L’utente al guinzaglio. Qualche appunto preliminare sulle strategie punitive di Facebook
Di Ornella Tajani
Che Facebook sia un eccezionale generatore di ossessioni è ormai fuor di dubbio. Fra quelle che riguardano il rapporto tra il singolo utente e il resto della comunità, l’ossessione principale mi pare si articoli in tre bisogni: essere cercati, apprezzati, riconosciuti. Per cui diventa sempre più importante che io mi renda: disponibile, attraente, precisamente identificabile. Il che significa che a) passo sempre più tempo su FB, b) mi sforzo di essere divertente, colta, accattivante e c) mi impegno a restituire ai miei amici l’immagine di me in cui mi piace riconoscermi – e non, ovviamente, quella più veritiera.
Non è certo la più grave delle menzogne: anche nella vita reale* cerco di espormi sotto una luce che mi esalti. Ma, nella vita reale, so per certo che prima o poi sarò scoperta: uscirò, volontariamente o meno, dal raggio di luce che avevo diligentemente posizionato, dando all’altro la possibilità di vedere le mie macchie e paure, cioè tutto ciò da cui avevo cercato di epurare la mia immagine.
Facebook, invece, concede molti più filtri e la verità –più o meno presunta- si condensa in una serie di elementi prêt-à-porter. Una regola importante è ad esempio quella dell’omissione: ci sono cose che evito di dire, scrivere, postare – non (solo) per pudore, ma (soprattutto) perché corrono il rischio di risultare antiestetiche.
Posso barare, insomma, ma non troppo: nella mia identità-24-ore occorre anche quel pizzico di verità che è uno degli elementi attrattivi del mezzo, in maniera simile al libro commercializzato con la fascetta “Una storia vera”. È necessario che io avvolga il mio profilo in una patina di realtà, sia perché è questo quel che pretendo dagli altri, sia perché altrimenti percepirei tutto il sistema come inutile, o poco divertente. Il gioco è tutto nell’ambiguità: ciò che leggo sulla bacheca di X potrebbe essere vero, perché so per certo che alcune delle informazioni inserite da X sono vere. Un esempio è quello della professione: raramente si mente sulla propria attività lavorativa, fatta eccezione per chi scrive cose inequivocabilmente, e più o meno intelligentemente, false. Al limite la si omette, forse perché è una delle informazioni più rapidamente verificabili.
Nella sincerità che Facebook sembra richiedere ai suoi utenti sta uno dei suoi apparenti paradossi: posso affermare di trovarmi alle Hawaii pur comodamente seduta in un soggiorno sulla Tiburtina; posso crearmi un secondo profilo nel giro di tre minuti, con dati completamente falsi, a patto di usare un indirizzo email reale; ma non mi è permesso cambiare il mio nome più di tot volte. Quindi, almeno per ora, posso farmi una e trina ed essere al contempo Ornella, Giancarlo e Rita – ma Ornella, a parte una limitatissima libertà, deve restare Ornella. Esaurito il numero di cambi concesso, sono condannata a restare sotto pseudonimo – e forse non è un caso che, spulciando on line, non sia così semplice capire quanti sono i cambi consentiti.
È uno dei meccanismi punitivi di Facebook: il sistema che si nasconde dietro il vessillo del buon compromesso tra libertà e sicurezza ha le sue regole, che non vanno trasgredite. Il rispetto della propria identità è una di queste, e vale per tutti. Nel novembre 2011 il social network è arrivato a bloccare l’account di Salman Rushdie perché quello con cui lo scrittore è noto a tutti è in realtà il suo secondo nome; la richiesta di diventare Ahmed Rushdie ha provocato una piccola rivolta su Twitter, alimentata da qualche caustico messaggio del protagonista: «è come chiedere a J. Edgar di farsi chiamare John Hoover», e poco tempo dopo l’account originario è stato ripristinato.
Naturalmente dietro questa rigidità non c’è niente di etico: i cambiamenti di nome sono limitati perché confondono i sistemi che raccolgono dati e schedano gli utenti a fini commerciali. Facebook deve poter ricollegare con certezza, a un unico account e nome, le preferenze espresse dall’utente; ed è emblematico che, nelle policies sull’argomento, all’utente si richieda come prima cosa di usare non il nome che ha sul passaporto o sulla carta d’identità, ma quello che compare «sulla sua carta di credito»: il nome del cliente, non quello dell’individuo.
