les nouveaux réalistes: Raul Montanari
Il filo ritrovato
di
Raul Montanari
«Lasciami stare! Basta, basta!»
«Dimmelo, Andrea. Dimmelo, e alla svelta.»
«No!»
«Dillo a me, Andrea. Altrimenti dovrai dirlo a loro.» Oh, sì. Certo che lo dirai, a loro. «Vuoi che chiami loro?»
«Lasciami stare! Lasciami!…»
Continua a muovere la testa, a scatti, disperatamente, per quanto glielo consentono le corde che lo legano alla sedia. Io giro dietro e gli passo un braccio intorno alla gola, tirandolo verso lo schienale.
«Lasciami!» grida ancora lui, e la voce che echeggia sotto il soffitto basso di questa cella sotterranea è davvero la sua ‑ non è un sogno, questo, sta accadendo. Faccio forza con tutto il corpo per tirarlo indietro, premo contro la gola. Alla fine lui deve cedere, sempre urlando e dimenandosi, e allora gli infilo in testa il sacchetto di cellophane, lo stringo intorno al collo.
Lui si dibatte, convulso, cercando il respiro che non viene più. Prima grida, poi ansima senz’aria e infine fa quel verso strano che fanno tutti quando vengono torturati in questo modo, perché la tortura eguaglia tutti gli uomini, spiana le differenze, ma io in questo istante ricordo che da lui l’ho già sentito tanti anni fa, quell’unica estate in cui eravamo riusciti a mettere insieme i soldi per andarcene su un’isola, il nostro sogno fin da quando eravamo bambini – ci eravamo fatti sbarcare là con due ragazze per dimenticarci del mondo che non ci aveva ancora separati, e una mattina lui era scivolato da un ponticello di legno, un vecchio imbarcadero in rovina, e, insomma, io non capisco neanche adesso come poté succedere ma Andrea rimase incastrato lì sotto e stava annegando, e quando riuscii a trovare il modo di tirargli fuori la testa, quasi strappandogli i capelli, anch’io mezzo soffocato dagli spruzzi d’acqua salata mentre le due ragazze strillavano e non facevano niente per aiutarmi, e io piangevo per la paura e l’angoscia, proprio in quel momento sentii quel suono uscirgli dalla bocca – anzi, non dalla bocca. Non è come se uscisse dalla bocca, ma direttamente dalla gola, è il rumore della gola che cerca aria e non la trova, uno strano suono orribilmente morbido, come uno schiocco ovattato, qualcosa che mi fa sempre pensare a un pezzo di carne umida che urta contro un altro. Io non sapevo che l’avrei risentito fatto da tanti altri, e non sapevo – no, mai avrei potuto pensarlo, questo – che l’avrei risentito da lui. Perciò adesso glielo tolgo subito, il sacchetto.
Andrea rovescia indietro la testa, un grido strozzato inspirando aria in fretta, in fretta, proprio come quando lo avevo riportato sulla spiaggia piena di ciottoli che tagliavano le piante dei piedi. Gli afferro il mento, sempre da dietro, e lui si irrigidisce e geme, respirando come se volesse ingoiare tutta l’aria di questo mondo umido e giallastro, intorno a noi. Ha imparato ad avere paura delle mie mani, Andrea. Trema, quando lo tocco. È da due ore che trema così. Ora mi appoggio la testa di Andrea contro lo stomaco, e gli metto una mano sulla fronte sudata.
(Questa è la posizione per il Dentista, ma di solito bisogna essere in due a tenere il prigioniero. Io non l’ho mai usato, quel sistema, perché il sangue mi fa schifo. Nonostante il mestiere che faccio, il sangue continua a farmi schifo. Il mio e quello degli altri. C’è da ridere, no? Cerco sempre di non far buttare sangue a nessuno. I miei sistemi sono il Diavolo Blu, il Sottomarino, l’Acrobata, tutto pur di vedere meno sangue possibile. Una volta mi sono accorto per caso che una ragazza soffriva da pazzi il solletico e l’ho fatta parlare così, una piccola commessa di negozio, magra magra, mi è quasi morta sotto le dita, ma il capitano e gli altri mi hanno dato un soprannome idiota e allora mi sono scocciato e non l’ho fatto più.)
«Lasciami stare… basta…» riesce a dire Andrea, sempre tenendo il collo rigido ma senza cercare di strappare la testa dalle mie mani.
«Non hai capito» mormoro.
«Oh, Cristo, oh, Gesù, ti prego…»
«Andrea, non hai capito. Non uscirai di qui prima di aver detto dov’è lui. Cacciatelo bene in testa, e finiscila di fare l’imbecille. Dimmelo. Dillo a me.»
