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les nouveaux réalistes: Silvia Tessitore

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Tre ragazze – per me – posson bastare

di

Silvia Tessitore

Il vento riscattava assai blandamente la calura. Giorno da cani e gatti all’ombra, sieste messicane e state in casa, bevete molto, mangiate frutta e verdura, evitate sforzi inutili. Avrebbero potuto fermarsi ancora un poco e invece ripartirono, le guaglione, con pane e salame e una bottiglia d’acqua fresca per sciropparsi altri quattrocento chilometri sotto un sole assassino, dopo quelli dell’andata.

Tre giorni e due notti, un distillato di salvezza.

Tre giorni e due notti, un’autentica bellezza.

Erano i giorni dell’uccello di fuoco (avevano spesso sfidato per me piene, alluvioni, neve e altri disastri meteorologici), ma anche quella volta i miei tentativi di convincerle a trattenersi, a concedere parca revoca ai rispettivi impegni familiari, furono perfettamente inutili. Neanche il paradiso dove vivevo pro tempore le convinse, come potevano riuscirci le mie povere forze? per giunta fiaccate – seppure in modo non grave – da una fresca crisi di rigetto verso un ospite che s’era rivelato assai meno squisito di quanto ambisse credere e mostrarsi, e che subito fu ribattezzato – per allegra brevità – ‘o malommo.

Tre giorni e due notti, cólte e sul più bello.

Tre giorni e due notti, e chest’ va per chéll’.

 

Il loro arrivo era già programmato ma cadde, di grazia, a ridosso della partenza di costui. Morale della favola, la mia piccola pena fu sanata la prima sera, nel corso di un seminario – promosso da Mela e illuminato da Kant, varie candele e molte stelle – dal titolo “Il nostro tempo migliore deve ancora venire”. La discussione fu corroborata dalle più recenti scoperte neuroscientifiche sul cervello nell’età di mezzo, dai nostri duecentosedici anni di saggezza complessiva, da un’apprezzata insalatina di pollo e da un generoso gewurtztraminer alsaziano, tredici gradi e mezzo di puro vigore. Tutti e quattro i colon subirono il colpo, ma reagirono come sempre con coraggio.

Tre giorni e due notti sfidammo gli anticicloni.

Tre giorni e due notti, insidiate – per giunta – da grossi calabroni.

culture-lego-prolonge-trois-jours-30Le nostre infinite colazioni – più che altro, veri e propri brunch – erano il momento della giornata che preferivo, quando eravamo insieme. Chi si alzava per prima stava attenta a non svegliare le altre – Tetta era l’unica a non dare pensiero, coi tappi nelle orecchie non la svegliavi manco coi Pink Floyd a palla. Ciascuna col proprio rituale e le proprie preferenze, ci sedevamo in ordine di levata attorno a un tavolo ed eravamo capaci a restarci per ore. Così facemmo la mattina dopo e quella dopo ancora, in terrazza. Teneva banco il muesli bio che avevo comprato per il mio ospite – dopo averne sondato preventivamente gusti e abitudini (mendaci) – e che il mio ospite, signorilmente, non aveva degnato di alcun interesse: a Nadia piacque tanto, sbolognai due pacchi interi a quella cara donna, regular e alla frutta secca. Io odio il muesli.

Tre giorni e due notti segnarono un passaggio.

Tre giorni e due notti mutarono il paesaggio.

Conoscendo e bene, invece, i gusti delle guaglione, li assecondavo. Avevo comprato dei bei borlotti freschi per farne una zuppa, che sicuramente avrebbero gradito. Mentre ancora fuori girava del caffè e qualcuna già addentava una fresella, i fagioli furono cucinati – per la sera, con pomodoro fresco, aglio vestito e abbondante fiore di finocchio selvatico, che rilasciò un aroma soave, più d’un incenso. Nadia, vestale premurosa, sparecchiava, puliva, lavava, rigovernava la nostra pigrizia. Il prezioso Olio degli Angeli, dalla spiccata fragranza d’agrumi, fu mescolato all’olio di mandorle dolci e – dopo un giro di docce – ci avvolse tutt’e quattro come un balsamo. Concludemmo la mattinata a mozzarella e pomodori, col pane casertano – nostra madeleine, e ci appropinquammo alle brande per la pennica.

Tre giorni e due notti di letizia.

Tre giorni e due notti per rinsaldare, ancora, l’amicizia.

