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Due testi per scopare il mare

di Davide Orecchio

I'm a donkey
A.

La portiera m’ha detto che presto questa mattina uno stormo di neonati ha preso il volo e che «migravano al Nord». Capita solo nel mio quartiere, difatti è dal tetto di questo palazzo che han decollato, metà di loro con le piume corvine, l’altra metà dalle penne di latte. «Erano trenta, forse quaranta». Il capo era biondo col piumaggio nero e gli altri lo chiamavano (perché si parlavano) Orca, anche Horcynus Orca. Lui ha fatto colazione col Campari e l’Ovomaltina e mezza rosetta spalmata di burro con lo zucchero sopra. Stavano tra la pece, la malta, le erbacce e le muffe che crescono intorno a comignoli e antenne dov’era stato il loro bivacco, credo per diversi giorni. Ma io sulla testa non li avevo sentiti. Era un bivacco lieve di levitazione. Scarabocchiavano disegni sul muro, m’ha detto la donna, per lo più padri simili ad alci e madri tondissime, e nuvole gonfie. Mangiavano biscotti col cioccolato, scaglie di cioccolata, pollo nel sugo rosso di cioccolato. Un paio di volte hanno intonato un coro da branco per darsi coraggio e il canto spargeva una storia come acqua tirata dal pozzo, la fiaba lontana del dadoveveniamo e doveandiamo. Erano seri. Avrebbero potuto esser padri, più che figli neonati. Horcynus era il silenzioso di loro ma al mattino, dopo lo zucchero il burro e il Campari, ha detto: «Adesso si va per non finirecrepàti in questodeserto abbiamo un mese abbiamo cent’anni ne abbiamo duecento senz’aver creato nulla le storie cipèsano la storia ciopprìme» Ha fatto una puzza e poi s’è librato. Nell’attesa degli altri, cui dava il la, s’è divertito con le capriole, ha impaurito un gatto, schiaffeggiato un’antenna, svolazzato tra i tappeti stesi lassù, i cavi di rame e di plastica. «I gabbiani non lo spaventavano e per questo era il capo», suggerisce la portiera che qui vicino m’imbecca (forse è gabbiana?), «allora gli altri si sono rizzati e l’hanno raggiunto», e tutti insieme hanno infilzato le nuvole. Ora sono lontani. Giusto uno stormo di neonati può volare lontano così. Credo vadano talmente veloci da precedere la vita assegnata, ossia che superino le biografie e quanto faranno e in chi cresceranno; già lo sono e lo fanno, prima di esserlo; perché rapidissimi. Hanno attitudini da troposfera, forse da sprawl. Con la donna poi sono sceso in cantina, non so il motivo, a pernottare in eterno, e qui ho scoperto che lei dev’essere un geco: succhia zanzare, ne fa cacchette, non è gabbiana ma è un rettile, e mi accompagna – succhia zanzare, ne fa cacchette, non è gabbiana ma è un rettile, e mi accompagna – succhia zanzare, ne fa cacchette, non è gabbiana ma è un rettile, e mi accompagna (ad libitum)…

Entri in scena la compagnia che rappresenta i miei sogni. In un teatro di provincia della psiche, ed è notte. Palco e sedili sono di sughero. Il sipario è di carta di riso. Il primattore è il suggeritore. Il regista vende i biglietti. I personaggi appariranno stonati, sfocati. Non loro. Loro. Non il mio gatto. Il mio gatto. Non l’amica, la madre, il padre. L’amica, la madre, il padre. La piccola compagnia non s’immedesima né strania, piuttosto usa il metodo dell’impaludarsi. Gli attori anche sono di sughero. Gli abiti di scena son sugherati. Gli attori in realtà sono di soia. È noto che la soia è doppiogiochista. La soia è capace di sembrare un hamburger (non è un hamburger). Nella periferia dei teatri dei sogni, dov’è in scena il mio sogno, la soia è il gatto, l’amica, il padre, la madre. Ma la soia non è il gatto né il padre. Materna non sarà mai, la soia. Sospetto che il primattore, il suggeritore, sia di sushi; il più falso dei cibi. Non puoi impersonare il padre col riso, le alghe, il mirin, il salmone. Il padre era crudo, ma non così crudo. La compagnia si condanna indigeribile alla periferia dei teatri dei sogni. In città non ci arriva. Reciterà per sempre tra i sugheri. Questa notte, domani notte e poi ancora. Col sapore di soia da filodrammatica. Nel più parrocchiale dei sogni, io non crederò al mio ennesimo sogno. Vedo la toga del prete. Vedo la gonna al ginocchio della parrocchiana. Sughero, soia, sushi? Compagnia, la vita passa per la cartilagine, le ossa, la carne. Non sei verosimile. Compagnia dei miei sogni: vuoi debuttare in città?, vuoi i sedili di stoffa?, il velluto al sipario? Prova a convincermi. La verità può convincere, e indossa la carne. Qui c’è il tuo impresario, il tuo pubblico, io. Mostrami il gatto. Il gatto davvero.

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2 Commenti

    • Siamo anche nei paraggi dell’inutilità e gratuità (in quel senso il titolo). Senz’altro a briglia sciolta. Mi capita di esercitarmi nel dare voce a certe fantasie o figure dell’immaginazione. L’unica disciplina che tento (qui non a briglia sciolta) sta nella forma e nel ritmo. Ma si tratta di roba per pochi intimi. Post agostano. Quindi grazie per aver letto e commentato.

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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