Pietro Tripodo. La critica oltre gli amici
di Tarcisio Tarquini
(Conservatorio Licinio Refice di Frosinone. Sala Paris. Settimana della Contemporaneità: Memorie. La musica della poesia di Pietro Tripodo. Frosinone, Giovedì 16 Ottobre, 2014)
Pietro Tripodo ha avuto una sorte e un talento singolari: di essere diventato già in vita un autore di culto di un cenacolo di intellettuali, critici, scrittori e poeti che lo amarono come poeta ma lo fecero anche loro amico e che lo considerarono da subito, come ha scritto qualche tempo dopo Emanuele Trevi, “un grande poeta sconosciuto”. A cominciare da Gabriella Sica, che lo fece esordire sulla sua rivista Prato Pagano, agli inizi del decennio Ottanta del secolo scorso e che, da docente universitaria, con Bianca Maria Frabotta, propose la sua poesia – intorno al 2004-2005 – a una giovane studiosa, Flavia Giacomozzi, come argomento di una tesi di laurea da cui nacque poi un libro, edito da Castelvecchi, Campo di battaglia, che ricostruisce con accuratezza il profilo poetico di alcuni dei protagonisti della stagione, appunto, di Prato pagano e Braci, e cioè, insieme con altri, Tripodo, soprattutto, e Beppe Salvia, poeta che Tripodo non conobbe direttamente ma sul quale, nel 1988, scrisse un saggio. Un altro amico è Raffaele Manica, che ha curato nel 2007 un volume di Donzelli che pubblica il primo e l’ultimo volume (ma a pensarci sono solo due) di poesie che Tripodo pubblicò in vita, il primo – Altre Visioni – nel 1991 e il secondo – Vampe del Tempo – nel 1998.
La critica degli amici può nascondere un’insidia, quella di confondere, per una sorta di miopia provocata dall’affetto ma che nondimeno accorcia la portata dello sguardo, la figura del personaggio che Tripodo era, e che tutti quelli che lo hanno frequentato hanno contribuito a tramandare ciascuno portando e aggiungendo un suo ricordo, e la sua figura di poeta, che è stata ed è di straordinaria grandezza (questo oggi mi pare con chiarezza assoluta, dopo la rilettura della sua opera) alla quale il personaggio aggiunge solo qualche tratto tutto sommato esterno, contingente. La rilettura, però, di quanto è stato scritto su Tripodo, quando era in vita ma più copiosamente dopo che non lo era più, mi porta adesso a dire che il “favor” amicale che caratterizza certamente molti di quegli interventi non ha tolto lucidità al giudizio critico, quindi la critica degli amici, in effetti, è già essa stessa oltre la critica degli amici e ha individuato bene i nodi essenziali della riflessione poetica di Tripodo, quelli su cui anche i critici che verranno dopo si confronteranno se vorranno cercare e trovare le radici e le ragioni di una disciplina così estrema, quale è stata quella cui Tripodo si legò con totalità e che è anche uno dei motivi per cui venne percepito come figura fuori dall’ordinario, in perenne disagio con il mondo che non poteva contenere il peso di quella radicale dedizione.
Su Tripodo hanno scritto molti e tutti di valore. Ricordo, oltre a chi ho già nominato, Andrea Cortellessa, che gli dedica un breve ma netto e intenso profilo, nell’antologia di poeti a cavallo di millennio pubblicata alcuni anni fa e oggi rinvenibile solo nelle biblioteche. E poi Massimo Onofri, con un articolo sull’Unità uscito qualche giorno dopo la morte. Secondo me, i contributi critici dai quali si deve partire sono quelli di Emanuele Trevi e Raffaele Manica, che più hanno il carattere di ricostruzioni complessive dell’opera di Tripodo e nei quali il richiamo al personaggio Tripodo non è mai gratuito ma si presenta sempre come una chiave in più per entrare nella sua poesia alla quale del resto si dedicò con una unilateralità senza incertezze cui sottomise ogni altro aspetto e esigenza della vita, tranne forse quella dei figli.
Raffaele Manica ha scritto più volte di Tripodo e della sua opera e soprattutto ha scritto l’introduzione al volume Donzelli del 2007 che cerca e trova una sorta di figura d’origine, di emozione letteraria generatrice del suo lavorio poetico, in Autunno, un’elegia posta a conclusione della gaddiana Cognizione del dolore. È un’intuizione importante che ci apre la vista a tutti gli altri modelli a cui Tripodo, attraverso e oltre Gadda, si è rifatto, a partire da D’Annunzio che, volenti o no, per i poeti del Novecento è un punto di passaggio ineliminabile, anche quando solo polemico. Non è un caso che di Gadda, come Manica stesso ricorda in questa introduzione, amasse la Cognizione più ancora del Pasticciaccio, non solo per la gigantesca e solitaria statura di Gonzalo Pirobutirro, personaggio che centrifuga tutti gli altri a differenza di quanto avvenga nel corale Pasticciaccio, ma per la espansa componente elegiaca che si risolve in prosa, camuffandosi ma non fino al punto da non poter essere sentita da un udito educato e sensibile come quello di Tripodo.
