Fortemente intrecciare terra e cielo: Paola Febbraro
di Viola Amarelli
[ Comincio qui a documentare per appunti gli incontri della rassegna di Tu se sai dire dillo 2014. Una della serate era dedicata alla poetessa prematuramente scomparsa Paola Febbraro (1956-2008). Grazie a lei, tra l’altro, mi era stato possibile pubblicare nel 2006 un inedito di Amelia Rosselli, Lezione sulla metrica, che è qui. Oltre a due sue poesie, vi è l’intervento di Viola Amarelli che con Giusi Drago e Anna Maria Farabbi, purtroppo impossibilitata ad arrivare a Milano per l’occasione, hanno contribuito, in modi diversi, a mettere a fuoco la sua figura. B. C.]
Queste stanze che diventano locande
sono le mie poesie
le lascio con una leggerezza tale
da farmi godere
perché non si dice mai che si gode a sparire
Da Stellezze, a cura di Anna Maria Farabbi, LietoColle 2012
Se s’avvicina ciò che di me è stata
senza differenza tra chi ci fa nascere e chi ci abbandona
non è di poco conto una domanda
se non è di muoversi di stanza in stanza
ma occupar le stanze dire
non cerco strade non voglio camminare ma stare
in casa a più piani a più riprese d’ossigeno e di rose
dire: ce l’ho da fare.
II
Se s’avvicina ciò che di me è stata
interrotta
allora mi allontana la sconfitta
come se non fossi stata io
convertita
…
ho fretta
voglio invecchiare
come la terra che sotto ha 1’animale.
III
Se s’avvicina ciò che di me è stato
insonne sogno di clausura mio possesso lotta
per la supremazia dello spavento
…
allora trema e tremi la ragione
di uno stato terremoto
mio sesso nato da sesso uguale.
*
Ogni soffio di vento è una lama di gelo
…
scricchiola un velo diventato dal freddo
La natura fa visibile il respiro di anime e viceversa.
Nate comunque d’inverno
lode al Vostro silenzio e al Nostro
sesso dal primo respiro.
*
Il coraggio non usato per nascere
è ciò che canta prima di parlare
Da Turbolenze in aria chiara, Empiria, 2008
Su Paola Febbraro: note (1)
“Prima di arrivare a una lingua poetica ho praticato una scrittura ‘ visiva’ o ‘sperimentale’ o ‘creativa’. Non so. Non la chiamavo poesia, la chiamavo scrittura. Non mi definivo né scrittrice né poeta. Recalcitravo ad ogni definizione… Lo scrivere per me era una pratica, un gesto artistico più che ‘letterario’…Credevo fermamente che scrivere delle parole su di un foglio procurasse delle conseguenze nella realtà e in noi stessi, che quello che si scriveva fosse anche riflesso dell’accadere di eventi nell’universo, eventi che interagivano con noi. Cercavo una scrittura universale più che una lingua: una scrittura capace di essere letta e compresa da tutti senza bisogno che per questo si dovesse ‘saper leggere’ ma semplicemente ‘guardare’ le parole sulla pagina. Le parole dovevano essere così elementari e così attaccate a quello che ‘portavano’ da non poter essere mai fraintese. Quel tutti era: il ‘genere umano’ e anche, estremisticamente, la vita ‘fisica’, ‘chimica’, ‘biologica’, nell’universo…Scrivere quello che stava accadendo nell’istante in cui stavo scrivendo. Io volevo ardentemente scrivere quello che stava accadendo in quell’istante”. (2)
I brani citati, tratti da un intervento di Paola Febbraro sulla creatività femminile, rendono limpidamente conto di uno dei marcatori essenziali della sua opera anche quando la sua scrittura diventerà consapevolmente “poesia”, cosa che avviene – come da lei sottolineato (3)- nell’incontro con due maestri del calibro di Elio Pagliarani e di Amelia Rosselli. Paola Febbraro pratica, infatti – verrebbe da dire programmaticamente – una poesia esperienziale che non significa affatto autobiografica o intimista ma piuttosto l’assumere il ciò che accadde qui e ora come punto di partenza di una ricerca per comprendere quel non so che ricorre spesso nei suoi testi.
