Nonno di Panopoli – Dionisiache (I, 1-44)
trad. in esametri ritmici di Daniele Ventre
Narra tu, dea, la folata del fulmine, nunzia del chiaro
letto del Crònide, madre di doglie per torce nuziali,
e la saetta, l’ancella di Sèmele; narra del parto,
nascita doppia, di Bacco, che, intinto nel fuoco, Zeus tolse,
feto incompiuto di puerpera a cui non giovò levatrice,
quindi, segnando la coscia d’un taglio con mani ben caute,
chiuse in un grembo maschile, e fu padre e nobile madre,
chi nella testa feconda aveva provato altre doglie,
lui, che un arcano gonfiore già ebbe alla gravida fronte,
quando da sé proiettò fuori Atena fulgida in armi.
Voi a me offrite il nartece, agitate i cembali, Muse,
date alla mano voi il tirso, poiché celebriamo Dioníso.
Mentre m’unisco alla danza, nel prossimo scoglio di Faro,
Pròteo evocatemi, il dio molteplice, sì che m’appaia
vario mostrando il suo aspetto, perché tesserò vario canto.
Se striscerà come serpe, avvoltosi in cerchi di spire,
lotta di dèi canterò, di quando straziò con il tirso
d’edera irsute tribù di Giganti chiome di serpi;
se scuoterà, come irsuto leone, il suo crine sul collo,
inneggerò all’evio Bacco sul braccio di Rea veneranda,
mentre s’acquatta nel seno alla dea che alleva leoni;
se con lo scatto impetuoso dei piedi involandosi in alto,
si lancerà come pardo, mutando il molteplice aspetto,
celebrerò come il nato da Zeus sterminò l’orda indiana,
contro elefanti movendo sui carri trainati da pardi;
se di cinghiale avrà corpo e forma, il figliolo di Tione
io canterò –bramò unirsi con Aura che uccise i cinghiali,
con la Cibèlide, madre del terzo, dell’ultimo Bacco;
se a imitazione dell’acqua fluirà, canterò di Dioníso
che si tuffò in fondo al mare, poiché l’assaliva Licurgo;
se tremerà come fronda, destando un sussurro fallace,
ricorderò come a gara lo scatto dei piedi d’Icario
abbia premuto sull’uve, nel tino ricolmo d’ebbrezza.
Voi a me offrite il nartece, Mimàlloni, dietro le spalle
non il consueto chitone, la nebride, dorso screziato,
stretta sul petto, gettatemi, intrisa di nettare, essenza
cara a Marone, e che Idòtea signora d’abissi ed Omero
serbino per Menelao graveolenti pelli di foca!–
Datemi gli evii tamburi, le pelli di capra, e il soave
flauto a due voci ad un altro lasciatelo, ch’io non sconvolga
d’ira il mio Febo: egli spregia ogni eco soffiata da canne,
già sin dal tempo in cui vinse il rivale flauto di Marsia,
e denudò interamente le membra al pastore scuoiato,
quindi ad un albero appese la pelle, a gonfiarsi alle brezze.
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Se dionisiaca si versa la rima che sponda le Muse
mille potenti quadranti vibranti di forme confuse
non un approdo al naufragio, ma l’onda che scivolo resta
a far di mare un porto perpetuo e puerpuera la testa!
;-)
Grazie, Daniele Ventre.
tutte le fortune sempre agli altri, anche a quelli che non lo meritano, non c’è niente da fare: mi dite cosa ha mai fatto di buono nella vita questo panopoli per ritrovarsi un nonno del genere?