Baby Blues

Felix_Gonzalez-Torres_011di Martina Betti

7:28

Gli occhi sono appiccicosi al risveglio.
Braccia e gambe sembrano tubi di gomma allacciati all’addome gonfio e sporgente.
Le mie dita portano sempre la sua nuca moscia: lei non può reggere da sola la sua testa.
L’altro braccio solleva il resto del corpo: accosto la bambina al petto, i cuori si magnetizzano, i nostri battiti si orientano e si attraggono.
Il suo cranio è allungato, untuoso.
Ha croste bianche sull’attaccatura dei capelli e sulle sopracciglia, e bolle rossastre sulla sua pelle come tanti punti di ruggine, specialmente su fronte e palpebre.
L’ombelico è otturato da residui di carne.
Sfioro la guancia con il dito, lei gira la testa verso il dito, subito, apre la bocca, schiocca la lingua poi inizia a succhiarsi il polso. Posiziono il suo capo nell’incavo del mio gomito, lei resta ancorata al mio tronco, le sue unghie mi rovistano come quelle di un uccello in cerca di insetti.

10:47

La Vergine Maria esce dal quadro nella mia camera.
Si stende sul mio letto.
Arrotola la sua veste azzurra fin sopra il seno.
Fa scorrere le mani sul proprio pancione. Poi sorride sorride e sorride. Ha la bocca giovane, luminosa.
Dice sono molto brava dottore prendo ferro calcio e acido folico per la spina bifida bevo una tazza di latte prima di andare a dormire faccio yoga faccio ossigenare meglio il sangue faccio attività fisica di tipo antigravitazionale come sta il mio bellissimo bambino ? Voglio un’ecografia in 3D.
Sorride con denti bianchi, tutti dritti, senza spazi fra loro.
Provo a ricambiare il sorriso.
Invece tossisco, e mi porto le mani in mezzo alle gambe. Le premo contro la vulva, attraverso la stoffa bagnata. Guardo in basso. Una chiazza gialla si muove per terra. Uno scoppio di risa improvviso arriva dal ventre della Vergine Maria. Faccio un passo indietro.
Non posso rilassare nessun muscolo in nessuna parte del corpo, non posso fare scatti o sforzi, non posso starnutire, non posso sbattere materassi e cuscini al sole.
Scivolo lungo il muro verso il bagno. Ad ogni colpo di tosse mi piscio addosso.
C’è una coda rotta. Dove dovrebbe esserci una maniglia di porta.
Mi accuccio dentro la vasca.
Spremo il seno tra l’indice e il pollice.
Ruoto la mano, sposto i grumi sotterranei, sento il tessuto dall’ascella alla mammella strapparsi. Strapparsi.
Un fuoco liquido mi fonde il torace, qui sotto, infiamma i canali che portano il latte al capezzolo.
Dal seno non esce niente. Niente.

10:58

Raggiungo la bambina nell’altra stanza: piange geme e il viso si scalda sgualcisce. Assomiglia a una palla antistress da schiacciare nella mano.
Si dice che il sonno sia fondamentale per la produzione dell’ormone della crescita.
Ma lei non dorme.
Guardo il seno: mi ricorda la vernice del muro che si secca all’aria.
Attacco il tiralatte e premo la leva: attorno al capezzolo sento il risucchio del vuoto.
Premo ancora una volta. Sul fondo del poppatoio si raccoglie finalmente qualcosa.
È una miscela verde fluorescente.

11:47

Stacco il contenitore.
Immergo il dito, lo sento freddo come quando si inumidisce la pelle nell’alcol.
Fa odore di insetticida.
Una patina oleosa si appiccica all’indice, poi la pellicina dell’unghia inizia a bruciarmi.
Corro a lavarmi le mani. Svuoto il tiralatte, lo risciacquo pezzo per volta con acqua calda e sapone.
Asciugo tutto e controllo di aver montato bene la coppa, poi riprovo.
Dal seno sgocciola ancora roba verde.
Devo comprare il latte in polvere.
Devo uscire di casa.
Da qui alla farmacia, attraversando il parco, sono solo otto minuti.

16:13

Risponde al richiamo del suo piccolo ma non ha il coraggio di scendere a terra.
Lo raccolgo. Gli occhi sono neri e rugiadosi. Apre il becco, continua a chiamarla.
Lo sistemo su un ramo basso.
Poi mi avvio verso un salice piangente, in mezzo ai grovigli di cespugli, sul fango molliccio, mi guardo le scarpe, seguo le toppe d’erba e i fiori di tarassaco.
Ho i crampi allo stomaco.
Ci sono alberi tutto intorno a me.
La sua sopravvivenza è una questione di posizione. Come l’ho sistemata nella culla ?
A pancia in su. A pancia in giù. A pancia in su. No, in giù.
Allungo la mano.
Il legno è sudato.
Tocco le screpolature del fusto, striscio sopra la corteccia fessurata e dentro una nicchia: con la mano raschio in mezzo alla rosura e ai colaticci del legno. Stacco dalle pareti uova e larve annidate. Svuoto la cavità.
Davvero l’ho messa a pancia in su?
Allontano la mano.
Strappo una foglia viva.
L’ho lasciata a pancia in giù.
Mancano 4 minuti a piedi, a cielo aperto.
Riprendo il sentiero. Mi volto di lato. Ci sono panche con braccia sui braccioli.
Le braccia. Quelle devono stare scoperte, sopra il lenzuolo. Altrimenti se ne vanno in faccia a soffocarla.
Laggiù si alzano gli irrigatori. Ruotano su se stessi. Ciascuno forma un gigantesco lazo d’acqua.
I bambini scappano e si smarriscono e ululano nello stesso cerchio di prato.

16:32

Arriva un vento gravido di semi piumosi e frutti secchi piccolissimi e appuntiti.
Mi riparo il viso con il braccio.
I frutti dell’acero e del frassino si disperdono attraverso le correnti d’aria. Milioni di girandole continuano a staccarsi dalle chiome. Eliche leggerissime e ciuffi di peli bianchi. Si infittiscono. Entrano dappertutto. Chiudo la bocca. Copro il naso con la manica.
Per l’amor di Dio, la bambina non respira.
Torno indietro, di corsa, nell’altra direzione.
Una gola si schiarisce da qualche parte.

16:58

Finalmente avvisto l’albero. Il ramo basso dove l’ho lasciato. Invece è a terra.
Morto.
Sopra una pietra che sembra uno scoglio.
Per l’amor di Dio, è morto.
Lo raccolgo, di nuovo. Le zampe sono irrigidite, le dita allargate come per non affondare. Me lo metto in tasca. Poi mi muovo verso casa.
Cammino sfregando ininterrottamente le pupille sopra il sole accecante, cammino rigurgitando la luce del giorno.

23:40

Ho gli occhi gonfi, dolenti.
Li sento sbattere tra loro come le sfere metalliche di un pendolo.
Poi si fermano sul bordo letto. Ritrovo sopra i pantaloni del pigiama la mia mano sinistra.
Mi rilasso. Infilo la manica sinistra della camicia da notte. Sollevo il piede nudo e porto il peso della gamba su di me.
La bambina apre e chiude le manine, agita le braccia da distesa, i piedini anche: sembra un anemone di mare sopra la trapunta azzurra.
Mi trascina inerme fino alla sua bocca.
Ci diamo il bacio della buonanotte.
La sposto verso la testata del letto.
Sprimaccio il suo corpo soffice con il palmo delle mani.
Spengo l’abat-jour, e finalmente posso appoggiare la testa su di lei.

*

Immagine: Felix Gonzalez-Torres, Untitled (Golden), 1995.

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