La stagione delle rivolte a Sud
Il ciclo della primavera araba: nascita, morte e oblio mediatico
di Lorenzo Declich
Siamo nel 2010. Conosciamo le “masse arabe” per due motivi. Il primo: protestano quando appare qualche cosa che offende l’Islam. Il secondo: protestano quando Israele massacra i Palestinesi. I tiranni, nel primo caso, prendono i manifestanti a fucilate. Il loro ruolo, accettato e benvoluto, è tenere a bada l’anima nera dell’estremismo islamico: fanno bene a reprimere, anche se tutti sappiamo che in fondo si giovano di questa loro posizione di “garanti della sicurezza”. Se non ci fossero loro chissà cosa succederebbe, laggiù. Nel secondo caso i tiranni lasciano fare: per ragioni interne una superficialissima “solidarietà panaraba” è salutare. Le manifestazioni di odio verso Israele hanno l’utile doppia funzione di presentare i regimi come garanti di una certa libertà di espressione e, contemporaneamente, di incanalare la rabbia di chi manifesta verso un nemico esterno (e imbattibile). In Siria, dove l’apparato di sicurezza è sofisticatissimo, le manifestazioni pro-Palestina servono anche a individuare eventuali teste calde. I primi a essere prelevati dalle loro case e portati nelle infami carceri degli Asad, all’alba della rivolta siriana del 2011, sono proprio quegli universitari che negli anni precedenti avevano organizzato le manifestazioni di solidarietà con i Palestinesi e, a bassa voce, avevano preso di mira anche Bashar al-Asad, reo di non far nulla, ma proprio nulla contro Israele.
Queste masse arabe, qualsiasi contenuto passino, sono rabbiose e inconsapevoli. Fra l’incudine dell’islam politico, pronto sempre e comunque a guadagnar terreno, e il martello di un nazionalismo in perenne implosione fra corruzione e dispotismo, non hanno “testa e gambe”, gli si può concedere al massimo una “rivolta del pane”. Esprimono, alla fine dei conti, lo stato di prostrazione in cui “gli arabi” vivono. Per parafrasare Geopolitica delle emozioni di Dominique Moïsi (un libro del 2009) i paesi arabi sono “il polo mondiale” della “cultura dell’umiliazione”, c’è una saggistica che ne discute da decenni.
Poi Mohammed Bouazizi si dà fuoco il 17 dicembre 2010. In qualche settimana la Tunisia è in rivolta. I media esitano, ci impiegano un bel po’ a mettere in pagina la notizia. Lo fanno quando, qualche settimana più tardi, si accende l’Algeria, paese in cui si sono peraltro già registrati pesanti scontri di giovani “delle periferie” contro l’imponente e brutale apparato di sicurezza che tutt’ora protegge Bouteflika e i suoi.
Le prime analisi – ricordo Repubblica e il blog di Grillo – esemplificano la declinazione in reverse del notissimo “it’s not my fucking problem”. In questa versione analisti e politici si chiedono “quale parte del problema è anche, probabilmente, un mio problema?”. Ne risulta un’allarmato discettare sull’impoverimento del mondo intero e del rischio di una rivolta generalizzata. Questo è ciò che potrebbe diventare per noi un problema: not in my backyard, please. Non ci sono in gioco “valori”, però. Nulla che esca dal carrello del supermercato. Della dignità, della giustizia sociale, della democrazia – i temi intorno ai quali le persone, soprattutto i giovani, scendono in piazza – non ha senso parlare, almeno fino a quando non si capisce che la rivolta si è estesa a macchia d’olio, che c’è un effetto domino “nel mondo arabo”.
Il problema, a quel punto, viene inquadrato un po’ meglio, almeno dal punto di vista geografico: il tappo dei tiranni sta saltando e con esso la “stabilità dell’area”, così vicina e strategica per noi.
Quando è ormai chiaro che non si può più ignorare il contenuto della protesta e che la Tunisia non è l’unico paese coinvolto si parla di Primavera araba. L’espressione, coniata il 6 gennaio 2011[1], ci mette un po’ a prender piede. Molti iniziano a tirar giù ogni tipo di scongiuro affinché questa cosa finisca presto, in un modo o nell’altro. Alcuni reagiscono pavlovianamente: il 10 gennaio 2011, ad esempio, la ministra degli esteri francese Michèle Alliot-Marie offre cooperazione con la Tunisia di Ben Ali nel campo della sicurezza. Quattro giorni dopo, il 14 gennaio, il dittatore fugge in Arabia Saudita e Alliot-Marie porge scuse ufficiali.
La rivolta tunisina ha vinto. Il movimento è interno, è arabo, non tocca il resto del mondo islamico. Non ha connotazioni religiose, non è contro Israele o l’Occidente ma contro un dittatore e la sua banda, reclama riscatto sociale, dignità. Le organizzazioni dell’islam politico non sono in piazza, almeno per ora. È tutto perfettamente comprensibile, condivisibile, assolutamente cristallino. Non bisogna far altro, da questa parte del Mediterraneo, che fare mea culpa per le connivenze passate e spalancare le porte alla Storia che si rimette in moto. E’ anche forse il caso di dare qualche spintarella al carro della democrazia, della quale siamo se non altro eredi, scendere in piazza, almeno manifestare solidarietà in qualche forma. Invece regna l’imbarazzo. Succede solo che dalla fine del gennaio 2011 tutte le agenzie di rating declassano la Tunisia: troppo rumore, scalmanati per strada, ambiente non propizio per il business.
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Il 25 gennaio è la volta dell’Egitto, il centro demografico del mondo arabo. È un martedì, la giornata nazionale della Polizia. La cosa è simbolica, come si legge nella piattaforma su cui è indetta la protesta:
Nel 1952 i nostri nonni arruolati nella polizia resistettero con le loro pistole di ordinanza ai carri armati dell’esercito regolare britannico. Perirono in 50 e più di 100 furono i feriti: rappresentano il miglior esempio di sacrificio per la patria. E ora noi, a più di cinquant’anni di distanza, subiamo le sopraffazioni delle forze di polizia, che sono diventate uno strumento di umiliazione e tortura per gli egiziani. Abbiamo scelto questo giorno particolare perché simboleggia l’unione delle forze di polizia con la gente e speriamo che nel giorno della manifestazione si uniscano a noi gli alti ufficiali, perché la nostra causa è una. Il 25 gennaio è una ricorrenza nazionale in cui è permesso a tutti gli egiziani di interrompere la propria attività lavorativa.
