A spasso con gli Zombie
di
Igiaba Scego
Passo lento. Claudicante. Volti assenti. La strada è quasi vuota. Il gruppo avanza, lentamente, inesorabilmente. Qualche passante si gira, osserva, cerca di capire, non capisce. Due turisti israeliani chiedono alla polizia: “Ma stanno male questi? Perchè camminano così?”. Molti sono scioccati dalla presenza dei preti alla testa del lento corteo. “Perché dei preti scioperano? Il Vaticano ora fa pure scioperare?”. Ognuno cerca di leggere quei corpi con le proprie lenti, la propria angolatura di pensiero.
Il corteo avanza. Lento. Punti interrogativi si formano sopra la testa delle persone. “Oh povera Italia” dice qualcuno “siamo davvero ridotto così?”. I più giovani pensano invece ad Halloween che molti però pronunciano Aulin come la medicina. I giovani sghignazzano. Le turiste tedesche sono le più entusiaste. Una grida “Ehy guardate! Gli zombie! Gli zombie”. Qualcuno tira fuori gli smartphone. Ed ecco che un fuoco di flash colpisce il lento corteo dei non morti.
Il passo non cambia. È lento. Un passo che non sa che fare di se stesso. Avanza, ma perché non c’è alternativa. È come in quella gag dei Monty Python, The ministry of silly walks, dove ognuno cammina come gli pare. E poi ci sono i cartelli. In un primo momento sembrano solo cartelli eccentrici, qualcosa su cui farsi sopra una bella risata. Ed ecco che uno zombie, perché di zombie si tratta, mostra quasi con orgoglio il suo “Mangio solo vegani”. Una signora si arrabbia. È vegana. Si sente offesa. Altri invece appunto ridono. Ma poi guardandoli da vicino questi cartelli non sono poi così allegri. “Marcio su Roma” per esempio inquieta, perturba l’anima e in un attimo la città intorno diventa aliena.
Il lento corteo si dirige verso Montecitorio. Verso il palazzo. Verso il potere. Sembra quasi una scena di Zombie 2 di Lucio Fulci, quando gli zombie di Matul si avviano a invadere New York. Anche loro vogliono invadere il palazzo?
Cosa vogliono fare? Qual’è la loro meta? E il loro scopo?
In realtà di mete questo attraversamento urbano stile zombie ne ha avute molte: Via del Governo Vecchio, Via del Pigneto, Piazza Navona, Campo dei Fiori, Piazzale Aldo Moro. E in generale il lavoro ha toccato un po’ tutta Italia: Rieti, Asti, Milano, La Spezia. Il laboratorio Corpo Morto diretto da Elvira Frosini e Daniele Timpano è legato allo spettacolo teatrale Zombitudine http://zombitudine.wix.com/zombitudine, della stessa compagnia, che andrà in scena nell’ambito di Roma Europa Festival al teatro dell’Orologio dal 2 al 23 Novembre a Roma. La figura dello zombie è il centro di tutta la narrazione. Uno zombie che è legato all’attualità del nostro presente statico, ma anche alla forza di una subalternità che non si arrende all’evidenza.
“In Zombitudine si affronta un vuoto” ci dice Elvira Frosini con la sua voce calda e profonda “un vuoto fatto di paure mutevoli che non sai dove indirizzare. Ed è così che l’emotività liquida in cui siamo produce una grande rabbia, una grande sensazione di ingiustizia. Però c’è anche l’impossibilità assoluta di reagire. Per questo si produce una rabbia repressa che noi nello spettacolo definiamo rabbia educata”.
Ma lo zombie non è solo immobilità. È paradossalmente anche azione.
Per preparare lo spettacolo Elvira Frosini e Daniele Timpano si sono letteralmente “sciroppati” migliaia di film horror, da Romero a Walking dead, ma hanno anche riflettuto molto su “Sora nostra morte corporale” ed ecco che il Saramago di Le intermittenze della morte o Jean Baudrillard di Scambio Simbolico e la morte fanno capolino nella loro riflessione.
Lo zombie poi a vederlo da vicino abbraccia una categoria Gramsciana. È il subalterno per eccellenza. Colui che è stato domato, sodomizzato, privato della sua umanità. Non è un caso che la parola sia di origine africana. Originariamente zombie nella lingua Bantu del Kikongo indicava l’idolo,mentre nel mondo Kimbundu zombie, nzambi, era uno degli appellativi del Dio serpente. La parola è poi approdata attraverso le navi negriere, e il dolore incommensurabile di chi era stato reso schiavo, nelle isole di Haiti dove ha cominciato ad indicare i non morti, i non più vivi, esseri a metà telecomandati da uno stregone, il bakor, che poteva fare di loro ciò che voleva.
La connessione tra lo zombie e la subalternità coloniale è evidente. Lo zombie non poteva morire perchè il potere lo voleva attivo, da sfruttare. Lo zombie serviva come lavoratore nei campi di cotone, come corpo da stuprare, come essenza su cui riversare le proprie frustrazioni. La non morte era di fatto la condizione coloniale. Lo zombie poteva in questo senso solo subire. Però poteva anche essere il catalizzatore di paure che il potere aveva verso le masse. Gli zombie potevano fare massa, il subalterno poteva unirsi, come nel quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo e forse cambiare la civiltà. Lo zombie era il dannato descritto da Frantz Fanon che reclamava finalmente la sua terra.