Emanuele Trevi (allora poco più che ventenne) è autore della postfazione di Altre Visioni, nel 1991, e di un saggio – ricordo su Tripodo pubblicato nel 1999 su Nuovi Argomenti, e da ultimo di un libro intero Senza Verso per le edizioni Laterza, nella collana Contromano, dove raccontando dell’area romana che da Via Merulana arriva alla chiesa di San Clemente e al suo sottostante Mitreo, pone al centro del suo racconto proprio Tripodo che, per alcuni anni, in via Merulana (la via del Pasticciaccio) abitò e visse. Trevi indica il cuore della poesia di Tripodo nel tema classico del tempo che passa, della materia che si dissolve nella materia, della morte che è parte del flusso vitale, di un ciclo di trasmigrazione perenne che solo la poesia è capace, con le sue sapienti architetture retoriche, di contrastare dandogli un senso e un tempo che restano. E individua qui anche un suo rischio, quello del manierismo. Il pericolo, cioè, che nel tentativo di affinare il suo verso, di rendere preziosa, unica, incontrovertibile la sua scrittura poetica in modo che l’aderenza al suo compito di eternizzazione risultasse totale si finisse con lo scivolare per eccesso nell’inautentico, nel forzato, nell’imitazione. Tripodo con questo rischio accetta di confrontarsi, diventa un punto centrale della sua riflessione. Tracce molteplici di questa riflessione le troviamo negli scritti che egli ha dedicato ad altri poeti o a riflessioni condotte a margine delle sue traduzioni.
Ci torna più volte. Parla di “pastorellerie” opponendo i suoi esercizi a quelli, a suo dire ben più necessari, di Beppe Salvia. Legge il Landolfi di Viola di Morte e del Tradimento sotto questa lente e trova il fuoco della poesia del grande scrittore di Pico ogni qual volta il rischio del gioco e dell’inautenticità è scansato, rigettato.
Un suo termine di confronto, che gli permette di chiarire la sua poetica, è quello con Beppe Salvia. Nel saggio che gli dedica il suo sforzo è tutto concentrato nel dimostrare che il manierismo, il neoparnassianesimo, il neocrepuscolarismo, le stesse furbizie poetiche che si possono leggere negli spericolati e artefatti giochi retorici di Salvia non possono oscurare o velare la forza della sua poesia. “Quello che importa è se una poesia ci dà emozione e se un libro è lo scrigno in cui un poeta ha cesellato la sua massima fatica e ogni volta che ricarichiamo il carillon o rimettiamo il disco una bellezza ci incanta”.
“Egli non ha un’ideale parnassiano della sua lingua poetica, la sua non è una lingua altra, non è musica nel senso che non vi aspira, la musica annulla in qualche modo il senso, egli invece ha un messaggio urgente da dare e forse la cosa più bella, più giusta, più vera è l’urgenza stessa di questo messaggio”.
Provando una catalogazione in grandi gruppi delle poesie di Salvia, ne individua uno – il quarto dei quattro in cui suddivide Cuore –
“affetto da, anzi sempre solo minacciato, perché pochissimi ne sono gli elementi, magari due o tre versi finali, dal manierismo. Quale manierismo?” – si chiede. “Quello salviano, quello che l’autore crea ripiegando su sé, come alterando maggiormente che altrove prima della sua poesia il suo sentimento. La sua poesia è sempre tranne che per il gioco, in presa diretta con il cuore. Tuttavia questa presa diretta pur rimanendo è meno percepibile in questo quarto gruppo, ma se non m’inganno un manierismo particolare viene oggi potenziato perché raddoppia l’inevitabile, ancorché solo postulato, manierismo generale”.
Riflettendo su queste osservazioni con lo scontato intento di capire quanto Tripodo volesse riferire di esse alla sua poesia o quanto di tutte queste notazioni nascesse dalla sua diretta esperienza poetica mi sembra si possa arrivare a una conclusione; che, nella visione di Tripodo, il manierismo in una poesia altro non è – e solo così può esistere senza cedere al gioco fine a se stesso – che il modo di rappresentare il manierismo delle cose, il manierismo della vita; il manierismo è lo strumento retorico attraverso cui lo stile, la scrittura e la conoscenza poetica, si espandono alla dimensione dell’esperienza sentimentale: il poeta, in questa contingenza, non è tanto colui che ha il dominio delle parole, ma quello che sa riempirsi dell’esperienza delle cose e perciò le sue parole non si allontanano mai da queste, anzi perennemente con esse ingaggiano un contrasto per non smarrirle.