Già venerdì 11 febbraio Hosni Mubarak si dimette, la Primavera araba, d’ora in poi semplicemente PA, diventa una cosa ancora più vera e, contemporaneamente, un tema dal formato narrativamente fecondo, oltre che maneggiabile da chi di arabi sa poco o niente. Ma nel nascere – parlo del tema, non della cosa – inizia a morire, in quel processo che Slavoj Zizek – ricorrendo non senza un pizzico di orientalismo a un proverbio persiano – definisce il “seppellire un morto e mettere i fiori sulla sua tomba”.
Assistiamo a un primissimo necrologio su al-Jazeera, il broadcaster del Qatar che parla arabo ma anche inglese e che tutti già indicano come “la televisione della Primavera araba”. La settimana successiva alle dimissioni di Mubarak piazza Tahrir, al Cairo, è gremita per il sermone del venerdì (khutba) di una star della Fratellanza Musulmana, Yusuf al-Qaradawi. Fondatore di islamonline.net, sito che promulga fatwa e attraverso i suoi forum registra gli umori di una gigantesca comunità globale di musulmani telematici, al-Qaradawi è un anchor man di al-Jazeera che, oggi, colloca telecamere un po’ ovunque: sembra di stare al concerto del primo maggio.
Prima del sermone Wael Ghonim, uno dei volti più noti della protesta egiziana, prova a salire sul palco per parlare ma viene bloccato dalla sicurezza. Si arrabbia, si ricopre il capo con una bandiera egiziana, abbandona la piazza simbolo della rivoluzione. L’evento è un’esplosione di sottintesi e appare chiaro che non ha molto a che vedere con i giovani di Tahrir: sul palco, a prendersi la scena, è salito il tradizionale contropotere egiziano, quella Fratellanza Musulmana che per decenni ha vissuto in una conflittuale ma strutturale simbiosi con i militari al potere, pompando nell’ombra o alla luce del sole consensi e denaro, imparando dalla sua controparte la lezione di un governo dispotico. Un’organizzazione che si è unita alle proteste (rendendole di certo molto più partecipate) ma non ne è l’artefice né l’ideatrice e ora, chiaramente, sta procedendo a un’OPA anche mediatica, presentandosi come rivoluzionaria di fronte alla platea araba e mondiale.
L’ora delle celebrazioni e delle appropriazioni arriva per tutti. Fra i primi a inaugurare il trend è il presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellik che, intervistato il 6 aprile 2011 dalla Reuters, regala al pianeta la sua lettura della PA: Mohammed Bouazizi era un piccolo imprenditore a cui non è stata data l’opportunità di sviluppare il suo businnes. È per questo, secondo lui, che si è dato fuoco. Gli risponderà, indirettamente, proprio Wael Ghonim il 15 aprile successivo, durante una tavola rotonda su “giovani e lavoro in Medio Oriente e Nordafrica” svoltasi presso la sede del Fondo Monetario Internazionale a Washington, cui presenziava anche il capo dell’organizzazione, Dominique Strauss-Kahn. Parlando del supporto trentennale accordato dalle elite politiche e dalle istituzioni internazionali a Hosni Mubarak dichiara: “Per me ciò che è successo non è stato un errore ma un crimine”.
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Dopo questo passaggio la PA diviene sostanza, cioè soldi. Il G8, a Deauville (26-27 maggio 2011), tramite Fondo Monetario Internazionale, decide di donare ai paesi della Primavera araba. Con un’eccezione: i paesi esportatori di petrolio in uno dei quali, la Libia, si è già profilato un “Autunno arabo”, causa intervento NATO. Nel giugno 2012 arriverà poi, con l’elezione a presidente del Fratello Musulmano Mohammed Morsi in Egitto, un Inverno islamista. Ma in tanti, già molto prima, si metteranno ad agitare – con rinnovato vigore – lo spauracchio del terrorismo, attestandosi sullo scenario peggiore per poi, dopo aver vinto facile, ergersi a profeti. Vecchi e nuovi tromboni finiranno per guardare con malinconia e affetto ai vecchi tiranni, associandosi in ultimo al coro di chi parrocchialmente canterà “si stava meglio quando si stava peggio”. Contestualmente fioccheranno analisi su quei “fighetti” pseudorivoluzionari che hanno fatto errori a ogni pié sospinto. Sono nati sotto un tiranno, hanno vissuto nella paura per tutta la vita, si sono organizzati di nascosto e con fatica, si sono ribellati, ora i cecchini li prendono a fucilate dai balconi, i soldati e i poliziotti li picchiano a morte nelle caserme e nelle carceri, ma ciò non li rende meno figli della borghesia urbana colta, quindi individui spregevoli, anime belle e inconsapevoli. Sì, non si sono resi conto conto di ciò che sono andati a toccare. Hanno esposto i loro paesi a un’ondata di violenza – perché sappiamo tutti che a scatenarla sono le vittime, non i carnefici – e oltretutto, cosa forse più grave – hanno permesso a decine di migliaia di rifugiati politici di incombere sulle coste della Fortezza Europa. La ricaduta non è più, ormai, roba da supermercato e la colpa è dei fighetti. Anche se poi a scendere in piazza non sono solo loro – anzi in alcuni casi si sono accodati a proteste di altra matrice – c’è chi vede in queste persone soltanto un branco scomposto di irresponsabili o addirittura, quando la fucina del complotto riprende a sfornare pagnotte tossiche, il tentacolo locale di una cospirazione globale.
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Nel frattempo anche l’ultimo luogo comune sulle masse arabe va in caduta libera: la vittima mediatica della PA sembra essere infatti il tema del conflitto israelo-palestinese, almeno nella sua forma conosciuta. Si scopre che anche a Gaza e in Cisgiordania c’è una nuova generazione di attivisti. Manifestano per presentarsi uniti contro le politiche di Israele. Il 15 marzo 2011 sono in decine di migliaia e, sotto gli occhi preoccupati dei dirigenti di Hamas e Fatah, non sventolano bandiere di partito. Non dimenticano, certo, di commemorare la nakba, ma lo fanno pacificamente, il 15 maggio 2011, sfilando sulla linea che divide Israele dalle alture del Golan occupate, da Gaza, dal Libano, dalla Giordania. L’Economist scrive: “Israele sta assaggiando l’inaspettato e sgradevole gusto di uno scenario da incubo: masse di palestinesi, disarmati, si dirigono verso le frontiere dello Stato ebraico, chiedendo di essere risarciti per il pluridecennale danno nazionale”. Ma anche i leader delle organizzazioni palestinesi non fanno sonni tranquilli. Quel giorno Israele fa 12 morti e tutti si chiedono se e come la Primavera palestinese continuerà. Il gioco, tragico, è già scoperto: da ambo le parti qualcuno farà di tutto per evitare che quei giovani riescano ad affrontare Israele e allo stesso tempo determinare un cambiamento politico in Palestina.