Per le stesse esigenze di chiarezza e “trasparenza”, da vari mesi non è più possibile conservare un profilo invisibile per evitare di essere reperiti attraverso il motore di ricerca: se ci sei, bisogna che ti si veda. Il progressivo allargamento delle maglie della privacy, che comporta la riduzione delle limitazioni che l’utente può selezionare, è sintetizzato qui, per quanto riguarda il periodo 2005-2010, e qui, con un grafico che richiama alla mente un’epidemia.
Diverse volte si è associato il social network al Panopticon di Jeremy Bentham, il carcere progettato in modo che una sola guardia potesse sorvegliare al tempo stesso tutti i carcerati, senza che questi riuscissero a capire chi era sotto controllo – concetto ampiamente utilizzato da Foucault e ripreso in tempi più recenti anche da Bauman, a proposito della globalizzazione e dell’era Internet. Bauman ha suggerito l’opportunità di sostituire a questo, come modello rappresentativo, il Synopticon: non più i pochi guardano i molti, ma i molti guardano i pochi, ossia le celebrità. Per quanto riguarda specificamente Facebook, però, il caso mi pare essere un altro ancora: molti guardano molti; molti sorvegliano molti. Io sono sorvegliata, e posso eventualmente essere punita: da FB, dalla comunità e dal singolo.
Difatti i meccanismi di punizione previsti da Facebook non richiedono necessariamente l’intervento “del sistema in persona”. Un caso di punizione da parte della comunità è ad esempio quello del gradimento: se pubblico un post che non riceve alcun like, l’algoritmo matematico che regola il social network mi fa scendere di un gradino nella scala della popolarità, il che significa che il mio post successivo sarà un po’ meno “sponsorizzato” o visibile sulle home altrui. Laddove cambiando il mio nome troppo spesso avevo trasgredito la regola dell’identità, stavolta non ho assolto il mio compito d’essere interessante: che io sia interessante è per Facebook essenziale, in modo ch’io riesca ad attirare sulla mia bacheca una schiera di internauti sempre più numerosa. Lo step che porterà al vendere spazi pubblicitari sulle bacheche degli utenti più popolari è dietro l’angolo; non c’è niente di fantascientifico nell’idea di nuovi lavori come l’agente pubblicitario o il consulente d’immagine che operino unicamente all’interno del social network. E tuttavia, il democratico Facebook, in quanto sistema, non può punirmi perché non so essere interessante: fa in modo così che a farlo sia la comunità.
Un caso molto affine ma non identico è quello dell’utente poco assiduo: meno scrivo e meno i miei post saranno cliccati; più parlo e più sarò apprezzata. È statistico ma è al tempo stesso una guerra al pudore: il mezzo stimola in modo subliminale a pubblicare sempre di più. Se non lo faccio sono condannata a una marginalizzazione via via crescente. In maniera speculare, come è spiegato in questo articolo, Facebook si interessa sempre di più a quello che non diciamo: nella follia del collecting data, i vari sistemi ora si occupano anche di scoprire che cosa avevo scritto e ho infine deciso di non pubblicare sulla mia bacheca o in un commento a un post altrui; basta che il contenuto del messaggio che non ho inviato sia superiore ai cinque caratteri e che la mia indecisione sia durata più di dieci minuti. L’imperativo è dire, e il corollario è scoprire perché non si dice, o non si dice abbastanza.
Concludo con l’esempio di punizione da parte del singolo, che esula solo apparentemente dal discorso su quel che Facebook vuole o non vuole da noi. Si tratta della possibilità di bloccare un utente amico nel caso in cui questi ci abbia fatto un torto o ci abbia infastiditi in qualche modo: magari in un modo che infastidisce anche Facebook, ad esempio con la pubblicazione di contenuti sconvenienti ma non abbastanza da consentire al sistema di intervenire. Il termine tecnico è bannare. Un po’ di tempo fa mi è capitato, in una conversazione con un’amica francese, di tradurre erroneamente il termine alla lettera, bannir (laddove in francese si dice semplicemente bloquer), e di sentirmi rispondere con un sorriso «Bannir, c’est un peu violent». Il termine però non è meno violento dell’azione: bannare un amico significa avere la possibilità di punirlo cancellandolo completamente. Non solo io sparirò dalla sua lista di amici e lui dalla mia, ma qualsiasi suo commento, anche su altre bacheche, diventerà per me invisibile, e così i miei commenti per lui. Il nostro passato virtuale sparirà e non sarà più possibile cercarci neanche attraverso il motore di ricerca.
