les nouveaux réalistes: Paolo Valoppi
Regoli
di
Paolo Valoppi
«’Mazza quanto è bono ‘sto hamburger».
Il tono solenne, grave, con una punta di compiacimento, come si addice a chi in questa serata sta mangiando per la prima volta i panini e i piatti dell’Hamburgeseria Burger di Piazzale Flaminio, quella nuova, “quella che ha aperto da poco”. Le birre, gli sfilacci di pollo, le patate croccanti, gli anelli di cipolla, i bastoncini di mozzarella panati, la cameriera e i suoi jeans aderenti che i commensali fissano con golosità fagocitante, con le bocche semiaperte e i bocconi ancora nodosi e sfibrati, impastati tra i denti e le gengive.
«Quello di T-bone è molto meglio».
Sulle pareti del ristorante ci sono le foto in bianco e nero di pugili che si allenano, che combattono, che alzano al cielo un trofeo o una cintura, foto di palestre e di ring del passato, di sacchi consumati e guantoni usurati, spellati. Il ristorante si allarga per tre sale una contigua all’atra, il vociare dei clienti è un flusso continuo e condiviso, modulato, un dedalo di chiacchiere rizomatiche e frammentarie, risate improvvise, gridolini striduli, bocche mosce masticanti e pastose.
«Io l’hamburger migliore l’ho mangiato a New York».
La conversazione procede per accumulo di immagini, di parole, di intuizioni subito convertite in verbo, un sovrapporsi di idee e lemmi che ricorda i regoli colorati con cui i bambini giocano sovrapponendo i tasselli policromatici fino ad arrivare in cima alla piramide, l’estremità architettonica su cui poggia il più piccolo tra i pezzi: il regolo bianco. La costruzione verbale divora ogni tassello precedente e le parole divengono pesanti come pietre, come sassi fiondati nel vuoto.
«Io l’ho mangiato a Londra. Troppo buono».
Si arriva al regolo bianco senza troppi indugi, di fretta, senza verificare l’esattezza del regolo marrone, la solidità di quello arancione, la coerenza e la profondità di quelli verdi e gialli, il piacere della loro comunione, della loro narrazione concatenata, condensata; una percussione a pressione, un presente battente che ingurgita ogni tentativo di continuità comunicativa. In questa conversazione si può solo esordire.
«Dobbiamo provare quello a Piazza Cavour».
L’esperienza culinaria come unica militanza possibile, il discorso sul cibo come anestetico e sedativo, una zona franca in cui potersi rifugiare, a cui potersi abbandonare, un territorio neutro dove chiunque è autorità e prestazione. A questo tavolo hanno ordinato quattro Bacon Cheeseburger con formaggio Cheddar e insalata, maionese e ketchup a parte; un panino per quattro persone, un esercizio di condivisione gastronomica, un’esperienza unica e multiforme per un giudizio finale che deve essere netto e definitivo. “Che voto gli dai?”
«M’hanno detto che quello a Piazza Cavour non è niente di che».
Ogni incursione, anche la più partecipata, la più attiva, si risolve in se stessa, si esaurisce nel suo ritmo e respiro, e subito dopo essere stata pronunciata, annunciata, sembra un’esperienza lontana, inutile, trascurabile. I regoli si ammucchiano, la piramide cresce e l’impianto narrativo si scarnifica fino all’essenzialità e all’imprecisione. Invece di avvicinarsi all’esattezza, ogni parola si allontana dal suo significato, dalla sua levigatezza formale, dalla sua esplosività. Ogni parola si accontenta.
«Vi porto qualcos’altro ragazzi?»
L’improvvisa irruzione della cameriera – alta, dai fianchi corti – è come se polverizzasse in pochi secondi l’impalcatura verbale edificata nei momenti precedenti alla sua invasione; la ragazza crea nuovi percorsi possibili (“qualcosa ce lo potresti dare sicuramente”), nuove incertezze culinarie (“forse un dolce me lo prenderei”), ma soprattutto proietta il tavolo e i suoi convitati verso l’atto conclusivo di questo cenacolo serale: il regolo bianco (“Vabbè, va’, portaci il conto”).
Al tavolo cominciano i riti del dopocena, le dita sui telefonini per controllare gli ultimi messaggi, le mail, le mani sui portafogli, tra le banconote, previsioni e scommesse sul toto-conto; qualcuno si alza per andare in bagno, smania per fumarsi una sigaretta, gli altri rimangono seduti con le gambe stese lungo il tavolo, le braccia allargate, la lingua che mulina sotto le labbra in cerca di residui pastosi, organici, in attesa del verdetto finale, del pezzetto di carta con la propria porzione di conto da pagare, il contributo doveroso a questa prestazione alimentare, a questa cena tra amici.
«Alla fine amo’ mangiato bene».
«Ma poi senza spende’ tanto».
«Pure il posto era carino».
«Voi che voto je date?».
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“La costruzione verbale divora ogni tassello precedente e le parole divengono pesanti come pietre, come sassi fiondati nel vuoto”.
Quanto è vero, in certi casi.
Lessico e sintassi sapientemente utilizzati per dare sostanza e rappresentare con ironia il nulla spacciato per conversazione e
condivisione.
Molto bella la struttura. Le quattro frasi dei ragazzi poste alla fine del racconto, sommate a quelle inserite nel testo, danno come risultato dieci. Come la cifra, come il regolo blu!
*arancione
Che stile assertivo e ricco!