Comprensibilità / incomprensibilità in poesia

[Questo testo è nato da una discussione svoltasi sul sito  “Poliscritture”. Ed è stato poi lì pubblicato come pezzo autonomo. Lo ripropongo molto volentieri su NI.]

di Massimo Parizzi

Per me questa discussione è stata tutta interessante. Ma riguardo a un tema in particolare, la “comprensibilità/incomprensibilità” in poesia, vorrei cercare di dire qualcosa su questioni che, stranamente, mi sembra non siano state toccate. Scusate se comincio con ricordi personali.

Un incontro determinante per il mio futuro (e tuttora il mio presente) fu, tra i 16 e i 17 anni, cioè nel 1966-1967, quello con un gruppo di pittori, scrittori e “teatranti” che in quegli anni aprirono a Milano una “galleria-teatro-laboratorio” dal nome Il Parametro e fecero uscire per due numeri una rivista omonima. I pittori erano astrattisti geometrici. Gli scrittori guardavano a Beckett (poi si sarebbero innamorati, loro e anch’io, dello strutturalismo) e componevano testi di parole e frasi esatte, sonore e misteriose. Un esempio: “Dormio ho pensato questa vita ribaltata e commossa lacrime di tensione e di aspettativa per quell’attimo turgido immagine anziana di seno di donna sollevato di parola piena anno data numerica di canto…”. Che cosa poteva capire un sedicenne, io, di testi così “incomprensibili” e di quadri fatti di cerchi, semicerchi, archi di cerchio, quadrati di colori puri complementari: giallo/viola, rosso/verde, blu/arancio? (Fatemi consumare due righe di post per ricordare i nomi del pittore di questi quadri e della scrittrice di quelle parole, e tante altre molto più belle, cari amici morti prematuramente tanto tempo fa: Miro e Paola Cusumano.)

Che cosa potevo capirne? Eppure ne fui assolutamente conquistato. Mi ricordo guardare incantato le riproduzioni in bianco e nero di quelli e altri quadri astratti sul “Parametro” rivista, al liceo, e mostrarli ai miei compagni di classe. Perché mi affascinarono? Sgombriamo il campo da un motivo, che pure c’era. Quel fascino era il primo segno di uno scontro generazionale che due anni dopo, nel 68, sarebbe esploso: quei quadri e quelle scritture mi sembravano il “nuovo” rispetto al “vecchio”, al tradizionale, che mi veniva trasmesso a scuola e dai genitori, mi sembravano qualcosa di finalmente “mio”, una “mia” scoperta. Ma lo stesso valeva anche per gli “urlatori” (Tony Dallara, poi Celentano ecc.) rispetto ai cantanti dei miei genitori (Nilla Pizzi, Claudio Villa e così via), e tuttavia non avrei sviluppato nessun particolare interesse per quel genere di musica e i successivi. Inoltre quel motivo, per quanto forte per qualche anno, tanto da farmi andare a Parigi senza mettere piede al Louvre, ma passando ore a una mostra di Soto, non sarebbe durato: quegli stessi pittori astratti m’insegnarono a vedere Piero della Francesca, l’arco a tutto tondo del romanico ecc.

C’era anche, a motivare quel fascino, la bellezza. È vero, quei quadri e quei testi mi sembravano belli. Ma dire bellezza è dire tutto e dire niente. La bellezza è un sentimento (perché, visto dalla prospettiva di chi dice “che bello!”, è un sentimento) complesso, costituito da più sentimenti che si fondono assieme. Non è un capire: al massimo fa intuire che c’è qualcosa da capire, qualcosa che vale la pena di capire. E inoltre questo qualcosa può stare nell’oggetto che fa dire “che bello!” quanto in colui che dice “che bello!”. L’educazione alla bellezza sta proprio, a mio parere, in questo andare avanti e indietro fra l’oggetto e se stessi per discernere l’uno dagli altri. Per mio padre e mia madre erano belli i “merletti” (così dicevano tanti: “sembra un merletto”), cioè quegli intrecci in pietra nelle guglie gotiche o in oro e argento in cornici e accessori in chiesa che facevano dire: ooohhh! Mentre dei quadri di Miro mio padre diceva: “E questa sarebbe arte? Allora sono capace anch’io”. Io stesso, la prima volta che vidi la Scala a Milano da bambino, rimasi deluso dalla sua sobrietà: era famosa e quindi doveva essere bella, cioè tutta “merletti”, invece… Poi capii che quella “bellezza” non stava nell’oggetto ma in me stesso (o in mio padre), in un culto della sovrabbondanza e della ricchezza che corrispondeva a questo, a quello e a quell’altro, e non mi piacque più.