È un’operazione che rientra nelle iperpossibilità che il virtuale offre. Nella vita quotidiana non esiste un equivalente della messa al bando in stile Facebook: se smetto di rivolgere la parola a qualcuno, ciò non significa che non possa capitarmi di ritrovarmelo al bar o a una festa; magari un comune conoscente mi darà involontariamente qualche notizia di lui. Bannandolo invece non corro nessuno di questi rischi: l’altro utente è, a tutti gli effetti, come morto.
È una libertà che Facebook mi concede per rendere più dolce la mia integrazione, ma è anche una delega di sorveglianza che il sistema rilascia al singolo. Bastone e carota al tempo stesso, in modo che molti guardino molti e molti sorveglino molti.
*Mi è stato fatto notare che ormai la vita sui social media non è meno reale di altre, e che dunque è desueto continuare a tracciare una linea di demarcazione fra le due. Concordo; ma è pur vero che, all’interno di un discorso, ogni tanto mi capita ancora di dover indicare specificamente quella porzione di vita in cui interagisco con oggetti diversi da uno schermo. In attesa di trovare una migliore definizione (o forse di eliminare definitivamente l’esigenza della separazione), continuo per il momento ad appiccicarle la vecchia etichetta.
quant’è brava la tajani
fortunatamente sui network come dovunque c’è sempre anche una minoranza sostanziosa che ribellandosi per natura ai cliché e sfuggendo a ogni logica(spesso anche a dispetto di una volontà propria)riesce in qualche modo a sparigliare le carte sfuggendo ai calcoli di coloro che per natura vivono speculando sull’inerzia di tutti coloro che vivono imprigionati dentro gli schemi mentali(spesso complicando dannatamente le cose alla buona comunicazione, certo)
http://www.covermesongs.com/MP3s/FullAlbums/TheVUandNico/FemmeFatale.mp3
Intervento perfettamente calzante con le celebrazioni del trentennale foucaultiano. Vogliamo inoltre far osservare come, con meccanismo compiutamente a spirale, qualsiasi critica della ragione “sociale” per ottenere diffusione non possa esimersi dal passare attraverso i networks legittimandone così l’artificio. Luca Ormelli
Ecco, ma sarebbe anche interessante capire che la portata psicologica di facebook ha effetti diversi sulle persone, e capire il perché, allo stesso modo del perché nella vita reale ci sono persone più spontanee e persone più accorte, come più espansive e meno; emerge la coscienza come autoinganno e risorsa per socializzare. Invece termini come controllo, sorveglianza e punizione dànno l’idea di un’ossessione paranoica francamente ingiustificata considerato il mezzo, ovvero facebook.
Articolo molto bello e claustrofobico, avrei voglia di uscire da FB ora. La dicotomia tra la vita reale e quella virtuale ormai è inesistente e ne sono sinceramente preoccupata: siamo vittime consapevoli di noi stessi e del mezzo, perché abbiamo voluto dimenticare che FB è un mezzo e lo abbiamo trasformato in fine. La logica dell’apparire = essere fagocita il nostro vivere quotidiano, ma forse è sempre stato così, solo che gli strumenti erano altri. Ma qui si “scende” pericolosamente nell’ambito filosofico e non vorrei mai elevare il social in questione a argomento di dibattito esistenziale ( o è già troppo tardi?).
http://cettadeluca.wordpress.com/2014/02/20/non-costruiamo-castelli-di-carta/
a margine, sui commenti:
“abbiamo voluto dimenticare che FB è un mezzo e lo abbiamo trasformato in fine”, scrive Cetta.
In realtà, contro questa potentissima evidenza del (nostro) senso comune, nessuna tecnologia, e quindi nessun programma, e nessuna forma di social-network è semplicemente un mezzo. Pare che Macluhan sia passato invano. Ogni volta il soggetto si trova dentro nuove possibilità, ma dentro anche nuove impossibilità, nuove condizioni, nuove forme, da cui si fa determinare. La forma FB è tutt’altro che neutrale e neppure malleabile: è una gabbia molto limitata e rigida, ma perfettamente adatta a mettere in luce certe sfere riconducibili all’io sociale.
