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les nouveaux réalistes: Emmanuele Bianco

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Acconciature

di

Emmanuele Bianco

Non era solo per i cinquant’anni di acqua, sole e vento; per il fascino di una cosa che invecchia con sfrontatezza, per una nota di armonia acidognola rimasta sotto la pelle del rione, né per quell’angolo, girato il quale si staglia, come un bambino smascherato, l’anfiteatro Flavio; e né, tantomeno, per l’atmosfera da limbo romantico di passeggiatine nei vicoli che furono di ubriaconi, cantinieri, ladri, puttane e schiavi. Non era solo per quell’insegna – Antonio acconciature per signora – tirata a lucido tutti i lunedì pomeriggio da un ragazzino senza voglia di studiare, forse neanche per la sedia imbottita che sembrava una chiave appena fuori dal salone. S’incazzava e bestemmiava, il mite Antonio, se qualcuno s’azzardava a chiamarlo negozio o, più nobilmente, bottega. A dispetto delle sue venti sigarette quotidiane le analisi del sangue non avevano neanche un asterisco e i suoi dieci decimi erano una provocazione ai quasi ottant’anni. Antonio era lì, fuori dal proprio salone, dal 1968. E prima, da quando era un ragazzino, gironzolava nei vicoli del rione e intorno a suo padre. Era lì quando gli americani cagarono due stronzi atomici a Hiroshima e Nagasaki, e sempre lì quando le signore più audaci entravano nel salone con una foto di Marylin Monroe, Audrey Hepburn o Gina Lollobrigida e si abbandonavano – Virgilio mio bello me devi fa na goccia d’acqua uguale uguale a Marylin… che c’assomiglio ‘n po’, ve’? – all’arte paziente del padre.

 

Ricorda perfettamente quando nell’immediato dopo Beatles il vecchio Virgilio, suo padre, si mise a studiare le acconciature afro: treccine, rasta, permanenti esagerate. Era la seconda metà dei settanta e Bob Marley rivoluzionò il mondo ammettendo di aver sparato allo sceriffo, dicendo alle donne di non piangere e cantando libertà e redenzione. Le donne entravano nel salone cercando più che altro consigli su come sembrare il più hippies possibile senza beccarsi pulci e pidocchi. Poi Virgilio morì, ma fu una bella morte: di vecchiaia, senza sofferenza, con tutta la famiglia intorno e un bel funerale nella chiesetta poco distante dal salone. Antonio e gli anni ottanta si ritrovarono da soli, in un abbraccio che provava a far finta di niente. Il rione cambiava pelle per l’ennesima volta. La società pacifista, gli spinelli, gli acidi e le adunate rock subirono una scissione. Con gli anni ottanta i vicoli del rione si popolarono di punk e yuppies. Nel salone entravano donne di ogni rango: col mito di Wall Street, di una parata militare o delle tribù Mohawk. Antonio passava le giornate ad agghindare chiome con fasce colorate, a cotonare lunghissimi capelli in onde sinuose, a spennacchiare folte criniere per farle assomigliare a una palma da cocco, a rasare e colorare di rosa, verde, blu, ciuffetti di capelli: segnali di una resistenza urbana fatta di cultura e controcultura.

 

Fu in quel periodo, con qualche anno di ritardo, che Antonio s’innamorò di Linda e, senza rendersene conto, in un anno si trovò sposato con una figlia di tre mesi piuttosto bellina e dall’indole quieta. La piccola Sara viveva la sua infanzia dando fondo agli anni ottanta, in un quartiere di Roma che stava per diventare la roccaforte dell’aristocrazia fricchettona, del cambio generazionale di vecchie e solide borghesie. Fu in prima media che ebbe il suo primo vero confronto col padre – ma non capisci, non è sciatteria è stile – e fu dentro al salone, mentre Antonio massaggiava sapientemente la cute della figlia. Gli anni novanta furono dei tossici: i Nirvana e la campagna Obsession di Calvin Klein proclamarono Kurt Cobain e Kate Moss re e regina di un impero che sembrava iniziato col boom degli anni cinquanta, sembrava aver resistito ai settanta e rinato negli ottanta, salvo poi capire che l’unico vero impero era finito qualche centinaio d’anni dopo Cristo e pazienza per la rassegnazione nostalgica e rabbiosa dei fascisti se poi made in Italy significava evadere il fisco. Gli anni novanta furono gli anni delle teste a lampadina. Tutte volevano essere bionde, anche i ragazzi, al mare, si schiarivano i capelli con la birra. In periferia tanti si versarono bocce di acqua ossigenata in testa. La legge, quella sì era uguale per tutti: ogni tonalità di biondo, ricrescita di un paio di centimetri all’attaccatura, occhiaie, pallore, tuta di felpa e All Star. Gli 883 spopolavano e più che a Max Pezzali molti si appassionarono alla figura del biondino mezzo matto. Si scivolò lentamente verso gli anni zero. La multinazionale Nike assunse il ruolo di comando al timone di generazioni di adolescenti. Ormai la moda non la dettavano più i tempi ma i testimonial. Non più la società, le guerre, la musica ma ricchissimi personaggi sportivi.
Ora Antonio siede sulla sedia imbottita a forma di chiave fuori dal proprio salone, sua figlia Sara ha ormai quasi quarant’anni, sua moglie Lidia sta al cimitero di Prima Porta nel settore nuovo, quello fatto di palazzine a tre piani che sembrano condomini senza ascensori. Non ha voluto imparare il mestiere del padre ed è rimasta senza lavoro. Adesso è Antonio il vecchio. Guarda il rione, è tutto cambiato. I giovani calzano scarpe da barca sui sanpietrini sconnessi, sembrano essere sempre pronti alla pesca delle vongole; hanno barbe lunghissime come se dovessero nasconderci qualcosa o nascondersi da qualcuno. Ora i giovani del suo rione praticano il buddismo, in alcuni casi, gli avanguardisti, studiano per diventare imàm di qualche moschea. Oggi i trentenni e i quarantenni del rione fanno aperitivi biologici a chilometro zero, mangiano solo frutta e verdura, i più estremi solo frutta caduta dall’albero, quindi non uccisa. Oggi questi giovani si muovono per la città con biciclette senza cambio, come Gianni Morandi nei suoi musicarelli. Hanno cellulari fuori moda, passano molto tempo a leggere poeti francesi e a ricordarne le migliori citazioni, si lamentano della vita veloce alla quale possono permettersi di sottrarsi, comprano orrendi abiti usati ma mai per necessità, infatti li pagano tre volte il loro valore, si agghindano di chincaglierie etniche purché artigianato comprato in loco, vanno lunghi di tre o quattro anni fuori corso per una laurea al Dams o Scienze politiche – no materie scientifiche, no medicina, no robe troppo impegnative – e quando non ci vanno, comunque, il lavoro inteso come stress, fatica, problemi a pioggia e salario sindacale non è tra le loro priorità e tuttavia mai, in nessun caso, rientra tra le loro esigenze primarie.

