La laica religione (1/2)
di Giacomo Sartori
Per tutta la settimana
David ha contato i lombrichi
e Miguela la spagnola
ha spigolato fogliami fracidi
per la metagenomica
io misuravo con Brad
gli abeti schiantati
ma anche le ceppaie
dei larici tagliati
in linda decomposizione
(niente colamenti viscidi
niente miasmi ammonitori)
e i singoli rami
con più di sei centimetri di diametro
su una lunghezza di almeno un metro
inginocchiato sul letto di foglie
con le sue braccia di anziano
puntate contro i muschi
come per schiacciare giù
nel suo cunicolo ctonio
la nuca di un demonio
Hinrich infilava
il campionatore inossidabile
di sua concezione
nella resiliente lettiera
(camposanto esuberante
di rigogliose putrescenze)
e poi lo sfilava
accogliendolo nel palmo
con materna determinazione
(l’ostetrica che asseconda
un enigmatico neonato)
la piccola Rebecca
dissotterrava i sensori miniaturizzati
tonde ostie elettroniche
e seppelliva quelli nuovi
tutti prelevavamo
tutti misuravamo
ebbri di deduzioni
manifestamente sollevati
di batterci contro nemici
con nome e cognome
un’esistenza algebrica
(adesso era solo questione
di rigore modellistico
e puntelli bibliografici)
Per tutta la settimana
David il cercatore d’oro
darwiniano efebo
ha setacciato la terra fresca
braccando vermi ialini
e Miguela la galiziana
ha insacchettato resti infeltriti
Judith mi spiegava
l’importanza di discernere
il DNA cellulare
da quello extracellulare
anche tu un giorno
diventerai DNA extracellulare
m’ha detto
per farmi capire
(microbiologica ironia)
con guanti da chirurgo
e guaiti di bambola
la turgida tirolesina
anatomizzava marciumi
tutti classificavamo
e prelevavamo
seri come solo
i bambini che giocano
ma anche faceti
eravamo pur sempre umani
che si inebriano
e ridono
e quando è l’ora
hanno appetito
(addentando i panini
semisdraiati a nostro agio
sulle foglie morte
enfatizzavamo anzi
questo nostro essere
babelici bipedi)
I lombrichi erano pochi
com’era congruente
in siffatti ecotoni
David li battezzava nell’etanolo
(pur sempre un tuffo sacrificale
avrebbe commentato
un etnologo tecnofobico)
mentre io e Brad il colosso
attribuivamo la classe
di decomposizione
– da uno a cinque –
ai legni sfatti
(soffice spugna scarlatta
sfarzoso tramonto
prima della notte minerale)
comunicando nel rituale
inglese maccheronico
Nico il micologo
levando la mano
senza un dito
consacrava basidiomiceti
con sincopati gorgheggi
di imberbe sapiente
Quantizzato il legno morto
(in realtà quasi tutta
la carne secca
degli alberi viventi
è già defunta
m’ha fatto presente
l’enciclopedico ecofisiologo
con problemi di linea)
io campionavo
feci quasi invisibili
bella e pulita
polvere di caffè
etichettavo sacchetti
georeferenziavo e fotografavo
come sempre allettato
in qualche modo riconciliato
con gli spettri e l’universo
ma anche surrettiziamente furente
alienato da me stesso
stizzito dal mio stare a mezzo
(passi l’ignoranza)
un malessere di impostura
una sorda brama di altro
di trasparenza interiore
di fusione nel silenzio
(o quantomeno
di redimente bellezza)
Tutti quantificavamo
e campionavamo
in vista di anamnesi
ben più radicali
in asettiche cattedrali
con sacerdotali macchinari
quelle foreste e quei pietrami
foderati di muschi
quelle felci devote
(i palmi imploranti
le teste reclinate)
quelle bave ferruginose
e perfino quei grovigli spinosi
quella scompaginata realtà
bella e incomprensibile
spurgata dalle sue divinità
ormai da decenni
(senza contare i secoli
di formalismo cattolico)
l’avremmo transustanziata
in processioni di nere cifre
e dottrinari grafici
su claustrali riviste specializzate
canoni matematici
della decomposizione dell’organico
(essenza di quello che accade)
vangeli certo provvisori
e perfettibili
e proprio per questo più sacri
(spalancati all’assoluto)
pur sempre scampoli divini
ai quali votarsi
Fu allora che vidi la doppia ombra galleggiare tra gli estremi rinvenendo nella notte come una guerriera scalza dai piedi palmati
vangeli certo provvisori
e perfettibili
e proprio per questo più sacri
?