Lo scrivere per lei diventa quindi naturalmente una sonda, uno scandaglio che aderisce alle movenze, alle vicende ma anche alle contraddizioni ed ellissi dell’esperienza -vita, in un percorso che tende dal concreto dei piedi, del lavorìo delle mani alla verticalità di un punto di tangenza con l’interrelata energia che sostanzia il mondo: mi passa parte a parte indolore/l’incessante rimbombo tra la terra e il cielo recita, ad esempio, questo distico estratto da “ e forse io chiamo amore”.
In quest’ottica si rivelano emblematici gli stessi titoli dei suoi libri: “Turbolenze in aria chiara” è il titolo di una delle prime raccolte, ripreso anche nel libro postumo cui stava lavorando al momento della prematura scomparsa (4); “La Rivoluzione è solo della Terra” (5), dove il dato terrestre si coniuga a quello astronomico e politico, è la raccolta vincitrice del premio Giorgi, sino a giungere a “Stellezze”, titolo tratto da un suo verso che Anna Maria Farabbi ha scelto per un libro di inediti e non, curato con attento affetto in memoria della Febbraro.
Questa spola tra il concreto e l’olistico, che non perde mai di vista la pragmaticità anche minuta del quotidiano per inserirsi nella rete intrecciata della vita, è una metodologia non a caso tipica delle maggiori pensatrici del ‘900, dalla Weil alla Arendt, per fare i due nomi forse più noti, e testimonia della presenza molto forte del movimento delle donne nella scrittura in esame, ma è anche, oltre che strumento euristico, spia di una sorta di misticismo, che si potrebbe definire con un ossimoro – parlando di un’autrice che molti ne ha usati – come “immanenza trascendente”. Carsica ma resistente si rivela qui, infatti, l’influenza del grande filone delle mistiche umbre, da Angela da Foligno a Chiara da Montefalcone, non dimenticando che l’Umbria era la terra madre natìa dell’autrice, pur cresciuta a Roma, e che il recupero di queste ‘pensatrici’ si inserisce nei gender studies a partire dagli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. In proposito, val la pena forse citare una terzina, anche lievemente ironica, conservata tra gli inediti della Febbraro: Io sono la cavaliera/La vergine guerriera/La stinca di santa (6), e ricordare che l’autrice tra i vari poeti da lei letti esplicitamente menziona la Dickinson, San Francesco e, non tanto a caso, Cavalcanti (7).
I due filoni dominanti nella scrittura dell’autrice umbra, quello esperienziale – sperimentale (nell’identica derivazione etimologica dal latino ex-pèrior: tento, provo, ricerco) e quello della dimensione di una mistica concreta e razionale (8), si intrecciano e si scandiscono nei testi della Febbraro: …Se invece, dicevo, avessi fatto esperienza di cosa era successo/di che colore era e tutte le altre cose// SI DEVE CAPOVOLGER LA CLESSIDRA DEL CONOSCERmi/Si va intersecando la mia la tua/vicissitudine del mondo//Sai, dicevo, i verbi all’infinito passivo i verbi all’infinito passato:/gongolavo nell’aria mi immergevo nell’erba/del non sapere quel far mio/costituirmi di mia esperienza:intùito/riflessi miraggi coincidenza/volatili sapienze/…c’è un tu gigantesco e ci voglio parlare (9), poesia cui si aggiunge un testo di un uni-verso nella pagina successiva: c’è qualcosa di religioso in un tu resinoso?, dove il tu fantasmatico diventa lievemente, ironicamente?, sacrale risucchiando l’io empirico in un incontro fisico. Di questa poetica l’autrice appare lucidamente consapevole:
Ritorno
A quando scrissi io non so andando poi a scoprire che così facendo m’infilavo una perla passata di mano in mano un incipit insomma che m’avrebbe onorata d’appartenere ad una stirpe che s’era messa su a declinare il verbo della sua mente nel giardinetto in cui strusciavano vesti e piedi scalzi: il popolo del mistico verde canterino, ma io non udii campane né trilli né ruscelli tutto era muto e aperto a non finire c’era anche una certa forma di desolazione e sopra l’arcobaleno: quanto avevo pianto!
E così lasciavo.
Avevo un fagotto che ciondolava dal bastoncino ma il bello il bello il bello il bello era che ora me ne potevo andare senza dover partire.
Il paradiso è dove nessuno chiede chi sei e cosa fai.