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La copertina di capodanno del Time 2012, intitolata a The protester, segna un momento di svolta nella narrativa associata alla PA. La “contestatrice” che vi compare è Sarah Mason, una ragazza fotografata il novembre precedente da Ted Soqui durante una manifestazione di fronte alla Bank of America nella downtown di Los Angeles. La copertina è firmata Shepard Fairey, quello di Hope-Obama. Nell’iconizzazione di Fairey, il ritratto di Sarah perde alcune caratteristiche e ne acquisisce altre. Sul fazzoletto scompare la scritta, un messaggio che conosciamo bene e che – alla fine – è il messaggio di Soqui: 99%, cioè “quella parte di mondo che non possiede ricchezza”. Scompare poi anche lo scollo della ragazza che ci indicava, principalmente, che quella che portava in faccia era una protezione, non un velo.
La PA, coniata da un giornalista di Foreign Policy, finisce sul Time. Ad essa vengono associati i contestatori di Occupy. In mezzo ci sono diversi altri paesi, non arabi. Compresa la Spagna, compreso Israele. La cifra, questa volta azzeccata, è la giovinezza dei protagonisti, ma la PA si scioglie nel mondo, diviene parte di una globale rivolta giovanile. E i suoi protagonisti diventano icone di qualcos’altro: Tawakkul Kerman, giovane esponente della Fratellanza Musulmana yemenita, riceve il Premio Nobel per la Pace (insieme a due donne liberiane) per la sua “battaglia non violenta a favore della sicurezza delle donne e del loro diritto alla piena partecipazione nell’opera di costruzione della pace”. E non per il fatto che Kerman ha guidato una rivolta (finita certo male) nel suo paese.
Segue un periodo buio per i protester nei paesi arabi. A forza di controrivoluzioni e restaurazioni (Egitto), operazioni di maquillage (Yemen), omicidi politici e nuova corruzione (Tunisia), rapimenti, torture e massacri (Siria) in pochi hanno ancora la forza di alzare la testa. Progressivamente le loro voci si affievoliscono, così come l’interesse per il suono che fanno.
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Nel periodo della PA, quasi interminabile se consideriamo la velocità con la quale il mondo dell’informazione rumina e digerisce, a soffrire è stato il modo di raccontare. Il fatto che un’esplosione così generalizzata e così contenutisticamente sorprendente (dignità? democrazia? giustizia sociale?) non sia stata prevista, ha mandato in default le linee di pensiero che avevano spiegato il mondo arabo e/o il mondo islamico fin dal crollo del muro di Berlino e poi, con qualche modificazione in senso “allarmista” e “conservatore”, fin dal 9/11, un evento che aveva semplificato ulteriormente, dividendo il mondo in civiltà antagoniste. Su quel cliché molti avevano costruito la loro fortuna politica, mediatica ed economica. Obama, nel 2009, aveva poi parzialmente corretto il tiro, inaugurando la “nuova stagione” delle “relazioni coi musulmani”, che aboliva i claim precedenti – la guerra al terrore etc. – per istallarne altri, più dialoganti – perché siamo tutti sulla stessa barca – benché affollati di droni.
Invece, fin dai primi mesi insieme alla rivolta, irrompevano le espressioni delle neonate società civili. Si era aperto il vaso di Pandora, ne uscivano centinaia di nuove esperienze politiche, sociali, editoriali, artistiche, culturali. Da dove veniva tutto questo? I primi a cadere dalla rupe furono i vecchi “giornalisti di medioriente” che sembrarono informati di fatti secondari. I media scoprirono un mondo di attivisti e giornalisti locali e non, una nuova generazione di operatori dell’informazione che, abbandonati i normali preamboli orientalisti e disertate le agenzia di stampa governative, stavano nelle piazze, parlavano con le persone, tiravano fuori dalla rete nuovi contenuti. Fu una scoperta, ma la nuova generazione non ebbe lo stesso trattamento della precedente in termini di remunerazione e stabilità lavorativa. Fu poi, con lo spegnersi dei fuochi, pesantemente mondata e per lo più messa in cantina. Si parlò della potenza della rete, del suo ruolo di vetrina e il capitolo fu chiuso.
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Ma non è finita qui, ci sono da rispolverare i vecchi fasti, nel luglio 2014 arriva la nuova carneficina a Gaza. Dietro la patina di indignazione e/o di sgomento, sembra quasi che i media di tutto il mondo, come anche gli “analisti di Medioriente” o presunti tali e, infine, le centinaia di migliaia di palestinisti e israelisti della domenica, tirino un sospiro di sollievo. Finalmente gli operatori dell’informazione e i postatori di “cose buone e su cui riflettere” potranno tornare a usare gli strumenti, le categorie e i microdossier che hanno maneggiato per decine di anni senza dover rincorrere eventi che non capiscono e dei quali non sanno quasi niente. Eventi come una rivoluzione, che mettono in circolo dubbi e incertezze e che, se ben letti, potrebbero spiegare molto anche su di noi (e anche sul lavoro mediocre di quegli operatori).
È a questo punto della storia che la PA muore sul serio, perché la PA era un impianto mediatico e ora quell’impianto, riavviatasi sui vecchi binari la dinamica “Israele-Palestina”, è definitivamente scomparso. L’8 luglio 2014, per la prima volta in quattro anni, Jadaliyya, una delle migliori riviste online su questi temi, non porta nell’indice alcun articolo sulla Siria, l’unico paese arabo in cui, nonostante ciò che il senso comune afferma, c’è ancora un barlume di rivoluzione (ancora oggi la gente scende in piazza, malgrado tutto, per i “venerdì di protesta”). È la rivista su cui era apparso uno dei più importanti articoli sulla situazione attuale di quel paese mai scritti. Era il 24 novembre 2011, prima che tutto accadesse, e l’articolo, di Bassam Haddad, si intitolava “Neoliberal Pregnancy and Zero-Sum Elitism in the Arab World”.
