les nouveaux réalistes: Luca Ricci
L’ultimo uomo di Roma
di Luca Ricci
Per La nuit di Guy de Maupassant
Un giorno assolato può inquietare quanto la notte più nera . Mi svegliai a quell’ora in cui l’oscurità non ha ancora ceduto il passo alla luce: un brutto sogno, o forse un cattivo presentimento. E’ strano, pensai. Di mattina presto anche il caldo più accanito concede una piccola tregua. Invece sdraiato sul letto vedevo sorgere un sole turgido di fuoco, fissavo un’alba incandescente che faceva sudare come a mezzogiorno. Decisi di uscire perché in casa mi sembrava d’impazzire. Che ore potevano essere? Le sette, le otto?
Per strada, la prima cosa che notai fu la penosa e straordinaria assenza di vita. D’estate è normale che la città sia un po’ meno caotica, ma lo spettacolo a cui stavo assistendo era di tutt’altra natura: d’improvviso mi parve di essere l’unico uomo che stava percorrendo piazza Cavour. Il caldo era terribile. Non si trattava soltanto di afa- in fondo chiunque abiti a Roma è avvezzo al suo inconfondibile microclima tropicale-, piuttosto di un caldo che prendeva i nervi, che diventava qualcosa d’angoscioso. Procedevo accecato dalla luce sul lato sinistro della piazza. Davanti a me, come un miraggio, si ergeva la facciata bianchissima della chiesa Valdese, un puntino sperso nell’asfalto che già ribolliva e s’incollava alle suole delle scarpe. Sul lato opposto il retro del Palazzaccio scorreva lentamente, al ritmo dei miei passi esitanti.
Camminai fino a piazza del Popolo. Attraversarla mi parve un’impresa al di sopra delle mie possibilità- un po’ come affrontare il Sahara-, perciò mi limitai a percorrerne il perimetro fino a via del Corso. Le serrande dei negozi erano tutte abbassate, così riflettei che doveva essere ancora molto presto. Eppure il caldo si depositava sulle cose come uno strato di polvere.
A piazza Venezia l’Altare della Patria era abbandonato a se stesso, non un passante, non un turista, non un’automobile. D’improvviso ebbi una furibonda nostalgia di tutto ciò che di solito detestavo: mi mancò perfino il pizzardone che in genere dirigeva il traffico sopra la pedana. Mi affacciai sui Fori Imperiali giusto il tempo per intravedere il Colosseo immerso nei vapori bollenti. Sembrava un vulcano, o uno scolapasta. Ma dov’erano tutti?
Al Quirinale incontrerò almeno i corazzieri di picchetto al Presidente, mi dissi. Sapevo che per essere presi in quel reggimento speciale bisognava essere alti almeno un metro e novanta, e da un momento all’altro mi aspettai di vedere baluginare un elmetto tirato a lucido. Ma niente, a presiedere il palazzo erano rimaste solo le bandiere d’ordinanza- il tricolore e il vessillo dell’Unione Europea-, afflosciate come fiori senz’acqua. Scrollai la testa e proseguii.
A via Veneto i bar erano tutti inesorabilmente chiusi, con le sedie incatenate una sopra l’altra vicino agli ingressi sprangati. Dagli hotel di lusso non usciva o entrava nessuno, e non c’era l’ombra neanche di un facchino.
Mi ributtai a capofitto nel dedalo di stradine del centro storico. Da quando ero uscito non avevo ancora incontrato anima viva, possibile? Certamente d’estate esisteva una sorta di sospensione temporale nel bel mezzo della giornata, un particolare coprifuoco pomeridiano che spopolava la città, ma non era ancora presto, troppo presto?
Improvvisamente avvertii un rumore inconfondibile. L’allegro getto d’acqua di un nasone, una di quelle fontanelle di cui Roma è tappezzata, e che rappresentano il suo sistema idro-vascolare segreto, ciò che le permette di sopravvivere nei giorni di canicola. Sentivo distintamente lo scroscio d’acqua, non poteva essere a più di qualche passo… Non trovai niente di niente, forse mi persi, cominciai a girare a vuoto.
Di sicuro avevo preso un colpo di sole, avrei dovuto rincasare. Poi mi resi conto che ero arrivato proprio nei paraggi dell’abitazione di un mio caro amico. Chiederò riparo a lui, mi dissi. Una volta che ebbi raggiunto il portone, però, notai un cartello con su scritto “Affitasi”. Come se non bastasse il palazzo sembrava aver subito un cedimento strutturale, e una ragnatela di crepe si stendeva da finestra a finestra. Ero stato a cena da quell’amico giusto un paio di settimane prima, e la casa mi era sembrata fresca e ospitale, e per di più non avevamo parlato di un suo imminente trasloco. Che mi fossi confuso, che avessi sbagliato strada?
Ma ormai mi era presa come una smania, la voglia di sapere di non essere solo. Cominciai a bussare a tutte le porte che circondavano piazza Santa Maria in Trastevere. Nessuno mi aprì, tutto rimase ostinatamente chiuso, ostinatamente inaccessibile, ostinatamente morto. D’istinto presi il cellulare e chiamai mia moglie e mio figlio. Erano già partiti per le vacanze e io avrei dovuto raggiungerli quella sera stessa. Niente, i loro cellulari erano staccati.
Nel frattempo il caldo, se possibile, si era fatto ancora più minaccioso. Sentii, o mi parve di sentire, il rumore di un altro nasone, ma ancora una volta non riuscii a trovarlo. Volli sapere se almeno l’acqua del Tevere scorresse ancora. Raggiunsi il fiume, scesi le scale. Sarei stato pronto a tutto, anche a buttarmici dentro.
Poi, dal basso, intravidi il chiosco di un venditore di grattachecche che apriva i battenti. Mi rianimò il colore delle varie bottiglie di sciroppo- la menta verde d’un verde smeraldo, la fragola rossa d’un rosso rubino, il limone giallo d’un giallo canarino-, e allora urlai: – Cos’è successo a Roma?
Il grattacheccaro si sporse un poco dal muraglione: – Dotto’ che vole che sia successo, stai sereno, oggi è feragosto.
*Questo racconto è uscito per la prima volta sul Messaggero.it mercoledì 15 agosto 2012
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E’ ancora così? Forse Roma non si svuota più neanche di Ferragosto.
L’ultimo romano non è colui che vive circondato da altri gruppi etnici?
http://www.cronacheurbane.it/2014/04/07/lultimo-romano-torpignattara/