Si sa e si fa altro insieme
Il paradiso è dove le domande sul tuo conto sono
a forma di lamponi e di fragole di bosco. (10)
Se questo è lo sfondo e la materia del lavorìo di Paola Febbraro, che a pieno titolo si inserisce nel lavorìo del mondo (11), nei suoi tratti formali si configura con una netta peculiarità, che ne fa un’autrice estremamente contemporanea e, nel contempo, appartata dalla koinè letteraria, pur collaborando sin da giovanissima prima al Festival di Castelporziano e poi a varie edizioni del Festival dei Poeti a Ostia Antica. Drammaturga e scrittrice ‘sperimentale’, anche da poeta ibrida spesso prosa e poesia, cut up e densità oracolari.
E’ stato da più parti notato come la sua sia una poesia icastica, che procede a frammenti, squarci e scarti sintattici, con una valenza visionaria che a volte diventa assertiva e sciamanica. In particolare, Paola Febbraro utilizza una versificazione che più che la prosodia, privilegia il ritmo del respiro, e per la quale Guglielmin ha richiamato il verso proiettivo di Olson (12), con una precisazione: che si tratta del respiro del pensiero, non tanto e non solo come logos ma come intuito, empatia, libere associazioni mentali e sintattiche, le volatili sapienze che sicuramente la Febbraro eredita e rielabora in maniera del tutto originale da parte delle sue maestre: Gertrude Stein e Amelia Rosselli (13).
Al verso ipermetrico dove prevale il tono apparentemente proprio della ratio classificatoria si alternano chiuse da fulmen in clausola che contemporaneamente aprono però un altro versante del logos, con ampliamenti di senso e di orizzonti. Così, ad esempio: a volte io credo così forte alla rotazione della terra attorno all’asse/e credo che questo a volte questa intermittenza//pensa (da “ La Rivoluzione è solo della Terra”) o da “sospirati indizi”: E’ vero intanto che ogni volta con qualcuno ogni volta/è diverso il centro da cui s’irraggia/la conoscenza del mondo//mondo? Ma è solo un piccolo pezzo di strada asfaltata/meglio!/mondo? ma è solo una giornata.
L’icasticità, evidente nei numerosi uni-versi o distici della Febbraro, implica un utilizzo attentissimo del silenzio, che la stessa autrice richiama parlando di Burroughs, altro autore da lei amatissimo. Le cesure, le spaziature, la stessa rarefatta punteggiatura, creano, infatti, un magma di non-detto ricchissimo e sotteso, di cui le parole scritte o pronunciate sembrano rappresentare solo la punta di un iceberg, tanto da indurre a parlare quasi di versi implosi, ma io preferirei invece parlare di cura, attenzione e precisione estrema della parola e degli affetti, nel senso spinoziano del termine, di sentimenti che si trasformano in azioni.
Si pensi a quest’unico verso tratto dalla raccolta “A fratello Stefano”, raccolta come noto scritta per il fratello suicida: mano nella mano attraversiamo l’ennesima ambulanza, dove davvero nulla è da aggiungere o anche, sempre dalla stessa raccolta: m’accompagna un silenzio//una specie di clangore/un clangore silenzioso//dentro l’acqua.
Ha giustamente osservato Carlo Bordini che la poesia di Febbraro “parte da molte rinunce; utilizza degli strumenti molto poveri; vive di una sorta di pauperismo ed opera una continua riduzione; la sua poesia non si affida a nessuna grazia naturale; per raggiungere l’espressione questa poesia tende continuamente al sublime.” (14)
Questa tensione è innervata da un lessico volutamente semplice, dove scarseggiano persino gli aggettivi e la parola si presenta sempre più nuda all’appello, con gli abiti di un lirismo che è tale solo apparentemente perché l’io della Febbraro, nominato per onestà intellettuale verso la propria singola esperienza, si amplia, si allarga in cerchi sempre più ellittici sino quasi a scomparire. Del resto della sparizione, della scomparsa c’è abbondante traccia nei testi: attesa allora è solo che svanisca/l’idea di possedere; ..il corpo che si allaga e si confonde/sulla linea d’orizzonte; la confusione…ritorna sempre e poi scompare; sino a formare quasi una dichiarazione di poetica: Queste stanze che diventano locande/sono le mie poesie//le lascio con una leggerezza tale/ da farmi godere// perché non si dice mai che si gode a sparire. E’ una scomparsa, tuttavia, che è sempre una tensione alla liberazione : non animo più i segni e lascio liberi gli uccelli e la loro scienza del volo// e loro/ lasciano libera me.