 

I giovani che vivono il rione del vecchio Antonio, ormai, arricciano tabacco e guai a trovarne uno con una sigaretta confezionata dalle orride multinazionali. Sognano per lo più di scrivere e dirigere e a tal proposito è difficile beccarli in giro senza che nelle tasche bucate delle loro giacche di tweed non ci sia un’agendina – in genere moleskine ma, in alternativa, qualche accozzaglia di fogli alla rinfusa purché riciclati e ciclostilati in un artigianalissimo handmade di cuoio – per non perdere la suggestione di un attimo folgorante e rielaborarlo con il genio di Proust o la capacità indagatoria di Dostoevskij, abbozzare piani sequenza alla Sokurov o movimenti di macchina alla Hitchcock o alla Kubrick. Questi strani giovani che il vecchio Antonio osserva ormai da anni non hanno la televisione, guardano ciò che gli interessa direttamente online, non seguono il calcio, sono apparentemente poco attenti all’estetica, non indossano profumi – anzi! – non cucinano, si lavano il giusto indispensabile, parlano dei loro viaggi in Cambogia, Vietnam e Laos dove la vita costa pochissimo, dove tutti sono poverissimi e vivono nelle baracche ma sono anche tutti tanto felici ed è lì, esattamente lì, che si sono sentiti vivi per la prima volta – ma pensa che vita de merda, aveva rimuginato più volte Antonio parlando con qualcuno di loro. Pretendono di avere un’idea su tutto forti del loro punto di vista che non è né di conoscenza né di esperienza ma piuttosto un banale e sciatto indottrinamento che li conforma nell’indipendenza di una riserva. Scambiano sorsate di sangue fresco con gelati trovati per terra perché la loro battaglia assomiglia più a quella di un bambino capriccioso che a quella di un vampiro sotto mentite spoglie. Non hanno un conto in banca – tutt’al più banca etica – ma erediteranno un minimo di tre case che sfiorano il milione l’una, girano senza soldi ma come lo faceva l’avvocato Agnelli, credono in una società più giusta ma il 740 del papi fa acqua da tutte le parti.

 

Antonio guarda tutto questo, si mette seduto fuori dal salone e prova a capire quest’ennesimo avvicendamento del rione. È rimasto solo, non ha più alleati con i quali passare la giornata, le clienti sono calate e i bottegai storici sono sotto terra, o su qualche panchina. Staccò un pezzetto del proprio cuore il giorno che attaccò il cartello vendesi fuori dal salone. Pensò che forse, a conti fatti, il cuore manco gli sarebbe più servito appena due settimane dopo quando, come sciacalli acquattati tra le fronde della crisi, molti di questi strani nuovi giovani avevano sventagliato proposte, contanti e fideiussioni bancarie. Antonio ora deve pensare a Sara, lui la sua vita l’ha fatta. E anche il mio rione, pensa con un certo orgoglio, ce ne andiamo insieme. Se cercate borse di pelle cucite a mano, scarpe fabbricate nel pieno rispetto di qualunque cosa e camicie su misura; se il vostro motto è – come quello dei giovani abitanti del rione – “i soldi non mi servono” allora andate in quello che era il salone Antonio acconciature per signora. Vi offriranno un bicchiere di vino biologico, dei crostini di pane di segale con salsa di verdure e vi regaleranno un libro usato, a patto che facciate altrettanto.

Dopo sta mostra potemo annà a vedè sto negozietto nuovo che ha aperto.
– Daje sì. Oh ma sta mostra de che è?
– Boh, tipo de un ragazzino che dipinge tutte cose strane d’alienazione, sangue, nudi, tormento.
– Mah…
– Daje, n’amo che nun ce sarà nessuno.
– Daje!

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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