La cultura sarà salvata dai volontari
di
Francesco Forlani
Due tre riflessioni a caldo (ho la febbre) a proposito di una polemica che ha coinvolto la casa editrice Voland, ben riassunta nell’articolo pubblicato da Bibliocartina.it.: Voland, la crisi e i collaboratori non pagati. Di Sora: “La mia è una lotta per non chiudere”. Ma l’editoria è un cane che si morde la coda.
La Casa Editrice Voland, in questi anni, ha svolto un lavoro importante e di qualità. Fare un lavoro importante e di qualità significa esporsi a dei rischi considerevoli. Pubblicare un autore, a mio parere tra le penne più felici d’oltralpe, come Philippe Djian in un paese che prende come oro colato le parole di Pennac o di Ben Jelloun, per restare in Francia, significa credere nella letteratura. Ricordo di un’intervista fatta alla Nothomb e che è possibile leggere per intero proprio qui su Nazione Indiana in cui la scrittrice belga definiva così Daniela di Sora: “ Una donna erudita, appassionata, umana, in una piccola casa editrice che nonostante le richieste che mi fanno di pubblicare altrove, non cambierò mai . ” Se traducessimo quel “nonostante le richieste”, in denaro contante, ci troveremmo quasi sicuramente con parecchie migliaia di euro sul tavolo delle trattative. Del resto, il rapporto tra denaro e letteratura di qualità è quanto meno complesso. Nella biografia del più illuminato editore francese del novecento, Maurice Nadeau, si racconta di quando, cacciato da un’importante casa editrice, come ex direttore editoriale informa i suoi autori della cosa spiegandogli che non li avrebbe portati con sé, nella nuova casa editrice perché nell’impossibilità di onorare le spese. Al che, uno dei suoi scrittori, tale Leonardo Sciascia aveva replicato: « Bon, je reste avec vous, je vous apporterai l’argent. » che andrebbe tradotto più o meno così: “non sarà lei a farmi guadagnare dei soldi ma io a farli guadagnare a lei”. Potrei, a tal proposito, citare il rapporto che da anni lega lo scrittore Erri de Luca alla piccola e valorosa casa editrice Dante & Descartes di Napoli insieme a tanti altri casi di questo tipo e che coinvolgono altri scrittori e piccole realtà editoriali.
Quanto sto dicendo non mette affatto in dubbio la parola della fondatrice della Voland quando dichiara di avere sempre pagato i propri collaboratori nè tanto meno vuole disconoscere la serietà di tutte quelle case editrici che, con rigore e certosina cura, onorano i propri contratti in un panorama che non dà nulla per scontato e pochi sconti fa, quando si tratta di soldi. Chiunque lavori nel mondo editoriale, soprattutto da esterno, sa infatti che gran parte delle proprie energie sono dedicate al recupero crediti. E non sempre si recuperano i soldi promessi, mentre immancabilmente si sarà sacrificato il proprio tempo arricchito delle varie incazzature e malumori che l’accompagnano insieme alla rovina di rapporti personali oltre che professionali.
La questione è allora la seguente: si devono perdonare i”non paganti” in virtù del loro progetto letterario, della qualità ricercata contro ogni legge del mercato? E fino a che punto? Se il mercato editoriale ha orrore della poesia, per esempio, è per questa ragione che non dovrebbero esistere più libri di poesia? O continuare a farli senza pagare nessuno, in primis, i poeti? O senza farsi aiutare da qualcuno, che sia l’autore o lo sparuto gruppo di lettori pronti a sottoscrivere la magnifica impresa?
A volte mi chiedo come amante della letteratura e discreto traduttore dal francese, se da parte di un editore fossi messo un giorno davanti alla scelta tra pubblicare un autore, a rischio commerciale, tipo il Régis Jauffret delle Microfictions, a patto di tradurlo gratis o lasciar perdere tutto, quale delle due cose sceglierei di fare. Tradurre credo sia tra i mestieri dell’editoria la cosa più faticosa, direi la più fisica, e per tradurre bene ci vuole talento e tempo. Conosco un traduttore dal tedesco, considerato tra i migliori in Italia, che a un certo punto ha smesso perché al “tempo” che dedicava non corrispondeva un minimo di guadagno corrispondente per vivere. Probabilmente accetterei e questa cosa farebbe incazzare e a ragione i traduttori di professione. Però dovendo scegliere tra la buona pace di questi ultimi e la guerra letteraria in cui siamo tutti più o meno coinvolti, voterei la mia causa all’esistenza di un libro per me “necessario”.
Necessità e utilità non sono mai state buone compagne di viaggio, questo si sa e faccio parte di quei conservatori che ancora ritengono impossibile l’inquadramento del “fatto culturale” in una filosofia utilitarista e di mercato. Ecco perché il lavoro culturale e dunque anche editoriale, è, diciamolo pure, il più delle volte ma una volta e per tutte, aggratis.
Se ci fosse un censimento di tutte le attività, dai festival ai cicli di presentazione nelle librerie, dai reading spontanei alle attività che coinvolgono le scuole, dai programmi radiofonici allo scouting, per non parlare della rete, dei blog e delle riviste letterarie, ci accorgeremmo che almeno l’ottanta per cento del lavoro che si fa è volontario. Per restare ai blog letterari, Nazione Indiana vive di volontariato, Carmilla, Lipperatura, Alfabeta2, Georgiamada, La dimora del tempo sospeso, Vibrisse, la Poesia e lo Spirito, solo per citarne alcuni di quelli storici, propongono da anni dibattiti, opere, creazioni grazie al lavoro costante e non remunerato dei suoi collaboratori. Certo, c’è sempre la possibilità di contare sugli effetti collaterali di quella incerta macchina dell’industria culturale e trovarsi a guadagnare di più per una conferenza o per un premio letterario assegnato a un proprio libro che non per la scrittura dello stesso, per l’attività in sé. Celebre la riflessione del grande poeta inglese Wystan Hugh Auden, a proposito: It is a sad fact about our culture that a poet can earn much more money writing or talking about his art than he can by practicing it.
L’editoria al pari della cultura è guerra, e sia che ci si lavori come autori che come correttori di bozze, librai o uffici stampa, critici o giornalisti culturali, la sensazione che ho è che ci saranno sempre più volontari a recarsi al fronte; volontari altamente professionali. E i soldi? Li troveremo, come al solito, altrove.
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Sempre che i volontari non si stufino di essere ignorati o un tantino vilipesi, ovviamente. Ma non da quelli che fanno altro, cosa fisiologica: da altri volontari di altra parrocchia, tesi a spartirsi una torta d’aria, cosa alquanto stupida.
Tutti i lavoratori nel mondo culturale sono volontari. Semplicemente ci sono volontari che riescono a guadagnare e volontari che no. Ora, se l’opinione corrente è che la maggior parte delle opere non sono di qualità, e dunque neanche andrebbero pubblicate, dal momento che molte di queste opere sono in lingue straniere, i traduttori di professione avrebbero tradotto professionalmente opere indegne. Dunque, se accetti questa premessa, e leggendoti mi pare che l’accetti, perché mai dovresti sentirti in colpa e perché mai avrebbero ragione di incazzarsi i traduttori di professione?. Bisogna una buona volta decidersi: o interessa diffondere, e le possibilità di diffusione ci sono tutte, e a basso costo; oppure interessa guadagnare, e le possibilità ci sono, minori. In ogni caso non è scritto nella Costituzione della repubblica delle lettere che c’è il diritto alla pubblicazione retribuita, alla lettura altrui, all’apprezzamento, al guadagno eccetera. Auden cita un fatto che fatto non è: non c’è nulla di triste. Perché guerra? Cooperazione e competizione. La cultura non è mai stata in pericolo, usciamo dal paradigma antropocentrico umanistico
condivido questo e anche la tristezza ironica di Auden effeffe
@Forlani, ha descritto più o meno questa situazione qui:
http://cristinavenneri.wordpress.com/2014/09/20/chronographia-michele-psello/
La cultura, è vero, progredisce per merito di chi se ne prende cura. Ma non è una giustificazione.
@[h] La coerenza del suo discorso non ne prova la correttezza. Si basa, difatti, su un presupposto arbitrario dandolo per scontato. Non riesco a comprendere il motivo per cui un professionista debba limitarsi a essere volontario e, se mai dovesse andargli bene, guadagnare qualcosa o qualcosina in più che è sempre meglio di niente.
Parliamo di prestazione lavorativa, chiaramente. Chè se poi uno vuole dedicarsi anche al volontariato extra, tanto meglio.
C’è un equivoco sul termine volontario. Io l’ho usato nel senso che chiunque nel mondo letterario culturale ci arriva per scelta. Ma non ho scritto che un professionista deve fare in un modo o in un altro. Il presupposto non è arbitrario, o c’è qualcuno che pagherà (i lettori ad esempio) il tuo lavoro oppure puoi scegliere di farlo lo stesso. Parte del lavoro culturale è inutile, gratuita perché non richiesta da nessuno se non dalla voglia di chi la fa di farlo. Per questo non si possono accampare diritti di compenso a priori. Questo vale poi per qualsiasi produzione.
Parliamo, dunque, di una sorta di Emergency delle Lettere?