Leggerezza, e ironia(15), e profondità, e affetti, e dolori si fondono in controluce nella parola di questa poeta, fedele soprattutto all’autenticità del proprio percorso, lontana da ogni ambizione meramente letteraria, e un limpido lascito della sua poesia è proprio quello espresso nel suo “Happy End (collages e variazioni in versi da ‘Teneri Bottoni’ di Gertrude Stein)” (16) : c’è forse un uso estremo nelle piume//se c’è la migliore cosa è portarlo via indossarlo/essere spericolati spericolati e decisi e ricambiare//la gratitudine.
Note
(1) testo dell’intervento all’incontro in memoria di Paola Febbraro svoltosi a Milano il 20 settembre 2014 nell’ambito della terza edizione di “Tu se sai dire dillo” curata da Biagio Cepollaro
(2) da “dell’io e del tu senza corpo nella poesia delle donne”, ora in L’Ulisse, n.2, 2004
(3) da una lettera pubblicata in Stellezze, LietoColle, 2012 a cura di Anna Maria Farabbi
(4) Turbolenze in aria chiara, Empiria, 2008
(5) La Rivoluzione è solo della Terra, Manni, 2002
(6) da Aliqua, 1985, citato in Camera verde, Requiem a più voci per Paola Febbraro, Le reti di dedalus, 2008 on line
(7) cfr nota sub 3
(8) sul concetto e la storia della mistica cfr Pannikar R.: L’esperienza della vita. La mistica , Jaca Book 2005, e Vannini M. Il volto del Dio nascosto. L’esperienza mistica dall’Iliade a Simone Weil , Mondadori, Milano 1999
(9) da “ sospirati indizi” ora in Turbolenze in aria chiara
(10) di questo testo esistono due differenti versioni; questa riportata è contenuta in “Stellezze”, cit., una diversa, dove manca l’ultimo paragrafo sul paradiso, è contenuto in “Fiabe” e-book di Paola Febbraro a cura di Biagio Cepollaro, 2007
(11) Fammi restare con te lavorìo del mondo, testo contenuto in La Rivoluzione è solo della Terra, cit.
(12) da Senza riparo. Poesia e finitezza, di S. Guglielmin, La Vita Felice, 2009
(13) per Amelia Rosselli la Febbraro curò nel 1994 “Lezioni e Conversazioni con Amelia Rosselli, nel numero monografico della rivista Galleria; a Gertrude Stein dedicò una breve silloge in Fiabe, e-book già citato
(14) cfr nota sub 6
(15) dalla sezione “Sogni” in Turbolenze in aria chiara: sono in una nave/sto andando o sto tornando in un paese del Nord/la nave costeggia la riva di una terra che non si distingue dal mare/guardo il mare/ad un certo punto c’è un animale accanto a me/(non ricordo che animale)/e io lo chiamo Saba.
(16) in Fiabe, già cit.
Bibliografia:
La Rivoluzione è solo della Terra, Manni, 2002
Turbolenze in aria chiara, Empiria, 2008
Stellezze, a cura di Anna Maria Farabbi, LietoColle 2012
Senza riparo. Poesia e finitezza, di S. Guglielmin, La Vita Felice 2009
L’Ulisse, n, 2 LietoColle, 2004
Camera verde, Requiem a più voci per Paola Febbraro, Le reti di dedalus, 2008 on line
Riferimenti in rete:
“Fiabe” e-book a cura di Biagio Cepollaro, 2007
http://rebstein.wordpress.com/2011/02/25/a-paola-febbraro/
http://www.retididedalus.it/Archivi/2009/gennaio/PRIMO_PIANO/3per_paola_febbraro.pdf
http://liberinversi.altervista.org/tag/paola-febbraro/
http://golfedombre.blogspot.it/2010/01/paola-febbraro-9-gennaio-1956.html
http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/07/paola-febbraro-da-turbolenze-in-aria.html
http://slowforward.wordpress.com/2008/05/27/su-paola-febbraro/
guardare le parole invece che leggere, dice paola febbraro
sanguineti
benjamin
distoglie l’occhio, oltre che dal soggetto, dal foglio che viene fatto oggetto di uso letterario
si fa avanti un paesaggio
l’autore nave costeggia la riva di una terra che non si distingue dal mare
Grazie per questo testo su Paola Febbraro e sulla sua poesia essenziale, disadorna, che resta.
UltraViolet ((:
Fortemente intrecciare terra e cielo. ;…))