ora torna come ricordo, come già passato, rivisitando il Messico, i luoghi in cui era stato ambientato Sotto il vulcano, lì dove tutti i suoi personaggi erano nati, dove era nato anche il personaggio di se stesso, il Console –, Lowry avesse fatto cadere una nevicata leggera che ghiaccia la pelle; perché le ustioni, essendo già avvenute, non possono più deformare come un tempo, piuttosto Lowry sembra osservarle come qualcosa che gli appartiene a tal punto da essere costretto a ripercorrerle consapevolmente, cioè come qualcosa di assolutamente estraneo, o appartenute a un io già stato ma lasciato, in quel dolore – in quella colpa primigenia – morire. E ora «era proprio come se, inoltrandosi in tal modo nel passato, fosse capitato in un labirinto, senza alcun filo per guida, nel quale il minotauro fosse in agguato a ogni passo e che era tanto più un labirinto in quanto ora ogni svolta conduceva infallibilmente a un precipizio, nel quale potevi cadere da un momento all’altro e in fondo al quale c’era l’abisso». Lowry torna indietro, in quell’inferno che è solo suo, a cui aveva attribuito in passato il nome di Geoffrey Firmin. Ma non torna col proprio nome e cognome alla prima sublimazione della propria esistenza ma con un nuovo pseudonimo che avevamo incontrato anche nei racconti di Ascoltaci Signore: Sigbiørn Wilderness, quindi con una nuova sublimazione («No, la città non era spaventosa e bella come l’aveva presentata lui: una truffa: anche la morte è una truffa, per questo lui aveva sempre voluto portare una maschera, l’immagine della paura dell’uomo»). Ma cosa cerca in quel viaggio nel passato, in quel «labirinto» che conduce «infallibilmente in un precipizio», in quella ripetizione di una sublimazione se non ancora una possibilità di salvezza nell’espressione, se non ancora una liberazione da quella ferita, da quel dolore primordiale, da quella ustione che ha cicatrizzato la pelle, di fatto rendendo la sua seconda discesa all’inferno un viaggio consapevole della propria condizione di già caduto, col desiderio di combattere la propria impotenza di fronte al dolore, alla disperazione?

«Stava ritornando lì con l’orgoglio di ciò che aveva compiuto con Primrose, in un gesto di sfida, per sbattere in faccia al destino il suo pegno e dire (dire per di più in frasi scontate): Guarda, ho avuto la meglio, ho trasformato da solo, senza alcun aiuto, la mia vita-nella-morte in vita, no di più, sto per far sì che quella vita-nella-morte paghi per il futuro, in contanti. Sono tornato per mostrarti che non un’ora, non un minuto della mia ubriachezza, della mia continua morte, voleva il suo prezzo: non c’è una sola scoria anche delle peggiori di quelle ore, non una goccia di mescal che io non abbia trasformato in oro puro, non una bevuta che io non abbia reso sublime».

Ma il punto in cui Lowry arriva è un altro, e forse più profondo ancora. No, anche la volontà di un riscatto senza l’aiuto di Dio – senza che Dio ascolti, e accolga la sua voce – è per lui, in fondo, una volontà di potenza, una forma illusoria di dominio del mondo. La verità di Buio come la tomba è invece portare la disperazione al limite estremo; un limite che non è la morte, quella che fa capitare al Console in Sotto il vulcano, come fosse, quella morte, l’elusione di una domanda ultima, la paura di non essere capaci di sostenerla. Spingersi ancora più a fondo, trascendere il passato nel presente, cioè farlo rinascere come cosa viva, riaprire la ferita già cicatrizzata, tornare a piangere per essere capaci di rivolgersi a chi la vita ce l’ha donata, e infine pregare; perché questo Lowry cerca tutta la vita, una forma espressiva che sia la ricerca di una voce che lo faccia sentire di nuovo accolto, salvo nel territorio del possibile:

«Era lui il regista del film della propria vita? Era Dio? Era il Diavolo? Lui vi recitava da attore ma se il regista era Dio questo non era un motivo per cui lui non dovesse pregarlo con insistenza affinché il finale fosse cambiato. Forse solo se lui s’adattava al suo io superiore con costanza, cioè sempre, per quanto grande attore potesse essere – nei suoi limiti – forse solo allora Dio l’avrebbe giudicato degno di essere ascoltato, degno di essere salvato».

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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