Un conosciuto blogger che scrive di Siria, Maysaloon, ironicamente si rivolge agli “antimperialisti”: “fate attenzione riguardo alle foto di Gaza che pubblicate: potrebbe essere la prima volta in tre anni che postate foto delle vittime di Asad”. Dei palestinesi uccisi dagli israeliani qualcuno pubblica addirittura i nomi. Molti di loro non saprebbero chiamare per nome nemmeno uno dei migliaia di palestinesi uccisi da Asad in Siria. Il più pletorico conflitto di retoriche e propagande che la storia recente abbia conosciuto, che va sotto il nome (oggi ancora più depistante) di “conflitto arabo-israeliano”, torna insomma prepotentemente in ruolo, insieme a quell’altro grande generatore di strabismi:”la responsabilità dell’Occidente”.
Ritorno al futuro. Emerge – esplodendo nel volano dei social network – una caratteristica penosa e malata dell’intero sistema: il famoso “not in my back yard” riguarda anche i giardini della mente, quei luoghi immaginati che, pur essendo forse meno verdi di quelli del vicino, le persone vogliono vedere puliti e perfetti, abitandoli ogni giorno. Ma poi, eliminato in qualche giorno “l’elemento di disturbo”, il giardino torna a fiorire. Mentre gioiscono tutti coloro che avevano fatto macumbe sui “giovani arabi” e piantato spilli sui loro feticci. Hamas torna a essere “resistenza”, Netanyahu si riprende il posto di “gestore della sicurezza”, proprio come se fosse un tiranno qualsiasi in un qualsiasi paese arabo. E la cosa ovviamente non si ferma più. Si indossa l’una o l’altra maglietta per motivi che hanno a che vedere più con l’identità o senso di appartenenza delle persone che le indossano che non con il conflitto israelo-palestinese stesso. “Privatizzazione”, interiorizzazione del conflitto. Roba che in breve vira verso l’”infotainment”, cade nell’autoreferenziale, diventando molto simile a qualche altro “file” – incomparabilmente meno tragico – che a scadenze fisse o variabili si riapre sulle bacheche dei social network o sulle pagine dei giornali. Il calore del “conflitto arabo-israeliano” produce interpolazioni (sono tutti come Hitler), fusioni (i palestinesi sono Hamas), cortocircuiti e afasie. Sì, la parlamentare israeliana di ultradestra incita l’esercito israeliano su Facebook, chiede un massacro. Sì, alcuni cittadini israeliani guardano cadere le bombe israeliane su Gaza stando in poltrona. Sì, probabilmente Hamas fa il gioco sporco sulla pelle degli innocenti per riguadagnare i consensi perduti a Gaza in questi anni. Guarda, la cantante israeliana Noa viene contestata a Salerno perché “sionista”. Guarda, il concerto della cantante israeliana Noa è cancellato a Milano perché ha invitato Netanyahu a smettere di bombardare Gaza.
Soprattutto, ritornano le geografie emozionali: quel microscopico fazzoletto di terra che raccoglie in sé Israele e Palestina diventa “il Medioriente”. Le televisioni urlano: “crisi in Medioriente, Iraq e Ucraina”, ponendo l’Iraq in uno strano altrove, in un nuovo oriente né vicino, né medio né grande, nel quale abita un minaccioso Neocaliffo che ordina ai propri sudditi di infibulare “tutte le donne” (era una bufala, sì) e che invierebbe addirittura truppe a Gaza perseguendo il suo terrorizzante disegno. Fra chi gioisce per il ritorno del vecchio paradigma c’è anche il tiranno siriano, Bashar al-Asad, che su tutti questi costrutti aveva fabbricato – meglio di altri – la propria propaganda. In stile guerra fredda, con la fierezza del “capo arabo laico e socialista”, annuncia che inizierà “a ricostruire il paese” ancor prima di aver finito di distruggerlo e desertificarlo, in un conflitto che non conosce pause e che finora ha fatto 200.000 morti e milioni di profughi, più di un terzo della popolazione. Neanche Naomi Klein, autrice di Shock economy vede qualcosa di strano in quell’annuncio. Non ci ragiona su, non prende atto di una “nuova fase dell’aggressione neoliberista al mondo” bensì lancia appelli dal Guardian per boicottare Israele.
A mettere il sigillo sul certificato di morte della PA è infine The Economist che, usando il più classico degli orientalismi, chiosa: “Mille anni fa le grandi città di Baghdad, Damasco e il Cairo si alternavano nella corsa, davanti al mondo occidentale. Islam e innovazione andavano insieme. I vari califfati arabi erano superpotenze dinamiche – fari di scienza, tolleranza, commercio. Eppure oggi gli arabi versano in uno stato miserabile. Addirittura l’Asia, l’America Latina e l’Africa avanzano mentre il Medio Oriente è frenato dal dispotismo e sconvolto dalla guerra”.
L’umiliazione, ancora una volta. Nulla è cambiato, sembra. O meglio: siamo finalmente tornati a dire che nulla può cambiare, che nulla deve cambiare, che nulla cambierà.
Quel 17 dicembre 2010 è stato solo un incidente, dai. E togliete i fiori da quella tomba, per favore.
[1] Marc Lynch, “Obama’s ‘Arab Spring’?”, Foreign Policy, 6 gennaio 2011
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Mi sembra che l’autore propenda per la tesi, sia pure in una versione più gauchiste, d Fukuyama sulla primavera araba ossia che siano un movimento della classi medie per la democrazia. Dovrebbe fare attenzione, però, perchè questa tesi proietta un’aspettativa e un punto di vista esterni su fatti complessi nè più nè meno delle tesi antimperialiste. Non conosco molto di quelle realtà, ma è probabile che i motivi fossero compositi ( per esempio mi risulta che l’Egitto avesse molto sofferto nel 2010 a causa dei giochi speculativi sul prezzo del grano che avevano portato a un rincaro del pane)e non ci fosse un programma unitario, tranne forse in Tunisia dove peraltro le forze laiche avevano una saldatura organizzativa almeno di tipo sindacale. Mi stupisce che non venga dedicata nemmeno una riga al Bahrein in un articolo così polemico coi media, l’unica primavera non coperta da nessun media.