Mi pare che ogni libera professione si compia “per scelta”, pur sempre remunerata.
Dal momento in cui una serie di realtà letterarie esistono e perdurano, sebbene auto-finanziate, vuol dire che suscitano un qualche interesse nel pubblico. Ma – si dirà – se sono in grado di sostenersi da sole, perchè intromettersi?
intanto su pagina 3 (radiotre) è stata ripresa la chose
http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/popupaudio.html?u=http%3A%2F%2Fmediapolisvod.rai.it%2Frelinker%2FrelinkerServlet.htm%3Fcont%3Deol5ML9RXiweeqqEEqual&p=Pagina%203&d=6%20ottobre%202014%3A%20Buon%20compleanno%20alla%20Radio!&t=6%20ottobre%202014%3A%20Buon%20compleanno%20alla%20Radio!
effeffe
Cristina, quando parlo di lavoro culturale e intellettuale volontario non mi riferisco alla soluzione di eventuali conflitti o di dinamiche professionali, ma alla produzione, qualificata, di contenuti culturali indipendenti da ogni meccanismo di mercato e ch costituisce a mio parere il “grosso” di quel lavoro. C’è come una “sicuramente ingiusta” regola per cui più si è in un lavoro che appassiona e più si è inclini all’autosfruttamento ed è grazie a questo che esistono riviste, librerie indipendenti,editori di scritture di ricerca e poesia, blog letterari, incontri, festival dal basso ecc ecc
effeffe
FF è proprio certo che sia “grazie a questo [principio di autosfruttamento] che esistono riviste, librerie indipendenti, editori di scritture di ricerca e poesia, blog letterari, incontri, festival dal basso ecc ecc”? Io ho come l’impressione che esisterebbero comunque. E, qualora anche così fosse, ringraziare mi pare eccessivo.
Il link che le ho postato testimonia una realtà (parliamo di circa mille anni or sono) in cui una serie di copisti (certamente benestanti) trascrivevano manoscritti per passione. E dobbiamo ringraziare questi per molte opere giunteci. La situazione non varia per i traduttori di cui lei parla. Ma la storia della filologia ci insegna anche che in taluni casi le istituzioni incentivarono l’attività culturale e a tali iniziative si deve gran parte della produzione libraria goduta.
Stando così le cose, deduco: che gli operatori culturali appassionati sono inarrestabili lavoratori; che tale consapevolezza autorizza lo sfruttamento; che l’auto-sfruttamento si configura come valore stimabile; che in questo momento storico dobbiamo arrangiarci appassionatamente per vocazione.
Cristina, sono giuste queste osservazioni ma va detto anche che il rapporto tra arte e capitale è sempre stato un rapporto tutt’altro che semplice, sia da raccontare che da verificare. Anche perché nella storia il potere politico e il potere economico erano spesso incarnati nella stessa figura.
effeffe
«L’editoria al pari della cultura è guerra» mi pare un’affermazione che andrebbe articolata un po’ meglio, in tutte le sue componenti.
In che senso la cultura – la quale secondo il primo che passa, Zingarelli, sarebbe “il complesso delle tradizioni scientifiche, storiche, filosofiche, artistiche, letterarie di un dato popolo o gruppo di popoli”, è una guerra? Di chi contro chi? Dei cercatori di “diffusione” contro i cercatori di “guadagno”? Della conoscenza contro il capitale? Per quale motivo mai l’aspirazione alla diffusione di conoscenza (e di bellezza, magari) con mezzi idonei dovrebbe essere in necessaria, ineluttabile contrapposizione all’aspirazione a mantenersi autonomamente e dignitosamente? Volendo fare cultura, e farla bene, dobbiamo abbracciare la visione tremontiana secondo cui “Con la cultura non si mangia”? Arrenderci all’idea che avvitare bulloni è un lavoro, ma scrivere libri – o tradurli – non può che rimanere un hobby? E se è così, perché? Possibilmente, non mi si risponda “Perché è sempre stato così e sempre così sarà”.
Inoltre: in che senso esiste un’identità fra editoria e cultura (“al pari di”)? L’editoria è impresa, fin dai suoi albori. L’editoria è precisamente uno dei modi in cui, da quando esiste la stampa, alcuni individui e gruppi di individui ricavano il proprio sostentamento dalla diffusione della cultura: ne finanziano la produzione e traggono ricavi dalla sua diffusione a pagamento presso il pubblico. L’editore è l’intermediario principe (se solo se ne ricordassero più spesso più editori) tra chi produce arte, in questo caso letteraria, e chi desidera fruirne. Dove si inserisce, precisamente, l’elemento bellico? E perché dovrebbe essere sbagliato, da parte degli attori in ogni stazione della filiera, voler vivere di questo? Non mi si risponda che è “un fatto” che non se ne viva, o se ne viva assai male: sono traduttrice, lo so. Voglio sapere perché dovrei accettare supinamente questo stato di cose anziché tentare di resistervi, pretendendo che la qualità del mio lavoro venga pagata, e pagata per tempo, da chi me la richiede.
E se è vero che nel settore culturale, questa moderna trincea della resistenza umana (a cosa, esattamente?) “…ci saranno sempre più volontari a recarsi al fronte”, perché nell’elenco di figure professionali stilato dall’autore del post mancano proprio gli editori? L’omissione si deve a sbadataggine, o a convinzione precisa che gli editori sono gli unici autorizzati a tentare di fare soldi con un prodotto culturale, mentre per tutti gli altri quest’aspirazione è utopica–e pure un po’ equivoca?
E infine: “…volontari altamente professionali”. Se la statura della professionalità di questi nobili volontari, votati alla diffusione senza guadagno, si deve valutare dai refusi tipografici e ortografici presenti nel post in discorso, allora è giusto che la loro retribuzione sia zero, e faccio bene io a cercare di farmi pagare, e pagare per tempo, perché almeno le virgole se (so) dove metterle.
Le cose non stanno in contrapposizione. Nessuno avviterebbe i bulloni gratis in fabbrica, però a molti piace fare i lavoretti di casa per hobby. Sono entrambi lavori, il lavoro è un concetto fisico, esprimibile attraverso un’unità di misura. Nessuno pretende che i traduttori accettino supinamente. Ognuno cerchi di ingegnarsi come può per guadagnare il più possibile e con le robe che gli piacciono.
Eppure a volte mi chiedo : e se non fosse (anche) un bene trovare i soldi altrove, ad una certa distanza? Il punto, io credo, è un altro : che i soldi altrove non ci sono.
Ma se altrove ci fossero, se per quegli altrove venissimo pagati ( parlo da disoccupata attualmente, ma anche da ex occupata non pagata ), muoversi e far muovere, dedicarsi alla diffusione, allo scorrere della parola, al dire, non sarebbe forse più libero se svincolato da certa logica interna al denaro?
Ora, un conto è non essere pagati per organizzare un evento culturale, un conto è non essere pagati per scrivere. Ci sono traduttori che per loro intenzione, per passione, hanno tradotto opere importanti. Non credo si sarebbero fermati se non pagati : si tratta di desiderio, di qualcosa che brucia.
Il punto, mi ripeto, è che qui stiamo messi male negli altrove in cui dovremmo essere pagati. Là c’è un grosso problema, là c’è la perversione di un sistema non solo in crisi ma profondamente malato.
Che poi i blog letterari vivano di volontariato, io dico – ma forse mi sbaglio : per fortuna.
d’accordo con te
Isa, si calmi e soprattutto eviti scivoloni come quello alla fine del suo commento. Non faccia la professorina e soprattutto cerchi di non perdere di vista le i, se vuole insistere poi con il suo metterci su i suoi puntini. Vuole editare questo post, prego si accomodi pure; la pago eh, quanto vuole? a parola? a carattere, a virgola, mi dica lei, e le faccio il bonifico all’istante, mica a trenta, sessanta, novanta giorni. La pago il doppio dei suoi committenti. In anticipo.
Intanto provo a risponderle, e poi se ha tempo e voglia faccia un bell’editing anche a questo, mettendolo sul conto, ça va sans dire.
Lei è traduttrice. Di cosa? Bugiardini per case farmaceutiche, atti processuali, norme giuridiche, atti di convegno sull’uso del klinker nelle costruzioni a norma? Magari no, magari pure. Lei traduce testi letterari. Perfetto. Li sceglie lei i testi da tradurre? Sa, e certamente lo sa, che in Francia accade spesso che il traduttore sia anche il responsabile editoriale per i libri tradotti in quella lingua. Diciamo di no. Lei traduce qualsiasi cosa purché pagata bene, pagata in tempo? Benissimo. Le auguro di continuare nella sua professione e che i suoi conti non ne abbiano danno alcuno. Quanti libri vengono tradotti e pubblicati in Italia? Per molti di noi non abbastanza, spesso non privilegiando la “qualità” dell’autore o del testo, e sempre più spesso affidando il lavoro a traduttori meno bravi di lei. Concorderà su questo. Accanto a questo favoloso mondo in via di estinzione c’è un immenso e meritorio lavoro culturale, non retribuito, che probabilmente assolve quel gravoso e insostenibile compito per l’editoria, che si ritiene “necessario” svolgere, a prescindere. A questo lavoro contribuiscono eccellenti traduttori “professionisti”, conoscitori della lingua in cui sono stati scritti e si figuri, correttori di bozze o addetti all’editing presso case editrici. Tralasciando il settore dell’editoria ed estendendolo ad altri campi della “cultura”, questo vuoto, o pieno dipende dal suo ottimismo, si fa ancora più grande. Lei sa quante riviste letterarie esistono in Italia? Dieci, cento, mille? Mi sa dire quanti collaboratori, traduttori, correttori di bozze, grafici ci lavorano? Mi sa dire quanti di questi vengono retribuiti? Provo a risponderle: quasi mai. Secondo lei questo tipo di progettualità volontaria che, per rispondere all’altra domanda, prevede il cambio in corsa di un certo numero di editori dal momento che con le riviste non si guadagna il becco di un quattrino, va considerato come detestabile, controproducente, krumiro, o costituisce una vera risorsa per la vita culturale di un paese?