Sarebbe fin troppo facile dire che anche per Tripodo è così: per il Pietro poeta e per il Pietro rifacitore. Non mi sembra, però, questa l’opzione più forte esercitata da lui, il suo modo di fare i conti con il manierismo, cercando cioè una maniera nel sentimento del mondo per accettare (o rendere accettabile) una maniera dello stile. Possiamo capire di più, leggendo il saggio che Tripodo dedicò alla poesia di Lucio Piccolo, un poeta appartato, poco conosciuto, che non a caso fu uno dei suoi modelli.
In questo scritto, che pubblicò nel fascicolo luglio-settembre 1996 di Nuovi Argomenti, dedicato alla raccolta Gioco a nascondere e alla lunga elegia da cui questa prende il titolo indugia ripetutamente sul senso non solo della poesia di Piccolo ma di ogni poesia. E del resto questo era l’unico punto di presa che Tripodo considerasse indispensabile nel ragionare della poesia di chiunque. Egli scrive:
“(…) fermare nella memoria, con la stessa pietà che dobbiamo ai cari, le cose e ciò ch’è morente o morto farlo rivivere; memoria delle cose più miti e dolorose e belle e struggenti che ci sono intorno dalla nascita, che i nostri occhi hanno visto, i nostri sensi percepito. Purché qualcosa, il rovo ardente della bellezza, rimanga eterno, si perdano pure gl’istanti del tempo, e l’anima, e ogni sbuffo di vento. Gira un segno sul quadrante nell’ora della nostra morte, tutto scompare, tranne la materia col suo muoversi incessante (tranne gli atomi di questa materia), e la sua bellezza d’urna o piramide”.
“ (…) le parole di Piccolo sono vive, perché strette alle cose, non quindi sinonimi preziosi, ma parole strette a un mondo prezioso, al suo meraviglioso lussureggiare. C’è l’esperienza assidua (aristocratica ma anche umile, tremante) degli oggetti: delle cose, che vitalmente e a tutto tondo corrispondono alle parole, non importa se quotidiane o letterarie”.
“ (…) allo stesso modo che per ogni poeta, per Piccolo la parola, una certa parola, è ciò che fissa la figura, e la serie di parole non àltera l’assunto: ognuna di esse deve far centro, e ogni ricordo deve tornare per il mezzo d’una potenza antica, e come fosse l’aria d’una brezza e d’un innamorarsi via via; nel nostro la lingua di queste parole, di queste parole che, ancora, tornano, deve aspirare a una atemporalità, atemporalità nuova, per poter essere o tornare viva e feconda nel Tremila, o in un altro tempo”.
Tutte queste citazioni le ho fatte per ricordare e sottolineare la ricerca costante dell’autenticità, di una misura potremmo dire classica. È il tema che una critica “oltre gli amici” non può evitare e che ci conduce ad affrontare l’altra questione della continuità tra la ricerca poetica di Tripodo e la sua attività di rifacitore, che fa parte della stessa ricerca; è un tutt’uno, per cui appare assolutamente coerente, necessario, motivato che in Altre Visioni composizioni proprie e rifacimenti si alternino senza alcuna preferenza o precedenza gerarchica.
Su questo Tripodo, sempre nel saggio sulla poesia di Piccolo, appunta una considerazione fondamentale, che ci spiega molto anche della sua opera di traduttore.
Introducendosi alla lettura del libro di Piccolo e soffermandosi subito sull’antica querelle fra antichi e moderni e sulla vera o presunta antigrecità dei contemporanei, egli ricorda un testo famoso, Classicismo e classicità di Gabriele D’Annunzio di Giorgio Pasquali. E particolarmente quei passaggi
“in cui si vedono la leggerezza e la rapidità di Callimaco messi a confronto con l’indugiare di D’Annunzio sulle proprie perle e farne mostra (…) quei passaggi in cui si chiarisce come lo sciogliersi dannunziano nelle cose, negli enti naturali del paesaggio – alberi, erba – è quanto di meno greco si possa immaginare; e come né annuvolamento di cielo, né mutamento di luce, né pioggia furono per i Greci uno stato d’animo”.