Ma allora, riprendo, che cosa mi affascinò in quei quadri e quegli scritti? Cercando di riandare a quelle mie emozioni da adolescente, pur sapendo che il senno di poi e la distanza nel tempo può travisarle, mi sembra di poter dire che ad affascinarmi, inizialmente, fu soprattutto un senso di vuoto, di assenza, di silenzio. Vuoto rispetto a che? Al pieno del “significato”. C’era un senso di liberazione da quella che potrei chiamare la “dittatura del significato”. L’ho riprovato ultimamente, visitando un paio d’anni fa il Museo del Novecento a Milano, quando, dopo un’infinità di ritratti e paesaggi in pittura e scultura del gruppo di Novecento, e di Sironi, Martini, Casorati, Carrà, tutti densi di “significato”, tutti ansiosi di dirmi qualcosa (ma non li sto liquidando in blocco, eh, ci mancherebbe: sto raccontando un “sentimento” provato in quel momento lì), dopo tutta quella pesantezza, mi sono trovato di fronte le piccole sculture degli anni Trenta di Fausto Melotti: modeste, rigorose, ariose, libere.

Questo avevo provato di fronte a quei quadri astratti e a quei testi teatrali, quelle prose, quelle poesie, da adolescente: di avere trovato finalmente qualcuno e qualcosa che non voleva ficcarmi in testa questo o quello, che non voleva imbottirmi autoritariamente di “significati” (non va dimenticato, certo, che i miei insegnanti, a parte una, insegnavano letteratura e poesia parafrasando i testi: questo significa questo), ma che mi diceva qualcos’altro (non è che non mi dicesse niente), però me lo diceva invitandomi a essere attivo, a cercarlo questo qualcos’altro, lasciandomi spazio. Non sto quindi facendo l’apologia dell’assenza di significato, ma mettendo in discussione ciò che a volte s’intende per “significato”: questo significa questo.

Scoprii che cosa mi dicevano? Un po’ credo di sì. Parlavano di pulizia, essenzialità, rigore, che sarebbero diventati presto, per me, messaggi morali, etici e politici. Parlavano di un mondo radicalmente “altro”, di forme a se stanti e parole (relativamente) a se stanti che si coniugavano formando un mondo che non era e non voleva essere un’imitazione di quello “reale”. O meglio, parlavano di “mondi” altri, perché dopo la pittura astratta geometrica avrei conosciuto Mirò, Kandinsky, Klee, Hartung, Wols, l’informale ecc., e avrei visto configurarsi altri mondi in cui prevalevano il gioco gioioso, o la leggerezza, o l’energia del gesto, o la cupezza. Ma, soprattutto, parlavano tutti di “gratuità” o, usando un altro termine, di “valore in sé”. Nessuna di quelle opere voleva avere un “significato” nel senso convenzionale o tradizionale del termine, nessuna voleva “stare per” qualcos’altro. La liberazione dalla “dittatura del significato”, per me, significava questo. Ero preparato quindi a scoprire, qualche anno dopo, il vero demonio al cuore della “dittatura del capitalismo”: la trasformazione di tutto in qualcosa che sta per qualcos’altro la cui espressione per eccellenza è ovviamente il denaro, che sta per il lavoro, che sta per la merce, che non sta mai in sé eppure è ciò su cui il mondo si fonda. Poi, come sappiamo tutti, questa consapevolezza si ampliò fino a capire che le stesse persone, le stesse vite, per la logica del capitalismo, non hanno valore in sé, ma… Appunto, lo sappiamo tutti. E iniziai a stupirmi a sentir dire, da compagni, che l’arte astratta era “asociale”, che la poesia doveva essere “comprensibile” eccetera. E, confesso, mi stupisce tuttora.

