Inno ps.omerico a Hermes – vv. 227-292
trad. isometra di Daniele Ventre
[…]
Come ebbe detto avanzò il re Apollo, il figlio di Zeus,
e del Cillene raggiunse la cima ammantata di selve
e la caverna dall’ombra profonda, là dove l’eterna
ninfa già diede la vita al figlio del Cronide Zeus.
Ed un profumo gentile in quel monte chiaro di dèi
si diffondeva, molti agili armenti brucavano l’erba.
Dunque laggiù con premura passò dalla soglia di pietra
dentro la cupa caverna Apollo infallibile arciere.
Ma non appena quel figlio di Zeus e di Maia ebbe scorto,
per le giovenche adirato, Apollo infallibile arciere,
si ricoprì delle fasce odorose, e come alla molta
brace del ceppo d’un tronco la cenere intorno fa velo,
Hermes così si celò appena ebbe visto l’arciere.
E ritirò in poco spazio la testa e le mani e i suoi piedi,
bimbo che appena lavato, del sonno soave è in attesa;
era ben sveglio in realtà, sotto il braccio la tartaruga.
Non ignorò, ben conobbe, il figlio di Zeus e di Leto,
sia la bellissima ninfa montana sia il caro suo figlio,
bimbo piccino ammantato però di fallaci apparenze.
Per ogni dove scrutò nel grembo dell’ampia dimora,
tre ripostigli dischiuse, trovata la lucida chiave,
pieni com’erano tutti di nettare e amabile ambrosia;
ed assai oro e non meno argento all’interno giaceva,
e così molte purpuree e candide vesti di ninfa,
quali ne hanno le sacre dimore dei numi beati.
Poi dopoch’ebbe cercati gli anfratti dell’ampia dimora
queste parole rivolse il Letoide ad Hermes glorioso:
“Bimbo che in culla riposi, tu mostramele le giovenche,
presto: ché in breve fra noi ci si sbrigherà in malo modo.
Ti prenderò e getterò nel Tartaro cupo di nebbie,
inesorabile buio e funesto: te non la madre
né il padre tuo condurranno alla luce, sotto la terra
anzi errerai, fra le larve degli uomini dominerai”.
Hermes a lui rispondeva così, con parole d’astuzia:
“Figlio di Leto, perché mi hai detta parola spietata?
Giungi fin qui per cercare le tue campagnole giovenche?
Io non ho visto o saputo, né ho udita parola da un altro;
non te le posso mostrare e premio non posso ottenerne;
e non somiglio ad un uomo robusto, a un predone di buoi.
Questo non è il mio mestiere, io piuttosto d’altro mi curo:
solo del sonno mi curo e del latte della mia mamma,
e di tenermi le fasce addosso e di caldi bagnetti.
Altri non sappia da dove è venuta tanta discordia:
o veramente un prodigio in mezzo agli eterni sarebbe
che oltrepassasse la soglia un bambino nato da poco
con campagnole giovenche: tu ben a sproposito parli.
Ieri son nato, i miei piedi son morbidi, dura è la terra.
Giuro sul capo del padre, se vuoi, giuramento solenne:
sì lo proclamo, di ciò non sono colpevole io,
e non ho visto nemmeno un altro rubarti le vacche,
quali che siano le vacche: soltanto la fama ne ho udita”.
Disse così, fra le palpebre un fitto brillio dardeggiando
coi sopraccigli accennava da un lato e dall’altro scrutando,
e fischiettando insistente, com’è chi ode vana parola.
Con un sorriso gentile Apollo l’arciere gli disse:
“Piccolo mio seduttore imbroglione, certo lo credo
che troppo spesso entrerai nelle ben tenute dimore
in piena notte e farai che più d’uno dorma per terra,
col saccheggiargli la casa in silenzio: tale mi parli!
Molti ne rovinerai di mandriani, gente dei campi,
di fra le balze dei monti, allorché per brama di carni
ti imbatterai nelle mandrie dei buoi, nelle greggi di armenti.
Ora suvvia, tu non dorma il tuo estremo ed ultimo sonno,
giù dalla culla discendi, tu, amico alla notte nerigna.
Anche in futuro l’avrai tale onore fra gli immortali:
tutti i tuoi giorni sarai chiamato il signore dei ladri”.
[…]