Il mio articolo, non editato, faceva riferimento a questo tipo di volontariato e, che lo voglia o meno, trovo importante che se ne parli, magari scendendo dal piedistallo in cui giocoforza, ben conoscendo la solitudine dei traduttori so quanto sia pesante, ci si ritrova. effeffe
ps
Ci terrei a dirle che nella mia storia letteraria personale ho sempre lavorato con eccellenti editor, eccellenza che derivava dal giusto trattamento salariale e dal comune sentire il testo. Ma trovavo anche normale che come autore fossi pagato più del mio editor.
Sono calmissima e non sono scivolata da nessun piedistallo: solo, sono convinta che la forma sia sostanza, e che qualunque discorso, ma in specie un discorso a base di “valore della cultura”, perda di autorevolezza quando ci sono le virgole tra soggetti e verbi. Se un autore e traduttore ha bisogno di editing anche per questo, andiamo proprio male.
Ciò detto, nessuno vuole impedire a nessuno di pubblicare fanzine letterarie per amore, o di contribuire a blog culturali da tifoso volontario, o di tradurre romanzi o saggi perché il desiderio lo brucia (no, queste non sono parole sue, ma vengono a fagiolo) se se li pubblica da solo; fatto è che il lavoro editoriale – non “culturale” come lo intende lei, _editoriale_ – non retribuito non è lavoro, è passatempo, e bisogna poterselo permettere; e chi svolge qualunque attività per amore ma rinunciando a qualsivoglia retribuzione non è un professionista ma appunto un amatore. Il quale, mentre campa di qualcos’altro o coi soldi di qualcun altro – perché bisogna pur mangiare – è di fatto un ostacolo all’esercizio professionale delle medesime attività, un concorrente sleale, e della qualità dei suoi risultati è prudente dubitare. L’editore che commissiona lavoro sapendo in anticipo di non poterlo pagare, pur tenendosi i ricavi derivanti da quel lavoro, è un mio nemico; ma lo è anche il traduttore colmo di desiderio che si contenta di ardere senza venire retribuito dall’editore stesso. Sto parlando di rapporti professionali fra adulti consenzienti, non di “volontariato culturale”. E confondere questi due piani (“L’editoria, al pari della cultura…”) è davvero molto pericoloso. Dolente che non se ne renda conto.
Gent.ssima Isa, le stavo rispondendo ma la febbre, la sua sicumera e l’infelicità e inesattezza dei suoi ragionamenti mi hanno spinto a rinunciare. Mi stia bene. Adieu effeffe
ps
mi permetta solo di segnalarle che frasi come questa :”no, queste non sono parole sue, ma vengono a fagiolo” sono molto kitsch. Le eviti,le fanno perdere autorevolezza
Ah, dimenticavo. Scusi, ma non è che per caso lei ha un conto in sospeso con la Voland? Pura curiosità.
effeffe
ohps, dimenticavo. Le ho corretto un refuso: “perché almeno le virgole se dove metterle.” Lo consideri un regalo effeffe
E… sono in profondo disaccordo con quello che questo articolo vuole esprimere. Almeno credo. Non mi è chiaro se il succo sia un rassegnato ‘è sempre stato così, facciamocelo andare bene’ o se la situazione di un volontariato culturale globale non sia anzi guardata con favore.
Ma tanto dissento uguale.
A parte il fatto che c’è una grande distanza tra i volontari che offrono i propri servigi a’ggratis consapevolmente e professionisti che hanno firmato un contratto e non vedono un euro dopo mesi, se non anni. Secondo poi, il rischio d’impresa non si fa pagare all’ultimo della filiera.
Ma tralasciamo il caso Voland, che pur essendo emblematico, rimane un caso.
Non mi è facile esprimere pienamente il ribrezzo che ho per il modo in cui viene intesa oggi la parola ‘volontario’, specie quando si tratta di cultura. Che per me la cultura è vilipesa allo stesso modo da chi non la considera e da chi non la considera degna di essere sostenuta economicamente.
Molto sbrigativamente, se lo fai per te, è hobby, se lo fai per un altro, ed è quest’altro a chiedertelo, è un lavoro. E il lavoro si paga. Ancora di più se è un lavoro svolto con passione e competenza.
E sarei molto curiosa di sapere cosa risponderebbe un qualsiasi autore di successo, se anziché essere lui a proporsi a una piccola casa editrice, fosse l’editore stesso a saltare fuori dicendo che no, niente danè, basta l’ammmore per la scrittura, no?
“Perché io ripeto e ribadisco, il blogger per me è tifoso, appassionato, è un giocatore di D&D che si studia i manuali di notte, uno sportivo che passa ore a esercitarsi al canestro. Solo che lo racconta, lo condivide, lo rivela al mondo e agli altri appassionati. Non si può finanziare una passione così, dai.” scrivi tu a proposito di una tavola rotonda a cui ho peraltro partecipato e in cui si ponevano questi stessi quesiti. La domanda che ti faccio è: il lavoro che fai per il tuo blog lo consideri come lavoro culturale? Immagino di sì. Quanti blog, socialnetwork, siti letterari, riviste on line svolgono questo tipo di lavoro? E non mi si dica che non si tratta di un vero lavoro culturale, e che in generale sia fuffa letteraria e sottobosco da bruciare col Napalm degli esperti. Perché a parer mio il rapporto tra cose bbuone e cose malamente,è sempre lo stesso, sia che si parli di editoria ufficiale o di quella caporalesca della rete effeffe
Veramente lo dico chiaramente pure nel pezzo che hai appena riportato, che quello del blogger non lo considero un lavoro ma un hobby. Che poi possa essere impegnativo, che io possa prenderlo più sul serio del dovuto, è un altro discorso. Se mai qualcuno venisse a chiedermi di scrivere tot articoli per un tot compenso, ecco, quello sarebbe un lavoro. Così com’è, è un pelo sopra il cazzeggio. Parlo per me, eh.
Non nego che l’attuale spassosissimo mercato del lavoro abbia reso molto sottile la linea tra volontariato e sfruttamento, con un sacco di zone grigie di cui, per me, non fanno parte le testate di cui parli.
Brevemente, se quello che ha commissionato un lavoro ha un introito (o tenta di averlo), e te che hai sgobbato non vedi una lira, è sfruttamento, e da quello non si sfugge.
A parla con B del libro dello scrittore C. B il giorno dopo compra il libro. A va dallo scrittore C e pretende di usare il suo bagno in ragione del guadagno fattogli avere. C risponde che è A ad essere in debito per aver passato una bella serata parlando del suo libro. B arriva poco dopo e pretende che A e C gli puliscano il bagno in ragione del fatto che il libro gli ha fatto schifo.
ottima e abbondante
formula di sicuro successo
effeffe
La cultura sarà salvata dai detersivi
[h] mi annoto questo paragrafo per l’esame di economia (domestica e non)
uno straccio si aggira per l’Europa
la casalingua parla
il casalinguo se ne lava le mani
effeffe
Sull’argomento, partendo dal Bianciardi e da alcune tesi di Sergio Bologna in merito, provai a dire la mia un paio di anni fa, cercando di fare anche una distinzione tra il lavoro di una redazione “classica” (di una casa editrice) e quello ad esempio di un blog.
Per chi è interessato l’intervento, dal titolo “Editoria e precariato intellettuale. Il lavoro non paga”, si trova qui: http://www.lavoroculturale.org/editoria-e-precariato-intellettuale/
ottimo
C’entrano le biblioteche.
Nel paese accanto a quello in cui vivacchio, c’è una biblioteca, l’unica accettabile in tutta la valle, che gode del lascito e dei doni da viva di Maria Corti. Ci si trovano anche cose bizzarre, come i libri inviati alla critica dai maggiori autori degli ultimi trent’anni con tanto di dediche lubrificate e omaggini letterari di qualche imbarazzo. Va be’. Questa biblioteca aveva un ottimo bibliotecario “storico”, che l’aveva agganciata alla rete interbibliotecaria con molta fatica e se ne era occupato in tutto, aveva perché è morto. Ora è gestita da due volontarie, che fanno anche le pulizie e portano libri, che tengono i conti dei dati e resi manualmente: purtroppo il comune non vuol dare un euro, nemmeno per i libri e le pulizie, figurati per pagare un nuovo bibliotecario. E senza un nuovo bibliotecario la biblioteca è, per necessità burucratiche, sconnessa dalla rete, non abilitata ai prestiti interbibliotecari, e nemmeno all’uso del software di gestione.