D’accordo con [h], anche a me interessano soprattutto gli effetti che il relazionarsi su Facebook ha sul relazionarsi al di fuori di Facebook (uso apposta una ripetizione per evitare etichette). Quando all’inizio parlo di ossessione, però, mi riferisco al rapporto dell’utente col mezzo, non al sorvegliare o punire, che difatti non suscita alcuna paranoia cosciente: al contrario, il sistema è pensato per non suscitarne, in quella nebbia di confuse e fittizie libertà che intendevo un po’ smascherare. L’ossessione riguarda invece, fra le varie, il desiderio sempre meno gestito di autorappresentarsi – solo uno degli aspetti che, partendo o acuendosi su Facebook, possono investire altre sfere di vita; così come cambiano, credo, la capacità di socializzare o il sentimento di curiosità per l’altro. Naturalmente la singolarità dell’utente è fondamentale nello studio dell’approccio, difatti le riviste accademiche americane sono ormai piene di analisi caso per caso: l’effetto dei social su soggetti ansiosi, o sull’autostima, o sulla percezione del livello di soddisfazione della propria vita, ecc..
Alcune dinamiche riguardano però l’utente in quanto tale – e, da questo punto di vista, non credo ci sia il rischio di sopravvalutare la portata del mezzo.
(Devo capire perché l’unico sistema per gestire la ripugnanza sociale del mezzo per me sia quello di disinnescare il congegno di propalazione delle “notizie”. Cioè io blocco gli aggiornamenti di tutti gli utenti-amici e mi riservo la libertà di seguire chi mi pare secondo le mie logiche. Da qualche anno seguo questo sistema. Altrimenti mi sembra di non avere alcuna libertà e di far parte d’un congegno stressante e maligno. E in qualche modo insidioso. Mah, ininfluente interrogazione sottovoce…)
[…] https://www.nazioneindiana.com/2014/06/24/lutente-al-guinzaglio-qualche-appunto-preliminare-sulle-str… […]
Eccellente articolo di Ornella Tajani. A proposito di Facebook segnalo qui in Nazione Indiana la recensione del lavoro del gruppo Ippolita Nell’acquario di Facebook.
Davvero interessante, grazie Jan: il depauperamento dei saperi, l’ammirazione per chi ci è simile (per cui, anche attraverso l’algoritmo regolatore dei like, si costituiscono reti nella rete che sono esattamente il contrario del confronto e del dialogo con l’altro: leggo e guardo sempre di più gli utenti con cui sono d’accordo; “mi piace”).
E poi una condivisione non necessariamente positiva – soprattutto quando mi ritrovo a bruciare sinteticamente su FB informazioni o riflessioni che in precedenza avrei discusso a voce, e in maniera più approfondita. Almeno in parte si asciuga la socialità: spesso non ripeto (anche perché non ne ho voglia) quello che ho già detto su FB (o, in ogni caso, lo sintetizzo). Il tutto in un’ottica di veloce gratificazione.
Hai ripercorso con intelligenza il fenomeno provando a inscriverlo in una schema logico contrapposto a quello che riconosciamo governare le nostre relazioni “ancient régime”. E riconosco che anche tra le persone a me vicine, a un certo punto i piani “facebook” “realtà” si confondono nel parlare di relazioni tra individui. Com’è che però facciamo fatica ad accettare facebook come una integrazione ai mezzi che abbiamo avuto fin’ora per mostrare, flirtare, condividere, lamentarci? Certo abituarci a un nuovo linguaggio e trovargli il suo specifico ruolo, per integrare senza sovrapporsi, creando devastazione di quanto era prima, è il vero punto. E credo che come genere, noi umani, in questo saremo perdenti. Un po’ perchè non abbiamo resistito a nessuna delle tentazioni folli che ci hanno devastato in passato, un po’ perchè Facebook vuole i nostri soldi e li cercherà razionalizzando l’irrazionalizabbile. Ciao, fm
Facebook ha principalmente una funzione edonistica del proprio Ego, si vuole apparire in modo da interessare gli altri, con i propri interessi e le attività che sono codificate dalla tribù di appartenenza.
E’ anche un mezzo per veicolare, informazioni poco raggiungibili e questo è forse il lato più creativo.
Avendo la passione della scrittura il mio lato edonistico io lo proietto in modo distorto e criptico nei personaggi che rappresento nelle mie storie e proprio per non creare un Facebook privato mi astengo da qualsiasi scritto autobiografico.
Vedo anche la narrazione di tante solitudini in Facebook, esse creano relazioni fantastiche nell’irreale della distanza, dimentiche che l’amicizia è confronto anche fisico di simpatie, di interessi e di conflitto.