Quanto alla questione israelopalestinese di questi giorni non capisco molto cosa c’entri: era prevedibile che Nethanyau avrebbe reagito all’accordo Hamas-Fatah nell’unico modo che conosce.
Ciao Giorgio. Non propendo per la tesi di Fukuyama. Scrivo: “Anche se poi a scendere in piazza non sono solo loro – anzi in alcuni casi si sono accodati a proteste di altra matrice – c’è chi vede in queste persone soltanto un branco scomposto di irresponsabili o addirittura, quando la fucina del complotto riprende a sfornare pagnotte tossiche, il tentacolo locale di una cospirazione globale”. Non cadiamo però nel gioco della “rivolta del pane”, del quale anche accenno. ti invito a leggere la piattaforma del 25 gennaio per esteso (http://in30secondi.altervista.org/2011/01/25/egitto-tutto-quello-che-dovreste-sapere-sulla-manifestazione-del-25-gennaio/). Altrove ho scritto molto sul Bahrayn (http://in30secondi.altervista.org/tag/bahrain/), nel contesto di questa analisi non l’ho ritenuto utile (fare elenchi non serve a molto), così come non ho fatto cenno ad altri paesi (Marocco, Sudan, Giodania, Mauritania ad esempio). Di certo avrei discusso del Bahrayn nel contesto delle vere o presunte “guerre confessionali” (vedi qui ad esempio http://www.ediesseonline.it/files/sfogliabili/rivoluzioni%20dignita_selezione.pdf). La mia vuole essere un’analisi su alcuni costrutti mediatici sulle coscienze delle persone nella stagione delle rivolte, non un’analisi delle rivolte. La questione israelo-palestinese, che “assorbe” l’intera geografia del medio oriente ogni volta che si accende, finisce per cancellare tutto il resto. O, alternativamente, a leggere tutto il resto in funzione di quel conflitto (vedi lo spauracchio dell’ISIS a Gaza). In questo caso l’attacco a Gaza ha riportato indietro di quattro anni le “letture” sul “medio oriente”, ridando fiato ai soliti vecchi attori. Ovviamente ci sarebbe molto altro da dire sulle rivolte nei paesi arabi, ognuna delle quali ha avuto caratteristiche diverse. E’ innegabile però, e ampiamente documentato, il collegamento fra attivisti.
Sull’Egitto mi rimetto alla tua maggiore competenza, ma permettimi di dirti che non è chiaro il legame tra i costrutti mediatici relativi alle pa e quelli all’attuale conflitto israelopalestinese. Se dovessi dire come i media rappresentano attualmente la crisi di Gaza, direi che c’è una prevalenza dei sentimenti: in particolare i sentimenti di paura della popolazione israeliana, i timori per la recrudescenza dell’antisemitismo in europa, la crisi interiore di coloro tra gli israeliani e gli ebrei che dissentono dalla politica del governo,i sentimenti di Obama in particolare la sua rabbia e la sua antipatia verso Nethanyau. Insomma c’è una sorta di crinale tra chi ha dei sentimenti ( gli israeliani, gli intellettuali europei, i dissidenti israeliani, Obama)in particolare di giustificato timore e chi è capace solo di odio ( hamas, gli antimperialisti in generale, i governanti iraniani). Su questo contesto emozionale vengono calate le notizie politico-militari vere e proprie.
gli antimperialisti “in generale” (sic!) sono capaci solo di odio…
ma certo, come no
Però dire che per la carneficina di Gaza i “centinaia di migliaia” di palestinisti della domenica “sembra quasi che tirino un sospiro di sollievo” è una tua percezione, di fatto una cattiveria. Un tuo giudizio negativo su chi si occupa soprattutto di Palestina, magari non avendo gli strumenti per occuparsi di tutto il Medioriente e le PA, è diventato una tua proiezione su di loro, che tirerebbero un sospiro di sollievo.
Io conosco molte persone che son tornate ora a parlare di Palestina, per la carneficina di Gaza, specie su fb, che hanno scritto post, postato foto. Gente che magari non parla della Siria perché ci capisce poco della Siria, e se ne parla fa casino. Ma non hanno tirato nessun respiro di sollievo per questa carneficina. E non sono certo loro a far mettere nell’oblio le PA.
Peraltro, fa parte dell’hasbara dire: in Siria ne uccidono molti di più ma nessuno ne parla.
Io sono contento che molta gente comune almeno nel web abbia capito la carneficina che è in corso a Gaza, e abbia preso posizione. Per fortuna che ci sono stati e ci sono questi palestinisti della domenica. Almeno questo! Visto che ONU, stati, istituzioni, politici, intellettuali non riescono a dire (figurarsi a fare) qualcosa di netto contro questo crimine contro l’umanità, i cui autori sono ben identificabili.
Questi tuoi giudizi negativi, li condivido se sono rivolti ai giornalisti, ai politici, agli intellettuali. Ma alla gente comune no, perché semplicemente penso sia falso pensare che abbiano tirato (per qualsiasi motivo) un respiro di sollievo. E penso sia un bene che a loro modo molte persone abbiano espresso la loro indignazione.
Non vorrei risultare censoreo o inutilmente sferzante, trovo rilevante il fatto che vi sia stato questo moto di solidarietà. E’ quel “almeno nel web” che mi fa riflettere. Sappiamo tutti come funziona una bacheca di fb, e come dopodomani tutta questa indignazione, una volta scomparsi i segnali dalle pagine di ognuno, scomparirà nel nulla. E segnalo che che c’è anche “la parte opposta”, ci sono i filoisraeliani (magari l’Italia è molto filo-palestinese, non è così ad esempio negli Stati Uniti). Invitavo a riflettere su quanto rischia di essere solo “rituale” tutto questo.
Non penso per niente che l’Italia sia molto filopalestinese, c’è molta hasbare anche in Italia, anche nel web, ecco perché dico per fortuna che almeno nel web si alzano voci a contrastare questa correità generalizzata in un crimine contro l’umanità che è parte di un crimine ancora più grande che sta portando alla distruzione della nazione palestinese.
Il merito dell’articolo è di sottolineare la nostra (la mia)facilità da seguire emozioni nutrite dalla stampa o dalla TV.