Ecco, per dire.
Saluti.
que faire?
Boh, io poco più di questo.
Premesso che la sfera individuale dei comportamenti e delle motivazioni è molto ampia, la sovrapproduzione di cultura ne ammazza giocoforza la redditività. Il ruolo di ammortizzatore sociale, per molte migliaia di persone ufficialmente “amatori” (sic.), mi pare comunque utile e degno di rispetto, forse più vicino alla natura ideale (la cittadella delle belle persone) che a quella storica (robe da ricchi o da servi del mecenate) di queste faccende.
GiusTo
Aggiungo da fu agitatore del lit-web italico che lo scannarsi di 10 anni fa su metodi e pratiche ha lasciato infine spazio ad una dimensione social meno originale ma sostanzialmente pacificata. Dalla poesia al poetico, insomma, ed ogni nicchia a vivacchiare come riesce con la sua piccola stamperia ed eventi / network collegati. Chi sta fuori nel 2014 aspetta che gli piova la briciola dall’alto?
Ma dire che il volontariato salverà la cultura non equivale a dire che la si salverà nel tempo libero, cioè nei ritagli di tempo in cui non si lavora in altro campo per pagare l’affitto?
Non so, Francesco, capisco che vuoi puntare i riflettori sull’attività culturale gratuita, certamente vasta e fondamentale; e una volta nella vita si può tradurre Jauffret gratis. Ma non si può tradurre gratis tutta la vita e, considerata la scarsa importanza che di base si dà al lavoro intellettuale, mi pare più importante sottolineare sempre e cento volte che questo va pagato, fuori da qualsiasi ambiguità. Che il lavoro culturale sia svolto in parte al di fuori dei dispositivi di mercato (riprendo una tua risposta nella discussione sulla tua pagina Facebook) non significa che debba esserlo, né che sia giusto se lo è. Penso sarai d’accordo: e allora no, non si perdona il non-pagante che viene meno a un accordo, quale che sia il suo progetto letterario.
Ormai si bandiscono contratti di docenza universitari non remunerati -come ufficialmente riportato dal bando-: io mi sentirei molto più serena per gli studenti se sapessi che il docente in questione non viene a insegnare per hobby, che non passa 20 ore a settimana impegnato in un qualsiasi part-time remunerato piuttosto che nel preparare le lezioni. E, dal punto di vista del docente, non ci vedo niente di encomiabile nell’accettare un contratto non pagato, neanche qualora ne andasse della sopravvivenza dell’insegnamento: non è salvaguardia, è rassegnazione al fatto che l’insegnamento non è più considerato abbastanza importante da essere retribuito.
Il fronte universitario, per restare alla metafora della guerra, è un fronte che ciclicamente ritorna senza che le cose cambino veramente. Perché? effeffe
@ Cristina
non ho capito la tua risposta, in particolare il riferimento a Emergency . scrivo un po’ a caso e se ti va dimmi.
un editore può scegliere di cercare il successo, il prestigio, entrambi, nulla, quel che vuole (jackie treehorn crede ancora nelle storie coi sentimenti). per farlo può mettere in campo varie strategie. una di queste potrebbe essere la carta emergency, ovvero chiedere sottoscrizioni. io ho suggerito la carta detersivi, immagino schiere di poeti e poete che vendono folletti porta a porta declamare e dimostrare e infine lasciare copie omaggio delle loro opere.
Ma: siano due riviste letterarie identiche in tutto e per tutto tranne che per il nome, ovvero A e B, la rivista A in edicola vende, la rivista B no. I professionisti della rivista B in che modo possono essere pagati? Hanno due scelte: o continuano a loro spese o smettono.
Per questo non capisco il senso di questi discorsi, che ciclicamente tornano, sarà per via che pure l’influenza è ciclica.
specifico che i discorsi che non capisco sono quelli vaghi che si riferiscono alla cultura in pericolo eccetera. mentre il resoconto di bibliocartina e la vicenda della casa editrice interessante. a me viene in mente (ma parlo senza alcuna cognizione di causa) che questi progetti di nicchia potrebbero avvalersi di un rapporto confidenziale con i lettori, che immagino appassionati. invece di stampare e sperare, programmare la produzione in base a una consultazione e lavorare a botta sicura almeno per la copertura delle spese.
Bene. Concordo sulla dinamica della programmazione. Così come troverei interessante una piattaforma in cui poter presentare i propri progetti letterari e trovare finanziatori inclini alla causa.
Quanto a Emergency dico: laddove una realtà non esiste, s’inventa e si sostenta, in qualche modo.
Quanto alle riviste A e B, invece: io sono convinta che se un prodotto non vende, un motivo ci sarà. Diverso mi pare il discorso per progetti di nicchia che pure un certo seguito hanno e tuttavia non riescono che a coprire le spese. Penso al presente e al futuro della poesia in Italia, per dirne uno. Allora, i volontari entrano in gioco in A o in B?
Chiedo, inoltre: la nicchia si configura per un esiguo numero di interessati all’argomento o di acquirenti, di proventi?
beh, non saprei, nel senso che lo spazio per lavorare e pagare c’è, ma non per tutti, il lavoro apparentemente volontario dovrebbe essere quello che rende fertile il terreno. Penso che poi sia questo il succo di questo post. Ma può anche darsi che da qui a vent’anni raddoppino i lettori forti e che nessuno di loro leggerà poesia, indipendentemente dagli sforzi messi in campo.
centro!
Francesco, leggo:
Parlo per me e solo per me. Sono convinto che se non mi fossi inventato vibrisse nel lontano agosto del 2000, oggi camperei di tutt’altro da ciò di cui campo oggi (nella sostanza: consulenza editoriale, formazione alla scrittura e alla narrazione). Se ho avuto degli autori nuovi da proporre agli editori per i quali ho lavorato o lavoro, è perché vibrisse mi ha dato una visibilità (la pagina “Come inviare dattiloscritti a Giulio Mozzi” viene consultata una ventina di volte al giorno). Nel 2001 mi chiamarono da AlphaTest per quello che poi fu il progetto Sironi Editore (nel quale ho lavorato fino al 2008) perché leggendo vibrisse (che allora era una newsletter) si erano fatti una certa idea di me. Se le mie attività formative hanno degli iscritti, è anche perché le pubblicizzo attraverso vibrisse (e i rilanci in Facebook e Twitter e LinkedIn ecc.) (e ho il problema di pubblicizzarle con garbo, e possibilmente strappando il sorriso; ma insieme con una certa insistenza).
Non intendo negare la sostanza tuo articolo, Francesco, ma suggerirei di non sottovalutare il “valore economico” di almeno alcune attività di “volontariato”. Per me, oggi, vibrisse è piuttosto un “investimento”, anzi direi: un “capitale che rende” (e va amministrato).
Non so se discorsi analoghi si possano fare a es. per Nazione indiana, Carmilla, Lipperatura, Alfabeta2, Georgiamada, La dimora del tempo sospeso, la Poesia e lo Spirito e altre simili iniziative (potrebbero parlarne gli interessati).
Grazie Giulio, quello che dici completa l’osservazione di Wystan Hugh Auden che ho citato nell’articolo su come, di fatto, la retribuzione al proprio lavoro spesso arrivi da altro per quanto quest’altro sia legato alla propria attività maggiore, spesso volontaria. Riflettevo per esempio su una mia esperienza in corso da qualche anno. Da otto anni ogni lunedì per due ore faccio un programma in una radio commerciale, la prima in Piemonte, senza prendere un euro. Non è l’editore che mi sfrutta ma siamo stati io e il mio compagno di trasmissione a proporci gratuitamente. è una radio bella, ascoltata, importante, e il nostro programma talmente sperimentale e anarchico che il semplice fatto che l’editore lo avesse accettato non poteva che renderci felici. Si tratta di un vero impegno, che va preparato, a cui vanno dedicate ore di lavoro. Quel lavoro in sostanza non viene pagato però ci permette di lavorare ed essere pagati in altri contesti, festival, eventi,ecc. Questa secondo me è una pratica diffusa,e corrisponde a quel ” i soldi li troveremo altrove” con cui finivo l’articolo. Detto questo, sai benissimo che una gran parte, se non la maggior parte del tuo lavoro di scouting, più o meno volontario, non ti sarà retribuita ma non per questo, credo, smetterai di farlo. Se Vibrisse, ma il discorso vale per Carmilla, Nazione Indiana, La Poesia e lo Spirito, fa conoscere al pubblico degli autori e soprattutto a qualche editore, questo passaggio non necessariamente sarà formalizzato se non in pochi casi con un contratto. Ciò che voglio dire è che il più delle volte siamo mediatori volontari che svolgono un’attività di agenti. La domanda a questo punto, riprendendo un passaggio di una delle commentatrici “professioniste” intervenute, quello che noi facciamo è immorale rispetto alle agenzie letterarie? è immorale, per esempio scrivere, in modo puntuale e non continuativo, per la pagina culturale del Manifesto o di altre testate senza essere retribuiti? Si tratta di lavori meno qualificati e qualificanti? queste sono domande cui varrebbe rispondere, secondo me. effeffe
Diciamo, effeffe, che un certo grado di svincolamento dalla necessità di fare cassa genera un certo grado di libertà (o anche: un certo grado di svincolamento dalla necessità di fare cassa subito genera un certo grado di libertà).