Ma queste cose, per quanto un po’ generiche, come mi arrivarono? Non attraverso una comprensione che avesse per protagonista la mente. Pensieri attraversarono la mente subito, certo, e alcuni sarebbero divenuti convinzioni, concetti esprimibili in parole (qualcuno d’altronde ho cercato di esprimerlo qui). Ma i concetti non avrebbero mai non solo esaurito quadri e scritti, questo va da sé: non erano nemmeno davvero contenuti nei quadri e negli scritti. Erano, e sono, il frutto di un rapporto con quei (e tanti altri) quadri e scritti. Un rapporto nato e che nasce dall’esperienza di sentimenti che inducono a intrattenerlo: bellezza, essenzialità, rigore, pulizia, gratuità eccetera. E a fare esperienza di questi sentimenti, mi sembra, non è principalmente e prevalentemente la “mente ragionatrice” (qui taglio un po’ con il coltello: non è che creda che esista la fredda ragione da una parte e il caldo sentimento dall’altra, ma addentrarmi in questo discorso, no, è troppo!). A farne esperienza è in qualche modo il corpo. Non è solo la mente a “capire”, ma anche il corpo. Qui non so spiegarmi meglio, ma né dà testimonianza evidentissima, mi sembra, la musica: sono convinto che se non avessimo un cuore che pulsa, un respiro fatto di inspirazioni ed espirazioni, un sangue che fluisce, la musica per noi non potrebbe esistere. E questo vale anche per la poesia, con il suo andare a capo invece di formare una lunga linea continua, le sue eventuali rime, le sue assonanze, allitterazioni, i suoi ritmi.

Tutto ciò, lo riconosco io stesso come un mio limite, mi ha anche portato a una deformazione: leggendo una poesia tendo a stare molto più attento al suo ritmo eccetera che al significato delle sue parole, e di fronte alle poesie troppo “comprensibili” mi viene sempre da chiedermi: ma se voleva dire questo perché non l’ha detto in prosa? Il che mi porta a un ultimo punto (scusate la lunghezza, ma non si tratta di questioni proprio facili). Non sono d’accordo con l’idea di Grandinetti di “lingua condivisa”. Secondo me una lingua condivisa non esiste. Cioè, per gli italiani è l’italiano. Punto. Esiste, come insegnava Saussure, una “langue” che però sta ovunque (in tutte le parole in italiano che sono state pensate, dette e scritte finora, nella Divina Commedia e nella nota della spesa, al Parlamento e in camera prima di addormentarsi). Sta ovunque a pezzetti, cioè non sta intera in nessun posto. Ed esiste una “parole”, una “langue” messa concretamente in atto, che sta in innumerevoli posti (nella Divina Commedia ecc.), ma senza “langue” non esisterebbe. Poi, certo, esistono livelli di competenza linguistica, lingue settoriali, gerghi ecc. Ma non sono neanche d’accordo con Ennio nel paragonare la difficoltà di certi linguaggi poetici a quella del “linguaggio specialistico dell’informatica”. La lingua di una poesia non è mai, secondo me, una lingua specialistica (anche se, certo, può usare termini specialistici di questo o quello specialismo). Per capire un testo di informatica si può studiare informatica; per capire Pound, che cosa si può studiare?

Però, è vero, esistono atti di “parole” per iscritto che chiamiamo poesie e atti di “parole” per iscritto che non chiamiamo poesie. Che cosa differenzia gli uni dagli altri? Secondo me a differenziarli sempre, a differenziare tutte le poesie da qualunque altro scritto è soltanto una caratteristica: la cesura del verso, l’andare a capo deciso dal poeta e non imposto dal bordo destro del foglio (o consigliato dal concludersi di un discorso-paragrafo). Gli scritti che non lo fanno non li chiamiamo poesie: magari, se vi riconosciamo altre caratteristiche più presenti in poesia che altrove, li chiamiamo “prose poetiche”, o diciamo che qualcosa è stato scritto “poeticamente”. Non si tratta, ovviamente, di una caratteristica da poco: è quella che differenzia tempo lineare da tempo non lineare. Ma nessuno ha mai detto, credo, che è questo a rendere una poesia “incomprensibile”. Il lessico invece no, non differenzia la poesia da altri scritti. Una poesia italiana è scritta in parole della lingua italiana (lasciamo perdere casi estremi che qui confonderebbero e basta, come “ono ono todào lota ma dina…”: sono appunto casi estremi e meriterebbero, se lo meriterebbero, un discorso a parte). Certo, una poesia può usare parole più difficili di un’altra, ma questo vale per qualunque scritto e anche parlato, poi dipende dalla competenza linguistica del lettore, e poi, insomma, ci sono i vocabolari. Se uno non conosce il significato di una parola può cercarsela e avrà imparato qualcosa (si può chiedere uno sforzo al lettore, o bisogna dargli la pappa pronta?). A questo livello, insomma, chiunque conosca l’italiano può capire una poesia in italiano. Poi ci sono le rime, i ritmi, le allitterazioni, le assonanze ecc. che, è vero, sono strumenti usati prevalentemente in poesia, ma non solo in poesia e non in tutte le poesie. E comunque non sono stati messi in discussione qui a proposito della “comprensibilità/incomprensibilità” delle poesie.