La Siria non interessa più i giornalisti?
E vero che non possono lavorare in questo paese senza essere in pericolo immediato.
Ma questo silenzio che senso dare?
Il nostro grande silenzio sulle donne in medio oriente. Da anni. Che dire?
La Primavera araba era una promessa.
Ora dove sono le donne che sognavano la libertà?
Bufala o no sul neocaliffa, quando le donne sono in pericolo, quando la vanità dei maschi è al primo piano si puo dire addio a tutta speranza di democrazia.
Tutti maschi pronti alla guerra e a opprimere le donne.
A chiudere il loro desiderio e la loro intelligenza.
Il medio oriente, l’oriente vicino nei nostri cuori sta in fuoco. E va al di là del conflitto tra le Hamas e Israël.
Li si gioca il futuro per la giovinezza.
Li si gioca il futuro della democrazia.
E’ importante, secondo me, capire che “questo silenzio” è un prodotto del mondo dell’informazione, che quelle donnne “che lottano” di cui parli ci sono ancora. Non c’è chi ne racconta l’impegno, la famosa “opinione pubblica” non viene sollecitata su questi temi.
l’articolo nel suo insieme è buono, parlando di umiliazione araba io preferisco infelicità araba, concetto sviluppato in un suo libro do Samir Kassir giornalista , libanese assassinato a Beirut nel giugno 2005 probabilmente dai servizi segreti siriani. L’esercito siriano aveva lasciato il Libano il 24 APRILE 2005.Certamente in Siria la rivolta nasce da un desiderio genuino di libertà e di giustizia in quanto una minoranza – la alawita- opprime una maggioranza.Tuttavia in Siria all’inizio degli anni ’90 dello scorso secolo si respira una certa aria di attesa fiduciosa dell’avvenire grazie all’inserimento del paese nel contesto internazionale e ad alcune riforme e alla liberalizzazione interna del mercato.Sussisteva lo stato di emergenza . si tratta per la restituzione del Golan a Ginevra, ma Asad-padre non firma e muore , con una riforma costituzionale velocissima viene eletto il figliò-Asad.Qanche adesso grandi aspettative ,ma la morsa sei servizi segreti non si allenta, anzi continua a colpire e durante la PA studenti, figli del souk manifestano in modo pacifico per avere democrazia e libertà. La teoria che in M.O. non ci sia la storia non è applicabile, anzi ci sono storia vecchia- conflitto israele-palestinese e nuovo malessere e povertà-Gaza-Territori, non ultimo il nuovo Califfato ex-DAECH che fa riferimento all’ultimo califfo del 1258, che rompe con la logica non statuale della corrente sunnita dell’Islam e ha una volontà di concorrenza con l’Iran-scita e vuole essere riconosciuto come stato-schizzofrenico capace di difendere gli interessi sunniti della regione.
Lorenzo,
Ti ringrazio per la tua voce moderata.
Mi colpisce lo stato delle parole.
Come le parole hanno perso tutto senso. Come le parole seguono un’escalazione.
Come è difficile rompere un silenzio
o farsi sentire nel caos delle voci.
Hai ragione. Quando tutto ricade. Non si sente più che l’indifferenza, l’oblio.
Allora che si dovrebbe mettere in primo piano chi lavora per la pace, accendere le luci per chi cerca la democrazia ,dare uno spazio alle donne.
Non è in tempo di guerra che le parole hanno un senso. E’in tempo di pace.
Quando si puo costruire senza cattiva passione nei cuori.
Per infortuna, quando la guerra scoppia, è troppo tardi.
In Siria o altrove nel mondo.
Si puo aggiungere che l’Europa ha perso l’influenza che aveva.
Molto preoccupante come la democrazia sia in posizione debole.
Molto preccupante la sorte fatta alle donne in nomine della religione.
Molto preoccupante l’influenza del fanatismo nel nostro secolo, con mezzi moderni.
Ora che significa la tolleranza insegnata da Voltaire?
Chi legge ancora Les philosophes des Lumières?
Quando la philosophie des Lumières in Medio Oriente?
Quando il ritorno della poesia bellissima in Iran?
Forse ci sono poeti che scrivono nella solitudine e la paura. Senza essere conosciuti da noi.
Speriamo che sia una tappa e che poco a poco la democrazia vincerà contro la tenebra.
L’attacco a Gaza ha riportato indietro di 4 anni, dici, ridando fiato ai soliti vecchi attori. In realtà ha creato il tempo ciclico, l’eterno ritorno. Nella testa di scrittori e intellettuali. Quindi, come parlare di rivoluzioni se il tempo è congelato, si ripete uguale, non cambia mai nulla, e occorre quindi stare zitti in silenzio perché a narrarlo è sempre noioso e ripetitivo?
Su questo sito, l’unico articolo su Gaza parla di Tempo congelato della politica israeliana, e posta un articolo vecchio della guerra al Libano 2006, come dire che tutto è rimasto quasi uguale.
Su il Primo amore, si riposta un articolo per la prima carneficina di Gaza, quella del 2009/10, con tanto di razzi di Hamas, bombe di Israele, razzi di Hamas bombe di Israele.
Su minima moralia, Christian Raimo scrive un’Ode all’impotenza, in cui cita Ida Domijanni, che invita al silenzio su Gaza perchè è stanca di vedere ripetere sempre le stesse cose. Michele Serra riprende il tutto su L’amaca, dicendo che ha già parlato troppo, meglio stare zitti.
Su Carmilla, non postano nulla, riciclano un pezzo di Moni Ovadia.
Quindi, la carneficina di Gaza, ha riportato indietro di 4 anni cancellando le primavere arabe, ma ha anche cancellato nella testa degli intellettuali il significato di questa stessa carneficina di Gaza, ha cancellato la nozione di tempo in tutto il Medio Oriente. Ha cancellato le PA ma anche la consapevolezza che la distruzione del popolo palestinese sta arrivando a un punto di non ritorno.
Gli intellettuali hanno congelato e riciclato le loro narrazioni. Non vedono nulla di nuovo, perché vedono solo possibili narrazioni della realtà, non la realtà, e credono che la realtà sia come le loro narrazioni: noiosa, ripetitiva, sempre uguale.