Faccio notare che vi sono anche semi di paradosso in questi ragionamenti. Per esempio: le biblioteche pubbliche, fanno o non fanno una sleale concorrenza a chi vende i libri al consumatore finale? Chi presta un libro a un amico, sta fregando soldi all’onesto libraio? (E all’editore, all’autore, al distributore, allo stampatore ecc. – e a tutti i precari che lavorano nelle aziende della filiera ecc.).
La posizione dei Grandi Detentori di Diritti d’Autore è nota da tempo: se Tizio racconta a Caio una barzelletta presa dai libri di barzellette di Totti, a Totti e al suo editore vanno pagate le royalties.
Giulio, d’accordo con te su tutta la linea. effeffe
Non voglio qui entrare nel merirto della tesi di Francesco Forlani; Ci ritornero’ se riesco più tardi. Voglio solo dire che mi sembra del tutto fuorviante oppore il lavoro culturale dei professionisti – perché retribuito – all’hobby culturale, ogni volta che non sia retribuito. Questa opposizione è assurda. Vorrebbe dire che siccome Proust non è stato pagato per scrivere la “Recherche” o Svevo per i suoi romanzi, allora quello era hobby culturale. Il problema mi sembra che sia il contesto nel quale una certa attività viene fatta. Se siamo in un ambito professionale, valgono regole di un certo tipo. Ad esempio quella che il traduttore non è il direttore di collana, e non decide lui che cosa tradurre (eventualmente propone, ecc.). Chi fa un blog, che è l’equivalente delle riviste culturali, in genere sceglie lui quello che vuole tradurre, ma non è pagato per questo. Insomma, il blog si avvicina a quel tipo di attività culturale spesso non commerciale che sono state le riviste, militanti o accademiche, importa poco. Ma non è che le riviste o il blog sono l’hobby, il dilettantismo, un’attività di rentiers, sono semmai l’eccezione del lavoro culturale, che di regola è un lavoro salariato, come ogni attività o quasi nella società capitalistica. Non ha senso pretendere che l’eccezione diventi regola, ma non ha senso neppure detronizzare l’eccezione, svalutandola a mero hobby. I traduttori professionisti dovrebbe essere grati a chi fa attività culturale anche non essendo pagato, perché questa non è certo concorrenza sleale, ma semmai una modalità di arrichimento del panorama culturale, dei possibili lettori, ecc. Se alla fine, ne tiriamo fuori da questa discussione una guerra tra squadre, i professionisti e quelli dell’hobby, il risultato è davvero misero.
grazie Andrea, era quello ch stavo per dire io alla gentile commentatrice professional prima che la febbre prendesse il sopravvento
effeffe
Andrea Inglese, tu scrivi:
Ma: il lavoro di un agente letterario, ad esempio, non è “lavoro salariato”. Io sono una sorta di lavoratore parasubordinato per l’editore Marsilio, ma di fatto sono una sorta di imprenditore (o di libero professionista; ma forse imprenditore è più adeguato) per quanto riguarda la formazione alla scrittura e alla narrazione (le due attività sono, diciamo, ciascuna il 40% del mio reddito lordo).
(So benissimo che c’è una quantità di persone che formalmente sono “liberi professionisti”, ossia partite iva, e di fatto sono salariati poco tutelati: per questo uno l’espressione cautelativa “di sorta”, e una formula come “di fatto”. Nelle condizioni attuali, contano le situazioni “di fatto” e non quelle formali).
Vibrisse non è un’attività da “rentier”; al contrario, la visibilità che mi sono pian piano costruito con vibrisse (e me la sono costruita “di fatto”, anche se nella mia mente consapevole l’obiettivo della “visibilità per la visibilità” non ce l’ho mai avuto) è la mia “rendita”.
Non voglio dire che il tuo ragionamento sia sbagliato o fuori luogo; voglio solo suggerire che – secondo me, se non mi sbaglio – forse abbiamo bisogno di qualche categoria di più per descrivere l’universo di queste attività.
(Spero di essermi spiegato).
Giulio il tuo discorso lo capisco bene; e possiamo pure immaginare che in diversi casi essere membro di un blog anche collettivo anche come nazioneindiana possa avere effetti positivi su nostri relativi mestieri; nel mio caso questo non accade molto, perché faccio un mestiere che non c’entra né con l’editoria né con le scuole di scrittura, e riguarda l’insegnamento; si può anche immaginare, che partecipare a un’attività non retribuita come NI o altri progetti simili costituisca una voce del curriculum, ecc. Tutto questo è normale. Idealmente, in una società più sana un’attività anche come Nazioneindiana dovrebbe avere le sue forme di sostegno finanziario, come ad esempio accade per le riviste accademiche, o “certe” riviste accademiche.
Comunque qui mi sembrava che il punto fosse un altro. L’idea di fare una partizione tra i professionisti della cultura e quelli che la cultura la fanno per hobby se non vengono retribuiti. E’ una concezione assurda, profondamente assurda, che illustra quanta confusione (e anche miseria) regna nel nostro ambiente.
a francesco f,
a me sembra che tu metti assieme due questioni diverse; una questione rientra in qualcosa che fa parte dell’eccezione, ossia progetti di natura culturale che vengono realizzati nella gratuità; progetti del genere possono essere idioti o geniali, necessari o obsoleti, ecc., ma al cuore di questi progetti c’è l’atto incredibilmente gratuito di scrivere, romanzi,saggi o poesia, poco conta, la letteratura è piena di grandi opere che nessun editore e pubblico ha chiesto, e che sono state scritte senza anticipo e senza contratti. Ma questa è la vita dello scrittore e dell’artista, che è una vita assai infame, e irregolare, e che non può fare testo e proporsi come modello generale della cultura. Poi c’è gente che ha studiato, ha passato anni a formarsi, fare tesi, dottorati, magari, o apprendistato, ecc., per poter fare un mestiere. E se questa gente non viene pagata, non c’è che la lotta, la rivendicazione, il casino, lo sciopero.
C’è stato un spiraglio di luce, al momento del progetto TQ. Vi ricordate? TQ avrebbe potuto diventare questo, un movimento di lotta dei precari del mondo culturale. Purtroppo non ha funzionato, ma il problema mi sembra ancora quello.
Andrea dici a Francesco le cose che ho pensato del suo scritto, che ho visto per così dire nascere.
Da un lato c’è l’aspetto lavorativo e professionale, dove l’idea di “volontariato” che Francesco evoca ha scuscitato forti reazioni perché richiama alla mente le diffuse pratiche scorrette di non pagare, pagare tardi e in parte, ed acconsentire al proprio sfruttamento, che sono rese possibili dal contesto legale italiano e, in parte, anche dall’insicurezza di alcuni o molti lavoratori che si prestano ad essere presi in giro e sfruttati per la presunta gloria delle lettere.
Questo aspetto avrebbe risvolti fertili, percé non fare ad esempio il social network dei cattivi pagatori? l’anagrafe delle facce di bronzo?
D’altro canto trovo sbagliato il termine “volontariato” per realtà collettive come quelle che cita l’autore. E’ lavoro consapevole e determinato, con scopi molto chiari, non solo non pagato immediatamente, ma spesso sovvenzionato di tasca nostra.
Nazione Indiana si finanzia con le quote dei soci, Carmilla credo si autofinanzi in modo simile, di Vibrisse ha detto Giulio, Alfabeta2 è l’unica realtà che ha avuto una dimensione economica di rivista prodotta e venduta in edicola/ebook, ma ha concluso il ciclo “rivista” perché non ha raggiunto la scala sufficiente per sostenersi.
Nel mondo del software si discute di come il movimento libero e open source abbia deteriorato le prospettive professionali di un’intera classe media mancata, che ha visto spostarsi in progetti autorganizzati, open source e non retribuiti quelle che erano attività professionali pagate. E’ una critica che non condivido, che omette convenientemente l’enorme diffusione delle competenze informatiche e le innovazioni qualitative degli ultimi 20 anni. Credo che nel software si sia trovato un nuovo compromesso tra diffusione del sapere e delle competenze e polverizzazione dei modelli di reddito tradizionali. Forse ci si arriverà anche nel campo umanistico?
Jan condivido le tue osservazioni tranne la visione un po’ peggiorativa che tu offri del termine volontariato. Il volontariato è “lavoro consapevole e determinato, con scopi molto chiari, non solo non pagato immediatamente, ma spesso sovvenzionato di tasca nostra.” effeffe
Il volontariato è nobile, ma in ambito lavorativo può avvicinarsi al crumiraggio, e questa polarizzazione secondo me è fuorviante.