«Non posso.»
«Sì che puoi. Io lo so che puoi.»
«Non posso, non posso, non posso…»
Andrea ricomincia a piangere. Sento la testa sussultare piano fra le mie mani e contro la pancia. Mi mordo le labbra. Cerco di non guardarlo.
«Io lo so che puoi, e lo sanno anche loro» dico a bassa voce. «È meglio che lo dici a me. Non farmelo ripetere.»
«Va’ all’inferno, bastardo maledetto» mugola lui, e poi alza la voce incrinata dal pianto. «Vuoi che lo dica a te perché così ti prenderai il merito, vero? Cosa ti daranno, una medaglia? Perché sarai stato tu a trovarlo? Cosa ti daranno, bastardo vigliacco? Dei soldi?»
Rimango sorpreso per un attimo, poi la rabbia ha il sopravvento, la rabbia e insieme una pietà che mi disgusta di me stesso. Stacco il mio corpo dalla testa di Andrea e lo colpisco sull’orecchio con la mano leggermente piegata a coppa, più e più volte. Lui si muove e lancia delle grida acute, come quelle di un uccello ferito o infuriato, poi si piega in avanti più che può, e allora lo prendo per i capelli proprio come quel giorno e gli tiro indietro di nuovo la testa, e lo colpisco così forte che la sedia si rovescia. Anch’io grido senza capire quello che dico, gridiamo tutti e due mentre lo prendo a calci come se lui fosse la mia vita che un giorno è diventata un lungo incubo fatto di carne, schifosa e oscena carne di uomo, e occhi senza quiete, e urla, e uomini e donne come cani, sì, come cani che ringhiano e piangono mentre li uccidi e ti mordono la mano mentre li soccorri.
Poi mi lascio cadere a terra, su quel pavimento lurido, la faccia vicinissima alla sua. Andrea ha tutti i lineamenti contratti – la bocca, la fronte, le guance gonfie e chiazzate di rosso e di viola.
«Non lo sai!» strillo per l’ultima volta, con una voce che non è più la mia. «Non lo sai cosa ti faranno!»
«Tanto mi ammazzerete lo stesso» riesce a dire lui, ma io vedo che gli ho fatto troppo male perché senta le proprie parole.
Appoggio la tempia al pavimento e chiudo gli occhi. Nella stanza si fa silenzio. Socchiudo gli occhi per un attimo, poi torno ad abbassare le palpebre.
Quante ore passate così, fianco a fianco sul letto dei miei ad ascoltare le cassette che ci registrava suo zio, il direttore della filarmonica, la gloria di quel paesino scalcinato. Bruckner, Wagner, Stravinskij, Debussy, tutto quel mondo nuovo che ci era venuto incontro e si era fatto conoscere, superando la noia degli inizi, la voglia di ritmo, di allegria, di ferocia, la voglia di un piacere più facile. Gli altri ragazzi non capivano, avevamo provato a far venire qualcuno ad ascoltare la musica con noi, almeno quelli che ci erano più simpatici, ma era stato inutile. Sempre più insieme, sempre più soli. Un paio di ragazze, sì, erano venute per la musica e per noi – ma naturalmente erano brutte. Le altre ascoltavano musica da ballo, e noi le disprezzavamo e intanto ci voltavamo sulla pancia e le sognavamo, premendo piano contro il materasso duro, le sognavamo ballare mentre Fafner e Fasolt costruivano il Valhalla fra immense mazze stamburanti e certe volte io mi mettevo a ridere, o era Andrea. Ridevamo piano, soffocavamo la risata nei cuscini, poi ci prendevamo a pugni mirando alle spalle e al petto, e avremmo dato qualsiasi cosa per averla in mezzo fra noi due, lì, ora, la più bella.
Allungo una mano per toccargli la faccia, ma è davvero molto gonfia. La mano rimase sospesa. Lui non la vede.
Scendo con la mano sulla spalla, e la appoggio piano. Lui ha un lieve fremito, fa per aprire gli occhi, ma non riesce.
«Resta così» gli dico a bassa voce. «Respira a fondo. Mi senti? Cerca di respirare con la pancia.»
Andrea prova a prendere un respiro profondo, lo fa tremando tutto come se questo gli costasse un grande sforzo, poi lascia uscire l’aria e una goccia di sangue gli cola da una narice, scende lungo la guancia e si ferma lì.