Io ne parlo qui
http://www.minimaetmoralia.it/wp/lode-allimpotenza/comment-page-1/#comment-964846
Lorenzo, ho l’impressione che in questo senso stiamo dicendo la stessa cosa ma rivoltata. Io parlo dal punto di vista del “ciclo” (narrativamente parlando, e lo chiamo proprio “ciclo” nel sottotitolo) della primavera araba (vedrai che ritornerà, questa volta con stereotipi consolidati) che si chiude definitivamente quando scatta l’ora X del “conflitto israelopalestinese”. Tu parli di quella che definisco “ritualità” e che tu definisci “ciclo” del commentario sul conflitto israelopalestinese (con una sfiducia, da parte mia, nei confronti delle “solidarietà” accordate sui social network)
Sì, condivido, compreso l’invito, il dovere direi, di non stare in silenzio, per nessuna carneficina, che sia a Gaza o in Siria.
Detto questo non affermo che si debba restare in silenzio, sia chiaro. Affermo che chi fa informazione deve farsi molte più domande e affidarsi meno al flusso che arriva dalle rispettive propagande.
Sono andata a guardarmi un po’ di dati delle precedenti operazioni militari israeliani a Gaza. La peggiore, prima di quest’ultima, è stata “Piombo Fuso”- dicembre-gennaio 2008/2009.
Quella più “prudente” invece è stata “Pilastro della Difesa”, novembre 2012. Un razzo di Hamas uccise tre civili israeliani e uno arrivò fino a Tel Aviv, finendo nel mare davanti a Jaffa. I bombardamenti israeliani provocarono una settantina di morti e 400 feriti da parte palestinese,ma la tregua alla quale si arriva venne rispettata nonostante qualche altro razzo di Hamas.
Eravamo a ridosso delle elezioni americane che riconfermarono Barack Obama e del voto ONU che ammise lo Stato di Palestina tra i membri osservatori. Molti ai tempi notarono una certa fretta da parte israeliana di colpire e chiuderla prima di quelle due scadenze nel mondo occidentale.
L’elemento che alla luce di quel che scrive Lorenzo sembra stato considerato troppo poco è proprio il fatto che il mondo arabo, in particolar modo quello direttamente confinante, era ancora in subbuglio (magari anche “controrivoluzionario” ma non totalmente restaurativo. L’Egitto dopo la vittoria elettorale di Morsi e dei Fratelli Musulmani, la Siria in guerra civile, con Hamas schierata contro Assad e al contempo in rottura con l’Iran sciita.
Oggi non è il quadro di riferimento verso l’occidente a essere cambiato (Obama è quello di prima) mentre in Egitto e in Siria si è rafforazato il potere autocratico che per i palestinesi non muoverà mai un dito (men che mai aprire le frontiere alla popolazione prigioniera bombardata).
Se non sbaglio, sono queste le condizioni che permettono a Netayahu di massacrare Gaza con una violenza che (se le informazioni odierne solo esatte) sembra aver superato quella di “Piombo fuso”.
Ed è anche per questo che mi è parso utile l’allargamento dello sguardo veicolato dal pezzo di Lorenzo – proprio per non fermarsi di fronte alla sensazione del tempo immobile, del ritorno di una ciclica violenza sempre uguale, della sensazione di impotenza che produce.
Janeczek, è affascinante ritrovarla. Dal famoso post di Dominajanni, dopo averla seguita nel suo discutere del pudore del silenzio fb a massacro in corso,non demorde. Le coglie al volo tutte, le occasioni da perdere, o ha le antennine sioniste? E un’equazione semplice-semplice – di quelle da sussidiario di storia e o letteratuta postcoloniale, magari – di fronte a tanta ineluttabile ciclica violenza, no? Magari una tipo colonizzazione = genocidio? Non c’è più nulla di metafisico davvero, mi creda, quando la storia diventa seria. E non si fa neppure l’economia di una qualche complessità arabo-orientale.
Vorrei che fosse chiaro che questo pezzo parla di come è stata raccontata e poi dimenticata l’ondata di rivolte contro i regimi dei paesi arabi a partire dal dicembre 2010, Ondata che ha toccato anche la Palestina.
Potete parlare di altro, assolutamente, ma non vi seguirò.
Anche perché mi sembra che vi sia uno “storico” che non conosco e non mi riguarda sul quale si fa polemica.
Il livello di farneticazione è comunque apprezzabile.
Buon proseguimento.
Avrei detto il contrario – “NON fermarsi alla sensazione del tempo immobile ecc.”
il contrario di “proprio per non fermarsi di fronte alla sensazione del tempo immobile, del ritorno di una ciclica violenza sempre uguale, della sensazione di impotenza che produce.” non è la complessità della “questione”, come vuol lasciare intendere il tuo argomentare (o non so leggere)arabo-orientale; è la sua non-complessità, hai visto mai che avresti detto colonizzazione = genocidio e mi sia sfuggiato il segno =.
certo, Lorenzo Declich, non eri in causa, perché ti chiami dentro? Ma poi, “storico” a chi? Colonizzazione = genocidio è un livello di farneticazione accettabile per te? E poi, guarda, non conoscerai “lo storico” che sono ma le tue rivoluzione arabe non hanno nessuna credibilità, oltre che nei blog…credimi. Vediti un po di Massad o di Dahmash o per tornare ai fondamentaux di Pappé…buona serata.
Primo: la cosa mi concerne essendo questo un commentario che sta sotto a un mio articolo. E sì, il commentario è libero, dunque sono libero di avvertire tutti gli altri che tu, qui, sei un elemento alieno e poco pertinente. Riguardo allo “storico” parlavo di una polemica “storica” fra te e Helena della quale a me e ai suddetti lettori di questo articolo sicuramente non interessa nulla. Ti consiglio, amichevolmente, di non usare il “credimi”, perché ti squalifica e ti renderebbe irricevibile anche se davvero fossi una “storica” e il tuo elenchino di autori avesse impressionato qualcuno. Certo le rivoluzioni non stanno nei blog ma neanche nei libri. Ma forse sì, erano parte di un complotto globale. In fondo chi erano sti quattro ragazzetti? Dei fighetti, ecco cos’erano. Credimi.