La distinzione tra fare (un prodotto artistico valido e compiuto, nella forma che volete) e diffondere (operare culturalmente sul territorio, mediare, fare scoutismo, editoria, ecc.) è molto netta. Il fare, l’aggiunta al patrimonio di idee e forme apportata da un valido prodotto artistico, non è una commodity. Il diffondere è al contrario pratica replicabile e soggetta alle dinamiche del mercato del lavoro. Questo castello di attività si basa idealmente su prodotti artistici compiuti che sono per natura lenti, rari, non monetizzabili, casuali ma ciò che porta denaro e fa carriera, quando li porta, è il diffondere. Oggi la confusione tra gli ambiti è massima: chi fa, cerca di trasformarsi in diffusore e chi diffonde cerca di accreditarsi come facitore.
Eppure Andrea, una delle cose più intelligenti del mouvement des intermittents du spectacle,http://fr.wikipedia.org/wiki/Intermittent_du_spectacle era stata proprio l’intuizione di un capovolgimento di fronte rispetto al passato. Se prima vigeva quella distinzione tra artisti e terziario (uso questa parola in modo improprio comprendendo tutte quelle forme di lavoro immateriale con un regime definito) anche nelle caratteristiche che tu individui per i primi (irregolarità, disordine ecc) con la globalizzazione, mobilità, precariato, quella dimensione irregolare si è estesa a tutto il mondo del lavoro. Ecco perché era illuminante per quanto difficilmente praticabile, e così è stato, l’idea di estendere quello statuto speciale degli artisti con potenti ammortizzatori sociali al resto della società. Questo solo per riprendere uno dei due aspetti del post. Per quanto riguarda la componente volontaria del lavoro culturale sono d’accordo con te, esiste underground e sottobosco, sperimentazione e ripetizione, professionalità e amatorialità, cultura o fuffa, però questo vale anche per quella parte, ritorno a dire, comunque minoritaria del sistema , dei lavoratori della cultura. Il paradosso di questo discorso è che pare che sotto sotto si dica più o meno velatamente che nell’intero processo di creazione dell’oggetto libro tutti abbiano diritto allo statuto di lavoratore della cultura, dalla\dal telefonista della casa editrice fino alla direttrice\ direttore editoriale, passando per i correttori, i revisori, i grafici, gli addetti alla fabbricazione, stagisti,addetti stampa ma non lo scrittore del libro. Curioso no? effeffe
Mi concedo un’antipatica considerazione: esistono alcune realtà affermate con fatica, devozione, professionalità. Retribuite o no. Il ricambio generazionale esige di essere incluso in queste. O di soppiantarle. Quelle restano, giustamente, ancorate alla loro autorevolezza. Nascono nuove, minime, realtà. Tutte convivono. Stentano. Frazionate. Ognuno trae vantaggio per sè. Il volontariato giustifica i mezzi.
più che antipatica mi sembra di coraggioso realismo
effeffe
e alla sua cartesiana rivoluzione
Je compense donc je suis
Andrea, non vorrei aver capito male. Quando scrivi che
intendi dire che, secondo te, “in una società più sana” Nazione indiana e attività analoghe dovrebbero essere sostenute da danaro pubblico?
sì, intendo proprio denaro PUBBLICO, come succede con attività analoghe in quasi tutti i paesi d’Europa dalla Romania alla Francia, dalla Finlandia alla Slovenia
Non sarebbe una cattiva idea. Si potrebbe destinargli l’otto per mille.
Andrea: come si fa a “restare curiosi, indipendenti e soprattutto aperti” (cito dall’articolo di benvenuto ai dieci (piccoli) nuovi indiani), nel momento in cui si dipenda (anche parzialmente) dall’erogazione di danaro pubblico?
caro Giulio,
la tua domanda avrebbe senso se quello che abbiamo scritto, lo avessimo scritto in un contesto che NON è il nostro. Di denaro PUBBLICO non ne prendiamo, perché il denaro pubblico in Italia serve a tante cose bellissime e a tante cose bruttissime, ma NON a sostenere in modo significativo attività artistiche e culturali. Quindi la tua domanda non ha molto senso, se fatta a noi, in Italia. Ma mi diverte vedere – lo avevo già notato all’epoca dell’inchiesta indiana sulla responsabilità dello scrittore – come in italia il carnefice sia stato perfettamente interiorizzato. Mi diverte vedere come scrittori, lettori appassionati, critici, ecc. guardino con terrorizzato stupore all’eventualità che lo Stato possa in qualche modo sostenere l’attività artistica e letteraria (poetica inclusa).
La tua domanda retorica presume che ci sia incompatibilità tra autonomia e indipendenza e erogazione di denaro pubblico. Lo dai per scontato, come se l’unico mondo che esistesse fosse quello in cui il denaro pubblico è un mezzo per controllare qualsiasi soggetto che ne è in parte beneficiario. In altri paesi, la pensano diversamente. In una gran numero di paesi europei, ad esempio, soldi PUBBLICI vengono investiti in iniziative che riguardano aspetti diversi dell’attività poetica. Questo NON esiste in Italia. L’Italia da questo punto di vista è piuttosto un’eccezione. Tu dirai che noi siamo un’eccezione in quanto moralmente superiori a tutti gli altri paesi, che non hanno capito che dare soldi PUBBLICI ai poeti significa addomesticarli.
Naturalmente, rischi del genere esistono – lo dico senza ironia. Non credo infatti che vi sia un sistema perfetto. E in Francia, dove anche i poeti riescono quasi a campare facendo solo attività connesse con la poesia, in Francia dicevo esistono diversi rischi legati a questa situazione.
Questo significa allora che è vero il principio, preso in modo molto generale ed astratto, secondo cui lo Stato che sostiene con denaro PUBBLICO un’attività artistica anche le toglie necessariamente “curiosità, indipendenza, apertura”? Ovvero il principio implicito nella tua domanda? Penso proprio di no. Penso che la miseria italiana non sia un grande metro, anche se io qui mi sono forgiato e lungi da me andare ad infittire il lamento.
Penso che la realtà sia ben più complessa. Penso che il tuo principio dovrebbe valere allora anche per l’insegnamento, visto che i docenti, dall’asilo all’università, vengono pagati con denaro PUBBLICO, e quindi sono tutti tendenzialmente imbavagliati… (E quindi la libertà d’insegnamento sarebbe la più grande bufala mai sostenuta da un’istituzione statale…)
Sarebbe interessante piuttosto cominciare a mettere fuori la testa dall’Italia e cominciare ad entrare nel merito di altri sistemi, piuttosto che credere che il nostro assai miserello sia il più chiaroveggente.
in italia siamo molto più avanti dei francesi: gli scrittori e i poeti (soprattutto quelli “indipendenti”) sono finanziati dagli “amici” attraverso i premi letterari
lc
qualche giorno fa ho fatto la spesa con una targa di un premio. non me l’hanno accettata nonostante si trattasse di un premio autorevole e di una bella targa. effeffe
se gli “amici” ti passano un assegno di due-tremila euro, la spesa la fai sicuramente (con o senza targa)
lc
Andrea, scrivi:
La domanda non è (parlo delle mie intenzioni) retorica. Non ha (per quel che ne so di me stesso) il presupposto che tu le affibbi.
No, una cazzata simile non mi sognerei mai di dirla.
Appunto: rischi del genere esistono. Come si fa dunque a evitarli? Questa era la mia domanda.
Vedi, Andrea: non è un buon modo di discutere, quello di attribuire all’interlocutore opinioni da deficiente.
Scusa Giulio se ho reagito con eccesso di vis polemica, ma ero memore di quanto era emerso in quella famosa inchiesta dello scrittore e orientato da alcuni commenti che erano emersi in questa discussione. E l’aver tu messo in “corsivo” il termine “pubblico”, come quando qualcuno dice: “ma ho capito bene? stai davvero parlando di denaro pubblico???” mi ha portato fuori strada. Non so se le opinioni che io ti ho attribuito siano da deficiente, ma sono opinioni che, in Italia, ahimé, sono spesso condivise, anche nel nostro ambiente. E lo sono purtroppo per una deformazione ottica, una sorta di automatismo, che è legato al nostro infelice rapporto (di iatliani) con il “pubblico”.
Nella tua risposta, qui sopra, dici: “Parliamo dei rischi di questa cosa, che sono le differenti forme di sostegno pubblico a certe attività culturali, ecc.”. Benissimo. Di questo qualcosa di un po’ articolato poterie anche riuscire a dirlo, dopo un’esperienza abbastanza ampia di confronto tra sistema francese e sistema italiano, ad esempio.
Ma prima di abbordare questo preciso punto, mi sembrerebbe prioritario abbordarne un altro, ossia che cosa succede negli altri paesi. Prima di andare a considerare criticamente ciò che gli altri fanno, bisognerebbe cominciare a informarsi su cosa fanno. Davvero tu credi che dopo una discussione come questa, tutta orientata all’eccezionale situazione italiana, la gente abbia una visione chiara di quanto succede altrove? Io posso parlare e solo parzialmente dal mio osservatorio limitato, ma da un punto di vista esemplare: la poesia. La poesia è esemplare perché un sostegno pubblico di attività legate alla poesia non può avere né un ricaduta su grandi numeri né una ricaduta commerciale. Eppure, almeno fino ad oggi, ci sono paesi “meno ricchi” di noi, che fanno più di quanto l’Italia faccia in questo ambito, e ti faccio l’esempio della Romania e della Slovenia, ad esempio.