Anche il patto di sangue avevamo fatto. Ma certo. Con quel temperino mezzo arrugginito, la lama che sembrava quella di una sega in miniatura, e io mi ero preso una battuta da mia madre. Sorrido, al ricordo. Ma forse è solo un ghigno, ormai. Non sono più capace di sorridere. Il patto di sangue! E dire che a me faceva senso già allora, il sangue. Poi la mamma che mi insegue per tutta la casa con una ciabatta di gomma in mano. Suo padre, lo stesso. Per una settimana ci avevano impedito di vederci, e noi ci mandavamo i bigliettini come due fidanzati. Era suo zio che li portava da una casa all’altra, i biglietti. Nessuno avrebbe mai sospettato di lui… figuriamoci, il Maestro!
Stavolta rido davvero, un paio di sbuffi che sollevano polvere dal pavimento e gliela soffiano in faccia. Andrea arriccia il naso, il sangue riprende a colare. Prima gridava, adesso la polvere gli fa prudere il naso. Prima i calci, ora granelli di polvere, come una carezza. Mi sento svuotare.
«Andrea» lo chiamo, sempre a bassa voce.
Lui non risponde.
È da due anni e mezzo che sto nella milizia. Due anni e mezzo fra un mese. Abbasso gli occhi, come se mi rendessi conto solo ora di quanto tempo è passato da quel primo giorno. I soldati ci disprezzano come io e Andrea disprezzavamo quelli che ascoltavano la musica da ballo, ma siamo noi a fare il lavoro sporco, come questo. Due anni e mezzo. (Sì, mi sento svuotare. Le mie braccia sono vuote.) Da molto, molto più tempo non lo vedevo, Andrea. Forse da cinque anni. Avevamo litigato per una ragazza… proprio lei. La più bella. Ovvio, che finisse così.
Andrea apre gli occhi di colpo, quasi spaventandomi. Sono molto rossi. Non piange più, mi guarda e basta. La faccia è deformata dagli schiaffi che gli ho dato, perché ho picchiato più forte a destra.
Non so se sia il sangue che gli esce dal naso e si è di nuovo fermato, o la guancia tumefatta, o noi due sdraiati così per terra come due cretini, come se lui non stesse per venire torturato a morte, perché io lo conosco e so che non parlerà – è sempre stato un testone maledetto, anche con Anna se l’era voluta lui, si era impuntato su una questione di principio, stupido, idiota, stupido amico, e dire che lei amava te, ma improvvisamente era stata come una grande ondata di rancore, fra noi due, di odio accumulato per anni e anni, di cose non dette, di torti lasciati passare invece di affrontarli subito, lo vedo ancora uscire dalla stanza e chiudere la porta senza sbatterla, Anna lo chiama e io la prendo per un braccio e la fermo, poi il primo giorno, il secondo, e quasi di colpo è passato un anno: da un anno non ci vediamo e non ci sentiamo, allora io provo a telefonargli e lui è partito, sua madre taglia corto, deve avercela con me – e poi gli anni sono due, tre, quattro, tutto cambia intorno a me, lei non c’è più, ormai sono amico solo della paura, la mia e quella degli altri, e ieri portano qui tre prigionieri incappucciati e prima ancora che gli tolgano dalla testa quello straccio ho già capito che è lui, forse il corpo, forse le mani, so già cosa vedrò e giuro, lo giuro su Dio, so già cosa farò, chiederò di interrogarlo io, perché non voglio che siano loro a toccarlo. Ma io adesso non lo toccherò più.
No, non so se sia il sangue o la guancia gonfia o i ricordi o noi due sdraiati, oppure tutto quello che ho fatto e visto da quando sono qui, ma io non ti toccherò più. Andrea. Non so cosa succederà, perché loro verranno presto. Una calma che non conosco mi riempie a poco a poco. Mi fa quasi paura.
Sento già aprirsi una porta, in fondo al corridoio. Guardo l’orologio. Arrivano, Andrea. Ha richiuso gli occhi.
«Arrivano, Andrea.»
Ascoltami, idiota! Stanno arrivando!
«Andrea!»
Muove le labbra come se avesse sete. Ma certo che ha sete. Tutti chiedono da bere, dopo un po’. Un giorno una donna ne ha morsa un’altra sul seno, era il prezzo per avere un bicchiere d’acqua, continuava a morderla e il capitano rideva più di me e più di tutti. Il capitano sta arrivando, ora. La riconoscerei dovunque, questa voce.
«Andrea! Mi senti?»
«Va’… all’inferno…»
Rimango ancora un attimo a guardarlo, mentre i passi risuonano ormai appena fuori dalla porta. Andrea, Andrea. Ce l’ho davanti agli occhi, tutto, quello che ti faranno.