Declich, se vedessi un po oltre il tuo naso di fascistello, forse…dico, forse. Invece di tacciare di elemento alieno dall’apprezzabile livello di farneticazione chi si permette di rispondere al tuo articoletto ospite quanto i commenti (e ringrazio NI per la pazienza nei confronti della sottoscritta…)…forse non ti sfuggirebbe il fatto oggettivo (e non isterico) messo in evidenza dal mio commento: in Palestina c’è una colonizzazione in corso. E’ tutta la differenza rispetto alla narrazione abusiva che fa da contorno a questo fatto “storico” (eh si’, senza virgolette). Allora piantala con la storia del complotto globale da rinfacciare a chi non tiene in alcun conto le tue banalità perché ha cosa più serie da pensare (non io, che non niente da fare; mi riferisco ai tuoi colleghi)…sei tu che ti discrediti, anzi che ti riveli (ma non sei obbligato a credermi). Saluto infatti.
Non è accettabile dare del fascista a Declich e non solo per le ovvie ragioni di rispetto dell’interlocutore e perchè nulla di quanto affermato da Declich sia etichettabile come fascista: il mondo pullula già abbastanza di fascisti veri sena bisogno di inventarsene di immaginari. Il fatto è che se vogliamo mantenere nazione indiana uno spazio non omologato alla logica banalizzante dei media di sistema, dobbiamo bandirne le pratiche comunicative lì usate tra le quali gli insulti, le etichette di comodo e le grida al posto dell’argomentazione
sono libero di avvertire tutti gli altri che tu, qui, sei un elemento alieno e poco pertinente
scusa, mascitelli, tu ‘sta roba come la definisci?
Ho scritto questo perché ho ritenuto che l’intervento di Valeria (anche offensivamente, se proprio vogliamo specificare) non avesse nulla a che fare col tema dell’articolo bensì era rivolto a una pur “conosciuta” commentatrice. La frase era preceduta da un “sì, il commentario è libero”. Ripeto: non ho alcun problema se non quello di indicare ad altri eventuali lettori il mio punto di vista riguardo a quel genere di commento e che, in quanto autore del pezzo, sarei “onorato” di ricevere critiche pertinenti.
Gli insulti non sono tollerati.
Siamo di fronte a un articolo eccellente, uno dei pochissimi in cui non solo si rispetta e onora la lingua italiana ma si sollecita una riflessione scevra da stolte partigianerie. Un articolo competente e documentato, per quanto non necessariamente condivisibile in tutti i suoi rilievi. Ma la sua portata prescinde appunto dall’ampiezza delle condivisioni: è il segno che tra l’imperversare del dilettantismo ancora esistono margini per una lettura non convenzionale del reale. Un unico appunto: ci troviamo ancora in parte al cospetto di una lettura della “lettura del reale”, cioè a una metanarrativa della narrativa sulla PA. Al di là del sentimentalismo e della sua retorica, sopravvive infatti un sentimento della PA che richiede testimonianza. Ma questo è un rilievo che non fa fatto a Declich ma a chi, vivendo in loco, racconta il Medioriente come se fosse la sua rappresentazione agenziale.
Sì, credo anch’io che tutte le spinte al cambiamento persistano (e anche un colllegamento fra attivisti di paesi diversi), nonostante le vicende avverse e la “rappresentazione agenziale”. Certamente la repressione è forte, ed è su questa che, a mio modo di vedere, dovremmo prestare più attenzione. Sono fra l’altro temi sui quali teoricamente l’opinione pubblica occidentale “dovrebbe” essere sensibile (non siamo, come dicevo, almeno “eredi” dei valori democratici?). L’analisi del “perché” i grandi soggetti organizzati della sinistra non sappiano e/o non vogliano impegnarsi in un lavoro di collegamento e scavo è ancora da farsi. Bisognerebbe partire, forse, dalla constatazione che questi soggetti sono in disfacimento, se non già polverizzati. La chiusura de “L’unità” è forse l’ultimo segnale (leggevo delle analisi in proposito, http://www.pagina99.it/news/idee/6582/Chiude-l-Unita—la.html). E anche dal fatto che le sinistre non hanno individuato (qualora avessero voluto) trovare referenti chiari e organizzati nelle rivolte (ma, ad esempio in Tunisia, dove il sindacato ha avuto un ruolo importante, non ho visto il sindacato italiano muoversi)
Per tornare all’argomento durante la primavera araba, si sperava una liberazione delle donne : la loro presenza intellettuale in primo piano.
Era solo un’illusione?
Speravo molto -non in una liberazione sull’esempio occidentale, ma una liberazione del corpo (il corpo della donna liberata della possessione degli uomini). Il rispetto dei diretti.
E la possibilità per le donne di creare in tutta libertà.
In particolare la Tunisia presentava una grande speranza dalla parte della giovinezza.
Ora si osserva caos creato dagli uomini. Potere maschile violente
Non vorrei passare per un ultra femministe. Forse il mio sentimento
è troppo semplice.
Non capisco tutto della situazione nell’intero Medio Oriente. Perché è molto difficile avere testimonianze.
Che accade in Siria o Nel Callifa?
Abbiamo poche notizie, perché lì la vita dei giornalisti è in pericolo.
Osservo che nel mondo intero le primavere erano di luce breve.
Effimere.
( ringrazio Jan Resteir per avere ricordato le regoli di cortesia. E’possibile non condividere lo stesso punto di vista.
Per fortuna diversi punti di vista aiutano a confrontare le propie idee.
Ma mostrare ostilità, insultare, mettere in causa una commentatrice (Helena Janeczek) non è accettabile.
[…] Come se non bastasse, l’Unione Europea ha dovuto fare i conti con la sponda sud del Mediterraneo a partire dal biennio del 2010-2011 con i fenomeni che furono prematuramente definiti primavere arabe. Manifestazioni senza precedenti hanno attraversato tutto il Medio Oriente, facendo appello a valori pressoché universali: pane, dignità, giustizia. Dal crollo dei regimi in Tunisia, Egitto e Libia (con lo zampino NATO), passando per i sommovimenti in Yemen, Bahrein, Kuwait, Marocco e Siria (dove è ancora in atto una guerra civile). Sulla nascita, evoluzione e morte di queste rivoluzioni (o dei tentativi in questo senso), rimando a quest’ottimo articolo di Lorenzo Declich. […]
[…] Lorenzo Declich, per Nazione Indiana). Siamo nel 2010. Conosciamo le “masse arabe” per due motivi. Il primo: protestano quando […]
Complotto o non complotto, qui c’è un attacco sproporzionato che va fermato per ragioni morali,non ideologiche.