Io credo che in Italia non sia per nulla acquisito il principio che il denaro pubblico possa essere utilizzato in attività culturali che sono definite colpevolmente elitarie e non popolari (leggi: non commerciali). Io trovo che sia questo un pregiudizio assurdo, ma per nulla deficiente, perché pur rimanendo un pregiudizio, è nutrito da un gran numero di motivi.
“Vedi, Andrea: non è un buon modo di discutere, quello di attribuire all’interlocutore opinioni da deficiente.”
in effetti…
Francesco, stavolta stai più in versione dandy conservatore. Comunque, ognuno fa quello che gli va, compreso, e sempre che maggiorenne e consenziente, il traduttore che traduce gratis per mesi e mesi solo per fare “cultura”… l’unica cosa che mi chiedo è se sia giusto che un imprenditore (un editore) possa fare l’imprenditore (l’editore) anche quando non se lo può permettere e poi far pagare i suoi insuccessi ai propri dipendenti, in termini salariali e giuridici. Secondo me, non è giusto, vieppiù che questi dipendenti non sono nient’affatto interrogati se vogliano fare cultura a proprie spese… della serie far letteratura col c degli altri e poi pigliarci pure l’encomio nei libri del settore o dai blogger letterari. Un po’ comodo. Come è comodo chiedere quattrini pubblici per le proprie attività (di qualità certo)…
Su quella somma di valori che è poi il valore del lavoro editoriale penso che ci sia soprattutto quello che si chiama professionalità, che va naturalmente pagata. E questo lo dico perché ho visto per esperienza professionale diretta quanto ce ne passi tra un lavoro editoriale (o il lavoro in generale) pagato e uno non pagato, sottopagato o avvilito dai soliti mezzucci dell’insolvenza.
Concludo con una piccola riflessione, visto che molti degli presenti sono scrittori. Ammesso e non concesso che tutti pensiamo che più margini di libertà ha uno scrittore meglio è, non ci viene in mente che delle volte è proprio la contingenza di ogni tipo (che va dalla censura politica a quella appunto editoriale e commerciale) a creare dei valori aggiunti fin dentro i processi creativi ed estetici di un artista? e penso a Bulgakov, o alle difficoltà di trovare uno straccio di editore e poi riuscire a monetizzarci qualcosa ad parte di Bolano e a quanto questo abbia influito nella scrittura nelle sue opere maggiori.
Dinamo, se si tratta di conservare, ben venga anche la deriva conservatrice, alla Orwell, Pound, Pasolini, per citarne alcuni. Non difendo gli insolventi, ci mancherebbe, anche se mi riesce difficile sganciare l’economia del settore culturale da tutti gli altri per quanto riguarda il debito e il suo essere motore dei mercati. Ciò detto, ribadisco quanto sia odiosa la presa per il culo da parte di chi ti promette un compenso per un certo lavoro e poi non assolve il proprio compito. é altresì vero che editori e autori possano decidere di lavorare a dei progetti in autonomia rispetto a quel tipo di contratto, e assecondare chi per un motivo chi per un altro la propria volontà, il proprio desiderio. Nel mondo dell’editoria “poetica” questo è assai frequente. Lo scatto in questo caso non è dal non essere pagati a essere pagati, ma dal pagare l’editore o non pagarlo. Quello che dici nel finale è vero e azzardo a questo punto una considerazione: com’è che proprio in questi ultimi dieci anni di sofferenza economica, di crisi, c’è stata una nouvelle vague d’opere per numero e per qualità assai straordinaria? effeffe
Andrea, scrivi:
Andrea: io stesso non ho una “visione chiara” di quanto succede altrove. Tant’è che ti facevo una domanda: alla quale immaginavo che tu avresti risposto raccontando qualcosa di ciò che succede altrove.
Ok, ci provo. E comincio dal lavoro più approfondito che ho potuto realizzare sulla questione. Si tratta di un focus che ho curato su alfabeta2 (ottobre 2012) inerente, per farla breve, a quello che i francesi chiamano “l’eccezione culturale”. Questo il sommario:
ALLONS ENFANTS?
Andrea Inglese “La verifica di un’eccezione”
Alain Brossat La democrazia culturale
Simone Morgagni “Ombre del multicuralismo Note su un paradigma in crisi”
Jean-Marc Adolphe “Effetti della creatività di Stato Dialogo con Andrea Inglese”
Benedetta Zaccarello e Tommaso Melilli “Imprenditoria al vertice”
Incollo il link all’articolo che più può interessare il discorso che facciamo qui. In questo caso, più che di poesia si parla di danza. Ma dal punto di vista italiano, le cose non mi sembra cambino. La danza è altrettanto minoritaria per il pubblico italiano della poesia.
http://www.alfabeta2.it/2012/10/16/effetti-della-creativita-di-stato/
Andrea, una domanda en passant. Si tratta di testi scritti, tradotti, retribuiti o volontari? Se volontari perché militanti, di critica, letteraria, sociale, politica, o perché autonomamente volontari? E se volontari i testi, per cui la risposta alle prime domande è pertinente, per la traduzione di quegli stessi quali ragioni sono invocate? Faccio questa riflessione pensando che un eventuale questionario da far girare a quanti come noi fanno parte di quel “volontariato” di cui parlo e che vorrei descrivere in questi giorni,servirebbe a far capire almeno tre cose: uno che non si presta il proprio lavoro gratis perché non c’è scelta a monte. 2) che non si sentono affatto intellettuali, poeti, artisti della domenica ovvero alle prese con un hobby. 3)la più importante, che costituiscon non solo a livello della qualità dei propri lavori ma anche in termini quantitativi “il sommerso” della vita culturale di questo paese. Che poi esistano in Europa dei modelli in grado di “compensare” la relativa solitudine di certe forme artistiche, come la poesia, la musica contemporanea, la danza, la videoart e via dicendo, sono d’accordo con te, è a questi modelli che bisogna fare riferimento ma non senza, a monte, una rivoluzione delle dinamiche attualmente in uso e non sempre gratificanti rispetto al merito, alla qualità, o semplicemente in grado di sostenere certe ricerche. effeffe
Francesco, non ho ben capito la domanda… Quali sono i testi a cui ti riferisci?
Comunque, considero che il tuo pezzo abbia sollevato una questione importante, nodale… Solo che non concordo su alcune questioni, ma sopratutto penso che il problema sia la commistione dei diversi piani. In primo luogo, il piano della creazione con quello del lavoro. Per cui non si può mettere sullo stesso piano la poesia con un lavoro culturale inteso in senso generico, come la traduzione o il lavoro editoriale. (Scrivere le poesie, senza che nessuno me lo abbia chiesto, è una mia scelta. Lavorare non è una mia scelta, è una necessità.) Anche il termine volontariato non mi convince. Preferisco parlare di militanza, perché almeno si conserva il senso politico di un certo tipo di attività culturale. Dopodiché sono come te sorpreso e un po’ nauseato – lo confesso – dall’opposizioni che qualcuno ha sostenuto tra professionisti della cultura e lavoratori culturali della domenica.
Sai Andrea, tu lo puoi chiamare anche militante, tanto è una guerra, però mi permetterai di osservare che il termine oltre ad essere vecchio, a parer mio non racconta quanto accade nella sua complessità. Per esempio un collaboratore di alfabeta è militante ma uno dell’atelier du roman, non potrei definirlo tale; questo per rimanere al mondo delle riviste. Volontario tu lo senti, come del resto jan in un altro commento, come una parola quasi peggiorativa. Io non la sento così. Sto guardandomi a proposito di una parte delle questioni suscitate dal post, la differenza che i francesi fanno tra bénévoles et volontaires. non so se hai presente questo documento http://www.associations.gouv.fr/IMG/pdf/benevolat_valorisation_comptable_2011.pdf
dove viene tra l’altro riportata la tabella delle ripartizioni per settore.
z Sports 29%
z Culture et loisirs 28%
z Action sociale, santé, humanitaire 23%
z Défense des droits 10%
z Économie, développement local 4%
z Éducation, formation, insertion 4%
z Autres 2%
Forse les Bénévoles sarebbe ancora più provocatorio di Volontaires, nel senso buono, e performante come paradigma
effeffe
Francesco, un titolo come “La cultura sarà salvata dai volontari” che in realtà tu proponi come vera conclusione dell’intero pezzo, mi rifischia nelle orecchie come un modello insostenibile, quasi provvidenziale della cultura e dell’editoria e proprio per questo mi sembra una soluzione debole, casuale, inconcludente. Insomma, mi pare che tu inquadri un problema grande che c’è – e che c’è come sai e scrivi anche per chi non pubblica libri letterari ma spazzatura – ma ti accontenti di una risposta troppo semplice e parziale… Cioè: si può risolvere un problema così difficile con una formula tanto facile? Il punto prima di tutto credo stia nel porsi dentro l’indotto industriale e quindi del lavoro professionistico e non fuori come in una certa maniera sostieni tu. Oltre la problematica attuale, si può e si deve cercare come discorso a lungo termine di creare un sistema/dei sistemi con canali alternativi ma per forza di cose legati all’utile, al profitto e quindi bisogna rimanere nell’industria. Non fuori. In questo credo che lettori digitali e libri digitali creino una possibilità per tutti. E’ affascinante per esempio l’esperimento feltrinelliano del ilmiolibro.it, che con tutti i limiti se vogliamo di ogni esperimento e tenendo conto che si appoggiano prevalentemente a esordienti, hanno creato una piattaforma self-publishing ma soprattutto una cloud di contenuti testuali rinnovabili, in vendita per abbonamento, visualizzabili anche su telefonino (soprattutto su telefonino). Questo sistema che risponde sicuramente a settemila sirene commerciali diverse, che prevede anche una specie di voto di preferenza, e abbatte i costi di redazione ed editing perché non li prevede essendoci l’autopubblicazione standardizzata ecc ecc ecc, questo sistema ha grossi margini di miglioramento o di smembramento: l’idea della piattaforma di contenuti/libri digitali in vendita per abbonamento è un’idea di distribuzione che può avere o no un futuro? Se magari tra qualche anno venisse attuata da altri editori per vendere parti dei loro cataloghi? E questa non porterebbe anche a ripensare la letteratura? la normale produzione e forma dei testi?