Poi smetto di pensare.
Smetto di pensare, all’improvviso.
La calma è totale, adesso, e la mia mente non c’è più. Niente pensieri, e niente ricordi. Bussano forte alla porta.
Mi alzo. La porta è chiusa a chiave dall’interno. Apro.
«Allora?»
Sono venuti tutti e tre, il capitano e i suoi due maiali tirapiedi. Stranamente grassi, stranamente simili. Li guardo come se li vedessi per la prima volta. Il capitano ha una bella faccia, ma è davvero molto grasso. Ora abbassa lo sguardo su Andrea, che ha aperto gli occhi.
«Allora, questo povero scemo?» Il capitano si volta verso di me. Io non rispondo. Lui ghigna. «Niente? E sì che ti sei dato da fare. Mmh?»
«Magari non abbastanza» dice uno dei maiali. L’altro ride.
Chiudo la porta e ci appoggio la schiena. I due maiali sollevano Andrea, lo mettono dritto.
«Va’ a mangiare» dice il capitano, senza nemmeno guardarmi. «Ci pensiamo noi, qui.» Si volta verso uno dei due e accenna alla rete metallica, nell’angolo. «Là» dice. «Lo facciamo ballare un po’. Eh? Ti piace ballare? Balli con le ragazzine, tu?»
La faccia di Andrea rimbalza indietro, colpita dal pugno del capitano. I due maiali cominciano a slegarlo dalla sedia. Quando si piegano, il grasso trabocca dai loro fianchi e gonfia le camicie. Andrea tiene gli occhi chiusi.
«Di’, sveglia!» alza la voce il capitano, poi scende con la mano e fa qualcosa. Andrea grida. Ormai è quasi slegato. Ecco, ora è libero. I due maiali lo sollevano di peso per portarlo sulla rete. Il capitano si volta e mi guarda. «Va’ a mangiare, ti ho detto» ripete, e si ravvia i capelli.
Il primo colpo lo prende alla pancia, e l’esplosione è assordante. I maiali lasciano cadere Andrea mentre il secondo colpo apre un buco nella fronte del capitano, che crolla in avanti. Ho un sibilo tremendo nelle orecchie. Il maiale più vicino cerca di estrarre la pistola, ma io ho fatto due passi avanti e lo prendo in pieno alla gola, poi subito l’altro, due colpi, uno sulla mammella destra e uno sotto la sinistra. L’automatica sobbalza nella mia mano. Il maiale allarga le braccia e cade sul pavimento. La sua testa urta le gambe del capitano.
Ora c’è fumo, qui dentro, e un odore diverso. Andrea ha aperto gli occhi fin dal primo colpo, e mi guarda. Io forse sorrido, non lo so. Il capitano e i due maiali sono carne morta sul pavimento. Andrea dice qualcosa che non sento.
Mi porto la pistola alla bocca, lecco il metallo, annuso la polvere da sparo. Scuoto la testa una, due volte.
Devo svegliarmi. Devo rimettermi a pensare, e in fretta.
Perché credo proprio che adesso bisognerà trovare un modo per uscire tutti e due da qui.
I commenti a questo post sono chiusi
Ritrovare il filo che passa attraverso “dei maiali” sembra non sia cosa da poco… Alcuni particolari sono raccapriccianti siano veri o semplice frutto di fantasia letteraria. Realismo gratuito.
Che sia un monito alle nostre battaglie, soprattutto quelle sommerse, non solo nei campi di battaglia teatro dei nostri telegiornali, ma nei rapporti quotidiani ormai diventati sempre più precari e difficili.
Bravo Raul Montanari.
Forte, intenso, inquietante.
Il filo, almeno per quello che mi riguarda, per quello che penso io è quella linea sottile che tutti noi percorriamo fra la gioia e il dolore, la salute e la malattia, fra la rabbia e la rassegnazione, fra il lasciarsi trascinare e il tenersi saldi, il rimanere aggrappati alle paratie stagne per evitare l’inondazione degli spazi comuni. Il filo per me è uno spazio al confine fra la noia, la nevrosi e il tenersi uniti e abbracciati alle persone che ci vogliono bene e alle quali vogliamo bene . Il filo infine per me è uno spazio al confine fra la realtà e il regno della fantasia, come un evento piccolo e casuale può determinare anche solo in una telefonata o un qualunque evento insignifciante ampi spazi coloratissimi o grigio-scuri di pura invenzione. Molto meglio quando il filo è ritrovato, bravo Raul Montanari.
Bellissimo.