Elvira Frosini, con il collega e il compagno di vita Daniele Timpano, è consapevole di tutto ciò, consapevole delle varie letture che attraversano il corpo zombie.
“Chi sono questi che arrivano? Che succederà? Da una parte è il mondo povero che arriva, ma anche la casta che ci sfrutta. Lo zombie è uno scatolone che contiene un po’ tutto. Cambia a seconda di chi lo guarda. È una figura che può essere ambivalente. Da una parte è una minaccia e dall’altra una figura salvifica. Questa figura nello spettacolo slitta continuamente da una cosa ad un’altra. A volte li descriviamo belli, eleganti, fascinosi, con gli abiti firmati, mentre altre volte sono sporchi, cenciosi, puzzano. Arriviamo a descriverli anche in fase di decomposizione”.
Ora il lento corteo è arrivato davanti al palazzo. Sembra quasi impossibile, ma sta succedendo. Intorno i lavoratori del porto di Taranto che protestano per i tanti problemi che attanaglia una dei più grandi snodi navali del Sud. C’è anche la polizia. Parecchi giornalisti. Gli sguardi sono in parti divertiti, in parte perplessi. Quando Daniele Timpano prende in mano il megafono e comincia a fare il suo discorso l’aria si fa improvissamente rarefatta. Il momento è serio. “Marciare, non marcire” urla Timpano al palazzo. Un brivido attraversa la schiena dei manifestanti di Taranto. È proprio il loro sguardo quello che diventa più serio. Al “Mortacci vostri” scandito dallo zombie Timpano scatta un applauso fragoroso. Ma quel “Mortacci vostri” non è solo un’accusa al palazzo. È un’accusa anche all’immobilità degli italiani. Alla società nel suo insieme.
“Lo zombie” sottolinea Elvira Frosini “può avere una funzione salvifica proprio grazie alla sua basicità, alla sua inabilità. In fondo tutto questo è una sorta di rifiuto/rifugio da un mondo troppo complesso, veloce, che ci vuole sempre pronti, sempre svegli, sempre dentro, sempre sull’onda. È una lentezza che aiuta a prendere distanza, prendere contatto con se stessi”.
Zombitudine è legato idealmente ai lavori precedenti della compagnia, Digerseltz e Aldo Morto. Ma mentre in quei spettacoli l’approdo era il vuoto, con Zombitudine Frosini-Timpano affrontano l’interno di questa bolla inspiegabile. E poi anche se il tema storico non è esplicitato (rispetto ad uno spettacolo come Aldo Morto legato ad un riconoscibile, nonché famoso fatto di cronaca, quello del rapimento Moro), la storia è il collante dell’intero spettacolo. Frosini e Timpano mettono in scena di fatto la propria (ma anche la nostra) perturbante relazione con la storia. La citazione di Franco Moretti “il represso, dunque, ritorna: ma travestito da mostro” è perfettamente applicabile al lavoro di Frosini-Timpano.
Ed ecco che ogni zombie racchiude in sé le umiliazioni di una storia italiana fatta di omertà, ingiustizie, stragi, corruzione.
Timpano finisce il suo discorso. La platea spontanea che si è formata intorno a lui applaude. Quel battere di mani frenetico e insensato è in quel momento un atto estremo di liberazione. La tensione è alta. Ed ecco che parte l’inno di Mameli. Nessuno degli zombie canta. È il segnale che si deve lasciare la postazione. Una marcia al contrario questa volta dando le spalle al palazzo.
Perchè forse non è lì la soluzione.
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La connessione tra lo zombie e la subalternità coloniale non è affatto evidente: Lorenzo Bernini per esempio parla di un ‘Apocalisse Queer’ legata all’immaginario zombi, e Franco Moretti descrive la differenza dello zombie dagli umani in termini di classe. Questo pezzo sembra riferirsi a più riprese a un articolo di Simone Brioni che mi è capitato di leggere di recente, e che sottolinea il legame tra la resurrezione degli zombi e il ritorno della memoria coloniale nel contesto italiano. Lo segnalo a quant* sono interessat* all’argomento:
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=13499
Io conosco Simone Brioni, un grande studioso (soprattutto di noi scrittrici italofone del corno d’Africa, penso al suo lavoro bellissimo su Ribkha Sibhatu) ma non ho letto il suo articolo. Mi sono riferita a un particolare dello spettacolo che non posso rivelare per non fare spoiler. Il postcoloniale è in Zombitudine e nei riferimenti di Frosini&Timpano.
E come il concetto di matria che c’è nel mio dismatria e che vedo citato da mille postcolonialisti. I riferimenti allo zombie e alla sua diciamo postcolonialità è uscito fuori dall’intervista ai drammaturghi. Comunque grazie per l’articolo che non conoscevo e a questo punto la invito a vedere Zombitudine. Perchè davvero non posso rivelare il “dato” postcoloniale. Frosini&Timpano mi ucciderebbero. Però se lei va a vedere capirà perchè si sono riferiti al postcoloniale come cornice. Se va sul loro sito vedrà dove Zombitudine andrà in scena. A presto.
Grazie a lei per l’articolo, sembra uno spettacolo molto interessante, spero di riuscire a vederlo. Sono felice che esista un dialogo riguardo a questi temi, sono un appassionato dei film di zombie.