Mela e Nadia, compagne di viaggi intorno al mondo, divisero la camera padronale. Tetta e io il lettone che avevo allestito nel mio studio. Mafalda, la mia gatta, s’infilò tra di noi e accompagnò le nostre chiacchiere col solito repertorio di effusioni. Si resisteva a stento al clima impietoso, malgrado fossimo a 700 metri d’altitudine, quell’estate i meteorologi identificavano le “holas de calor”, come le chiamano in Galizia, con nomi minacciosi e temibili – da Caronte a Nerone, per la sola gioia dei turnisti delle redazioni giornalistiche. In quei giorni imperversava Lucifero, il più insidioso tra i drammi di stagione. Mela, insofferente alla temperatura della controra, piazzò uno dei miei lettini da spiaggia all’incrocio di due finestre, nella stanza di mezzo, e ogni tanto minacciava di chiamare la madre superiora per ristabilire l’ordine in camerata. Ci mettemmo a bisbigliare per non disturbarla, pian piano Tetta si addormentò, io no – avevo perso il sonno.

Tre giorni e due notti ci cullammo, affettuose, nell’ozio.

Tre giorni e due notti, al tramonto una luce topazio.

Tetta – la più vispa di noi, non c’è che dire – avrebbe sfidato il caldo fin dal mattino, pur di uscire. Solo l’opposizione compatta di noialtre l’aveva convinta a desistere, a condizione però che la sera saremmo andate a Talla per un aperitivo. Ma il vicino di casa si fece scappare di una certa qual fiera in un posto a valle e quindi decidemmo di andare a vedere: ma senza fretta. Il posto a valle era Capolona, e non entrava nella testa di Mela: lo chiamava Casalnuovo, Casagiove, Caivano, qualsiasi nome con la C di Campania ma Capolona no. Uscimmo di casa alle otto di sera, arrivammo che la fiera era già bell’e finita e giù dabbasso c’era un calore da impazzire. C’infilammo in un bar per bere qualcosa ma non si resisteva né dentro né fuori. Decidemmo di mettere fine a quella straziante escursione termica e tornare a casa a mangiare i nostri fagioli: in terrazza si stava decisamente meglio. Convenimmo sul fatto che un giro in macchina con l’aria condizionata fosse il migliore aperitivo che potessimo concederci, e rincasammo.

Tre giorni e due notti, donne mie.

Tre giorni e due notti di amene litanie.

M’intestardii nel preparare anche del baccalà: avevo degli ottimi filetti carnosi, puliti e già bagnati, e fritti erano la morte sua. Nadia commentò, laconicamente: “Pare ‘a vigilia ‘e Natale”. Il menù era di quelli da cantina della nostra gioventù, ma fu innaffiato da un Rubio di Montalcino da quattordici gradi che avrebbe resuscitato un morto e che nelle nostre cantine, all’epoca, non avresti mai trovato. Mangiammo come sempre con gusto e appetito, tra discorsi e risate, spazzolammo la zuppa e pure il baccalà. Verso le undici e mezza, quando l’aria fu abbastanza fresca, Mela e io demmo forfait e guadagnammo la posizione orizzontale. Nadia e Tetta se ne stettero sotto la Via Lattea fino all’una passata. I colon, amabilmente allenati alle eccedenze conviviali, accusarono quanto basta la potenza del fagiolo rosso e la forza del vino, all’insegna del motto “o schiatta ‘o verme o more ‘a creatura”, o anche – fosse stato davvero Natale – “si fotte il freddo ma la musica è bella”.

 Tre giorni e due notti durano davvero poco.

Tre giorni e due notti, e un altro battesimo del fuoco.

La mattina dopo la colazione aveva il solito sapore di partenza, e quello non mi piace. Mela, driver della situazione, teneva come sempre in pugno orari e disciplina della truppa, e alle undici chiamò il giro. A mezzogiorno erano pronte a partire, dopo aver preparato le merende e rinfrescato quanto basta la bottiglia d’acqua che le avrebbe accompagnate al primo autogrill. Scattammo un po’ di foto sotto al noce, alla Thelma e Louise, ma in quattro non era proprio facilissimo beccarci tutte e con la faccia giusta. Ovviamente, dal display del telefonino vedevamo poco o niente – con tutto quel sole e la nostra incipiente cecità – toccava controllare dopo, al computer, com’erano venute. Erano bellissime.

Così, le ragazze presero la strada. Con una lacrima che mi ballava negli occhi me ne tornai in casa. Era ancora viva delle loro voci.

[Talla (Ar), 23/25 agosto 2012 / ascoltando Una bellissima ragazza di Ornella Vanoni]

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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