Che cosa resta? A me sembra che la difficoltà di capire una poesia sia sostanzialmente dovuta, e addebitata, alle sue violazioni della lingua “condivisa”, dell’italiano cioè, a livello grammaticale e sintattico. Ma le violazioni sono violazioni, non un’altra lingua. Non sarebbero violazioni se non esistessero delle regole; violando le regole le indicano. Chiunque conosce la grammatica e la sintassi dell’italiano le riconosce come violazioni. E, soprattutto, che cosa regolano le regole grammaticali e sintattiche? I rapporti. Rapporti spaziali, temporali, di causa ed effetto, di appartenenza ecc. Vogliamo chiedere alla poesia di non violare la “lingua condivisa” neanche a questo livello? Di usare il passato per parlare di ieri e il futuro per parlare di domani? Resteremmo, mi sembra, senza la possibilità di esprimere e vedere espressi dimensioni essenziali della vita, in cui per esempio il passato è presente, come nel ricordo o nel sogno, rapporti fra le cose esistenti ma nascosti, possibilità che non sono realtà. E tanto, tanto, tanto, altro.

E, forse soprattutto, rimarremmo incatenati a una configurazione dei rapporti spaziali, temporali, di causa ed effetto ecc. spesso connessa strettamente (anche se molto obliquamente) a una configurazione storica, sociale, economica e politica del mondo. Quella di “lingua condivisa” è a mio parere, al massimo, un’idea statistica: un tot per cento di italiani conosce questa parola o questo costrutto sintattico e un tot per cento no. Ma, a parte la difficoltà e probabilmente l’impossibilità di mettere dei numeri al posto di questi “tot”, e a parte la mia convinzione (che ovviamente si può non condividere) che la comprensibilità a livello lessicale, grammaticale ecc. di un testo sia soltanto un aspetto di ciò che un testo trasmette, del suo significato in senso ampio, c’è che la comprensibilità di un testo (e non solo poetico) è socialmente condizionata in modo enorme. Qui ci vorrebbe, forse, uno psicologo sociale, ma moltissime volte ho constatato, per esempio, che a trovare “difficile” un testo letterario sono più le persone di mezza cultura, che svolgono un lavoro intellettuale (insegnanti, avvocati, medici ecc.) senza essere “intellettuali” in senso stretto, rispetto alle persone di scarsissima o nessuna cultura, che svolgono lavori manuali ma, ovviamente, sentono il desiderio di leggere. E spesso ho pensato che, forse, il punto è proprio il desiderio. Cioè che chi presume (incoraggiato dai media, certo) di essere già “all’altezza” del mondo che poesia e letteratura possono aprire si ferma lì. Anzi, taccia di superbia chi scrive cose che non capisce (“roba da intellettuali”). E chi invece sente il desiderio, il bisogno di arrivare all’altezza di quel mondo si sforza. Ho esitato un po’ prima di scrivere “all’altezza”, ma invece sì: la poesia, la letteratura, l’arte, la musica, e anche la filosofia e molte altre cose sono più “alte” di tante altre: sono di maggiore valore, sono capaci di accrescere la consapevolezza, di acuire la sensibilità.