Qui c’è dunque il punto, la poesia antica cerca con le parole le cose, quella moderna, la dannunziana almeno, pretende di conferire, assegnare ad esse altre mete, altri significati, raggiunti attraverso il rigonfiamento dei sentimenti, un artificio in fondo del tutto compatibile con un’epoca della cultura e dell’esistenza umana che non sa trovare una strada diretta verso l’autenticità e tenta perciò di ricrearla, affidandosi agli effetti scaturiti dai prodigi di una sorta di grande laboratorio delle forme di cui il poeta conosce tutte le tentazioni. Ma l’affermazione di Tripodo non vale solo a segnare la distinzione tra autori antichi e moderni, il criterio che aiuta a distinguerli e perciò a capirli, è anche la dichiarazione di poetica che presiede sia al suo lavoro di traduttore sia alla sua disciplina di poeta. Ho riletto, alla luce di questa elementare nozione, Altre visioni, il libro dove appunto ricerca poetica, diciamo autonoma, e rifacimenti delle “visioni” di altri poeti si alternano, come ho già detto, alla pari e ho trovato, forse ho scoperto per la prima volta, la coerenza assoluta di una scelta che vuole mondare le parole della poesia di ogni aura sentimentale e restituirle alla loro unica ragione di evocazione delle cose. Cose che possono essere quelle della natura, della materia, e cose che possono essere della vita degli uomini, far parte del loro sentire – ma un sentire che viene sempre fuori da una qualche combinazione della materia, da un’esplosione biologica che, sbiadendo, qualcuno può confondere, equivocando, per sentimento e che, invece, è essenzialmente passione materiale, forza vitale. Si possono portare a testimonianza tanti esempi; le prove più evidenti a me pare di averle rintracciate nelle poesie d’amore, proprio quelle che sarebbero “per sé” più esposte al rischio della germinazione sentimentale. Una per tutte.
“Così non vuole il volgere di stagioni/Amore, che tu mi guardi e sorridi/tu o una fanciulla pietosa della morte./Le lamie del tempo combattono l’amore/quando uno è vecchio, le fanciulle/come cerbiatte l’orsa fuggono i vecchi/e hanno in odio l’amore, solo/i bei giovani possono vincere il loro/rossore. Anche folle è il desiderio/come un’ariete a testa bassa contro il vespro”.
Non c’è una sbavatura, mi pare. Un susseguirsi di parole che identificano, nominano, cose e che parlano della frustrazione dell’amore dei vecchi concatenandosi l’una con l’altra in una serie di scene che riportano tutto non alla propensione malinconica degli uomini che si osservano declinare ma alla verità di un ciclo naturale che non permette al poeta di indulgere nell’esposizione di amarezze e deliquii psicologici.
Manica, concludendo la sua introduzione ad Altre Visioni, scrive che “fare poesia vuol dire filosofare al di fuori della filosofia”. Si potrebbe aggiungere, ricorrendo a un altro scrittore che Tripodo studiò, un siciliano anche lui, Antonio Pizzuto, che la poesia al pari del “narrare” (da Pizzuto rigidamente separato dal “raccontare”) è un’attività che attiene alla ricerca degli elementi costitutivi dell’esistenza. Che rischia il manierismo solo quando si allontana da questa missione, nel senso che si acconcia, per fiacchezza, fraintendimento o altro, a esercitarsi sugli elementi non costitutivi dell’esistenza. È un rischio, perciò, che Tripodo non ha mai corso veramente. Non agli esordi di Altre visioni e nemmeno al congedo di Vampe del tempo, dove la direzione della sua marcia, giunto consapevolmente al suo ultimo versante (e quanto coraggio in quella consapevolezza) diventa ancora più radicale, con la rinuncia al verso che sentiva – come ricorda Emanuele Trevi – ormai troppo costrittivo con le sue esigenze ritmiche ingabbiate da un limite, mentre la musicalità che intendeva raggiungere aveva bisogno di misure proprie, di un verso appunto senza verso. Nella ripulsa del verso credo si possa leggere il suo definitivo conto con la tentazione manieristica; la ribadita attestazione di una misura che trova il suo limite nel rendersi capace di innalzarsi al livello degli “elementi costitutivi” dell’esistenza. Lo vorrei dire con i versi di Tripodo. E voglio trovarli, anche per la ragione che capirete, ancora in una poesia di Altre Visioni, dove è rappresentata quell’attività chiamiamola “costitutiva”, che guarda cioè all’essenziale, apparentemente insensata ma in realtà provvista di un senso assoluto, risolutivo.
E a chi portare volevo una gemma/che smarrivo e quale gemma chiedevano/sulla via donne alla scogliera/ che dal sole riluceva e smarriva,/tre belle vedo tra dimesse e altere,/la bruna a mia figlia sorride, alta/e schiva per quel sorriso volgendo/avanti a sé lo sguardo e fuggitiva/non volendo oltre verso noi sorridere,/disegna Claudia il suo nome nell’aria,/Giulia i loro aghi vuol ridare ai pini,/aghi già terra, immersi nelle zolle.
Giulia – la figlia – che fa l’unica cosa da farsi, opporsi al ciclo della natura, al suo trascorrere e deperire, restituendo gli aghi già caduti ai pini. Un impegno che ricorda la poesia.