Tu Francesco mi parli in conclusione di una avanguardia (o meglio di una retroguardia) letteraria sbocciata in questi anni, fruttata dalla crisi. Io, fuori di retorica, parlo sul serio, non lo so se c’è davvero questa retroavanguardia oppure no. Però riallacciandomi all’ultima domanda sulla forma dei testi letterari, posso dire che negli ultimi anni mi è capitato di leggere dai blog, dei racconti o dei capitoli di romanzo che in alcuni casi avevano della qualità letteraria in sé ma che una parte anche minima di questa qualità letteraria gli derivava dal fatto di essere stati scritti e pensati per un blog e non per un normale libro di carta. Insomma, colle dovute proporzioni certo, quel medium ha dato una seppur piccola spinta di novità alla narrativa “underground” ma non solo di questi anni. E quei blog che hanno funzionato meglio, che hanno fatto migliore critica letteraria e migliore narrativa o analisi narrativa della società sono stati proprio quelli che hanno scritto in funzione delle caratteristiche di questo format e non solo di una sterile riproposizione libresca. Immaginiamo cosa possa succedere nel caso veramente si riuscisse a riformare il paradigma editoriale nei prossimi anni.
Una doverosa precisazione. Nel commento precedente ho parlato de ilmiolibro.it ma avrei dovuto precisare che la piattaforma di contenuti testuali per telefonini e smartphone è del sito storiebrevi.it che fa comunque parte del progetto ilmiolibro.it.
ti rispondo con il nuovo post programmato tra qualche giorno
effeffe
Un Council Arts italiano sarebbe l’ennesimo orrendo carrozzone, con l’aggravante egoica dei millemila pretendenti a sventolare patenti e medaglie. Meglio di no, davvero, in UK e’ finito a schifio fra megere carrieriste, formazione di un ceto / sottaceto sui giornali labour e tanto tanto doggerel pubblicato a spese dello Stato. Assistenzialismo, insomma. Adesso che i Tories stanno tagliando tutto, il sistema si re-inventa commerciale, ogni mese classifiche, endorsement acchiappa pubblico (meglio se ggggiovani & confusi come Kate Tempest) e richiami corporativi. Dal punto di vista della qualita’ poetica e degli esiti, noi italiani siamo secoli avanti. Un giovane come Antonio Bux, che in Italia sta buttato a Foggia, in UK sarebbe professore di creative writing da qualche parte e camperebbe. I poeti qui fanno la fame buttati nella vita in modi assai improbabili, confusi tra migliaia di volontari che tengono fertile il terreno (quanti siete ora in NI, trenta?) e i funzionari si spartiscono le briciole. Se ci fossero soldi pubblici, state sicuri che I poeti continuerebbero a fare la fame e a produrre ottima, casuale, gratuita letteratura. A quale classe, ceto o sottaceto apparteniamo? Bastano dieci poesie e sapere come ci procuriamo il pane, per tutto il resto oggi esiste Facebook.
a FF,
fai l’esempio delle riviste letterarie, ma le riviste da sempre non campano sulle vendite, e chi vi scrive sopra fa un altro mestiere, che quello di articolista sulla rivista. Nel caso di alfabeta2, che era un mensile destinato alle edicole, il tentativo è stato di riuscire a trovare un modo per finanziare il progetto, ossia di pagare sia la redazione che i collaboratori. In realtà sono stati pagati per un certo periodo i redattori, e poi il formato cartaceo è divenuto insostenibile, e il progetto continua, ma in una forma leggera sul web. Anche nel caso dell’Atelier bisognerà fare immagino distinzione tra redazione e collaboratori.
[…] post dedicato alla spinosa questione del rapporto tra volontariato e lavoro culturale, avevo usato la […]
Riporto un paio di commenti di stamattina su FB, dalla mia esperienza di piccolo editore (Miraggi edizioni).
Premessa: Miraggi nasce 5 anni fa da un gruppo di redattori che, persa la speranza di lavorare seriamente in una casa editrice, si sono messi in testa, pur squattrinati (negli anni la situazione è alquanto peggiorata), di fondarne una.
Condivido spirito e riflessioni di Forlani (da giorni mi suonava in testa qualcosa di stonato sulla questione Voland, pur essendo stato ed essendo talvolta ancora un redattore esterno per altre case editrici, ed essendo passato dall’altro lato del muretto), e ho scritto questo:
«Ragionando sul lavoro di piccolo editore (redattore, correttore…): dobbiamo sentirci così male all’idea di non ricavarci nulla, oltretutto rischiando ben di più che di non veder pagato un lavoro? Non lo sapevamo, in fondo? È questione di aspettative sbagliate allora? Dobbiamo sentirci così male se tardiamo a pagare qualcuno (perché è chiaro che si paga), perché i libri venduti (non pochi) a loro volta non vengono pagati, impunemente, da soggetti molto più forti e stabili di noi, soggetti che la pagnotta e la portano a casa? Dobbiamo, noi lottatori nel fango culturali che dal fango tentiamo di tirar fuori qualche perla rara in forma di libro, sentirci dei “padroni” stronzi che sfruttano sistematicamente gli altri (oltre noi stessi), come fossimo degli industriali, dei “padroni del vapore”? Quanta poca consapevolezza c’è in chi lavora per l’editoria minore delle dinamiche economiche che di fatto renderebbero impossibile la sua stessa esistenza (e invece…)? Sapete come funziona la distribuzione? Io so che normalmente te non ne avete idea. E poi: tutti (noi compresi) a lavorare per i grandi gruppi. Certo, come no, uno su 100, magari neppure il più bravo. E non guarderei neppure se ci piacerebbe: è lavoro, non volontariato. Semplicemente non può accadere, tutto qui, la grande maggioranza di quelli che lavorano più o meno gratis nell’editoria, farebbero tutt’altro.
Però noi stiamo in piedi, facendo altri lavoretti per campare, e ci sentiamo invincibili e “necessari”. Un po’ coglioni, a volte, ma passa… Grazie a Francesco Forlani per tutte queste riflessioni.»
e ancora:
«Secondo me ci sono due questioni su tutte. 1) Da un lato, il soggetto: certo, c’è chi ha un mecenate, un finanziatore, e può fare quel che vuole; di fronte, chi si arrabatta a fare altre cosine cosucce cosette per potersi “permettere” di fare questo lavoro-passione. Io sono tra questi (a proposito, sto cercando un lavoro…). 2) Il progetto imprenditoriale: una cosa che è uscita fuori in questo dibattito con Voland, ma ho letto anche di minimum fax, è che pare che non ci fosse una coscienza aziendale forte riguardo la questione economica, il che non mi stupisce affatto conoscendo un po’ il mondo editoriale, fatto di letterati poco inclini ad abbassarsi alla dittatura dei “numeri”. Credo che un conto sia “non badarci troppo”, con i guai che ne possono derivare (ora sarà diverso), un conto avere un piano economico rigoroso generale e sul singolo libro, al netto dell’alea inevitabile, e vedere questo piano andare in sofferenza perché altri soggetti (quelli che vendono i libri) poi non pagano. A seconda delle cifre, questo fa la differenza tra poter onorare i propri debiti con collaboratori e autori (oltre che fornitori), o non poterlo fare. A volte penso che preferirei non vendere, ammetterei che faccio libri che non valgono nulla, e ne trarrei le conseguenze. Ma se vendi, per questi tempi non male, e non ti vengono pagati, o con ritardi enormi, la responsabiltà credo vada distribuita diversamente (dato che uno fa l’editore, non l’agenzia recupero crediti). Non è che non dovevo commissionare un lavoro, allora, se sapevo di non poterlo pagare. Conti alla mano lo potrei pagare, come previsto, se altri (the others, sembra Lost) avessero pagato. Diciamo che mi vergogno, ma mi rimprovero meno.»
Restano moltissime questioni sul campo, un campo di questioni annodate forse irrisolvibili, ma sul quale la consapevolezza e la coscienza del tutto e del proprio ruolo e apporto può illuminare qua e là, forse facendoci incazzare ancora di più, forse facendoci scartare di lato dalle nostre certezze.
Alessandro De Vito, Miraggi edizioni
Se volete i commenti sono qui: https://www.facebook.com/triciclo71/posts/10203936856200625