Questo non significa ovviamente che non ci siano poesie “difficili” che non valgono niente e in cui la difficoltà è soltanto un fumo che maschera l’inconsistenza. Come non significa che non ci siano poesie “facili” che valgono eccome. Saba è il primo nome amato che mi viene in mente. Ma non mi sembra che la maggiore o minore difficoltà sia un criterio per distinguere una poesia che vale la pena leggere da una che non vale la pena leggere. D’altronde non credo che, al riguardo, esista alcun criterio affidabile. Sta a ogni lettore. Però ho constatato su me stesso, lettore di poesia saltuario, che spesso la difficoltà di una poesia non è che il segno della chiusura di alcuni dei miei sensi. La poesia si sforza di aprirmeli proprio con la sua incomprensibilità, come se mi dicesse: guarda che se non li apri non capisci. Però non ci riesce. Poi, di punto in bianco… A lungo ho letto le poesie di Angelo Lumelli senza capirci niente, finché un giorno, chissà perché… NO!!! Questo non ve lo racconto! Vi ringrazio per la pazienza,

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5 Commenti

  1. è da un po’ che scrivo poesie e spesso mi sono trovato di fronte a questo argomento (Comprensibilità / incomprensibilità in poesia). Leggendo le poesie mi trovo spesso nella condizione di dover interpretare con molte difficoltà quello che cerca di esprimere l’autore per questo nelle mie poesie cerco di essere molto COMPRENSIBILE.
    Oggi leggendo il suo articolo però mi sono dovuto un poco ricredere (Questo avevo provato di fronte a quei quadri astratti e a quei testi teatrali, quelle prose, quelle poesie, da adolescente: di avere trovato finalmente qualcuno e qualcosa che non voleva ficcarmi in testa questo o quello, che non voleva imbottirmi autoritariamente di “significati” ma che mi diceva qualcos’altro però me lo diceva invitandomi a essere attivo, a cercarlo questo qualcos’altro, lasciandomi spazio.
    Nessuna di quelle opere voleva avere un “significato” nel senso convenzionale o tradizionale del termine, nessuna voleva “stare per” qualcos’altro. La liberazione dalla “dittatura del significato”, per me, significava questo.)
    ma comunque resto dell’idea che quello che uno vuole esprimere deve essere percepito abbastanza facilmente da chi legge.
    Non che non si debba compiere uno sforzo per capire ma nemmeno che si deva vagare nella testa di che scrive per cercare di cogliere il significato.

    • Caro Cesare, grazie del commento, io non scrivo poesia (anche se nella vita, confesso, qualche specie di poesia l’ho scritta), ma, saltuariamente, la leggo. E di fronte a certi poeti difficili, anche ritenuti grandi, mi sono arreso: non capivo con la testa e, nello stesso tempo, non provavo quel tipo di esperienza, non mentale, che fa dire: ecco! Di fronte ad altri poeti, non meno difficili, questo “ecco!” invece me lo sono detto. Perché? Tendo a pensare di avere io qualche “canale” interno più aperto e qualcuno più chiuso, ma che qualche poeta potrebbe, un giorno o l’altro, aiutarmi ad aprire un po’. Comunque, anche quando mi sono detto “ecco!”, l’ho “capita” quella poesia? Mah, diciamo che da allora mi ha accompagnato, m’è tornata in mente in connessione con questo o quello. E forse è questo che io trovo prezioso, per me, nei versi: non il momento in cui li “capisco”, ma il lungo periodo in cui “sto”, convivo, con essi, in cui li sento echeggiare. C’entra e non c’entra, ma quando penso a queste cose mi viene sempre in mente un passo di Wittgenstein in cui lui si chiede che cosa significa capire la musica, e si risponde: forse significa muovere le dita a tempo mentre la si ascolta. Un caro saluto, Massimo

  2. “Ma non mi sembra che la maggiore o minore difficoltà sia un criterio per distinguere una poesia che vale la pena leggere da una che non vale la pena leggere. D’altronde non credo che, al riguardo, esista alcun criterio affidabile.”

    Già, non esistendo un teorema per la decidibilità a priori del valore poetico, per sapere se vale la pena di leggerla, un poesia, bisogna proprio leggerla. (Chiaro che, se di un certo autore, leggi consecutivamente tre porcherie, poi ti passa la voglia di proseguire con la quarta.)

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