Qui e ora ovvero opinioni di un disadattato
di Giorgio Mascitelli
Il verbo simultanare, coniato da Marinetti con il significato di rendere o evocare la bellezza della velocità e la magnificenza della frenesia, non ha goduto di grande fortuna: assente o quasi da vocabolari e repertori anche dell’epoca in cui il gran capo del futurismo era accademico d’Italia, tra gli scrittori usato sporadicamente o forse solo da Gadda per prendere in giro lo stesso Marinetti, perfino nel mio programma di scrittura appare sottolineato in rosso come un errore di battitura. Eppure la nostra società non solo simultana, ma simultana alla grande, continuamente, indefettibilmente.
Con l’esclusione di una piccola cerchia di tecnologi, di ricchi ( perché il denaro fa aggio anche sul simultanare) e di anestetizzati affettivamente, ciò oggettivamente fa di noi dei passatisti , ciascuno in misura maggiore o minore a seconda delle sue caratteristiche. Sicuramente il disadatto è più passatista dell’integrato, l’apocalittico più del riformista e il chiaro di luna più della tempesta perfetta, ma chi può dire in tutta coscienza di essere in grado di reggere il ritmo della simultanazione?
Il passatista guarda alle cose con pessimismo, ma questo non è un difetto del passatista, ma della situazione: infatti il passatismo si sviluppa con più frequenza quando il mondo futuro sembra richiedere un enorme sforzo di adattamento, anziché presentarsi come un mondo in cui sarà più facile adattarsi. Il difetto più grande del passatista non è dunque il suo pessimismo perché uno stato d’animo è un difetto passeggero, ma il fatto che, nostalgico del passato o costretto ad arroccarsi su di esso, non ne vede quegli aspetti che già richiamavano quel futuro che tanto gli spiace. Il suo difetto è cioè non capire il passato. Il vantaggio di questo difetto è che esso, a differenza del pessimismo, è emendabile, soprattutto ora che siamo quasi tutti passatisti.
Oggi ci troviamo a vivere in un mondo, come scrive Marc Augè nel suo L’antropologo e il mondo globale, in cui “l’ubiquità e l’istantaneità diventano l’ideale esplicito del mondo globale. Ora, lo spazio e il tempo sono la materia prima di ogni costruzione simbolica, di ogni impalcatura sociale e di ogni elaborazione individuale: l’organizzazione dello spazio e l’impiego del tempo definiscono e riassumono, fin dalla notte dei tempi, l’elemento essenziale delle attività umane.”. Se consideriamo questa osservazione sotto l’aspetto letterario e segnatamente narrativo, è possibile interpretarla come una forma di crisi dell’esperienza o meglio della possibilità del soggetto di fare esperienza e quindi di raccontarla. L’esperienza presuppone un tempo non istantaneo e una spazio non ubiquo. La crisi dell’esperienza, o addirittura la sua distruzione secondo Agamben, è un portato della costruzione della modernità ben prima che essa assumesse la forma globalista che oggi conosciamo.
Quello che l’ideale dell’ubiquità e dell’istantaneità porta con sé non è dunque un salto qualitativo, bensì un’accelerazione o un’intensificazione, che però rende più facile l’incontro con la realtà nella forma dello choc o della contemplazione fantasmagorica. L’esperienza con la sua lentezza narrativa fatica a trovare spazio, come se, dopo essere stata espulsa dall’ambito dei saperi scientifici e positivi, essa non trovasse più posto neanche nell’ambito della costruzione simbolica o culturale del rapporto del soggetto con il mondo. D’altra parte la costruzione di un senso, individuale o collettivo, dell’esistenza ha bisogno di questa elaborazione narrativa di ciò che si vive, che classifichiamo come esperienza.
Ovviamente questo stato di cose non ha una ricaduta immediata e meccanica sulla narrativa propriamente detta, però se prendiamo in considerazione alcuni autori come Houellebecq e Wallace, tra i più significativi della nostra epoca, è possibile notare tracce di tutto ciò. Nei romanzi di Houellebecq per esempio il protagonista vive una fase di pienezza di solito erotica, ma per il nostro discorso potrebbe essere di qualsiasi altro genere, che segue una fase di frustrazione e di cui in seguito viene privato dai capricci del caso, che siano la malattia oppure il terrorismo o l’intraprendenza di una ragazza troppo intraprendente. Caratteristica comune a questi personaggi è l’incapacità di uscire dallo stato di prostrazione in cui versano e di elaborare narrativamente la propria sconfitta, cioè di farne esperienza. Se vi è una qualche rielaborazione, essa è per così dire postuma e proviene da qualcuno che nella storia non c’entra.
Nel caso di Wallace abbiamo personaggi che letteralmente sono condotti al guinzaglio dai ritmi ossessivi di una società che fornisce in quantità industriale emozioni, attrattive, choc ed eventi di ogni genere, senza che sia possibile trovarne un senso o un filo conduttore. Sembra quasi che tutto cominci per la prima volta anche alla centesima. E in effetti essi si rapportano alla loro propria vita come un turista distratto al paese che sta visitando.
Anche nell’attuale successo della narrativa non finzionale o del romanzo documento è possibile ritrovare un riflesso indiretto della crisi dell’esperienza. La sottovalutazione da parte di questi autori dell’elemento finzionale e immaginativo della letteratura, notata da Paolo D’Angelo nella postilla contemporanea al suo Le nevrosi di Manzoni, e la contestuale fiducia nel fatto che la verità della letteratura risieda nel suo incorporare elementi del reale sono segni di una sfiducia nella narratività come elemento di comprensione del mondo. Infatti in letteratura la verità della narrazione non sta nella sua letteralità documentale, ma nella capacità di elaborazione simbolica del testo.
Mi sembra di poter dire che una delle contraddizioni più acute che vive la letteratura nella nostra epoca è quella tra le necessità di elaborare simbolicamente un senso della nostra vita oggi, e dunque verificare le possibilità dell’esperienza, e un’organizzazione sociale che attraverso la predominanza della virtualità ubiqua e istantanea tende a vanificare la possibilità e soprattutto la dicibilità dell’esperienza. Il sintomo dell’urgenza di questo lavoro narrativo è riscontrabile nella diffusa percezione del mondo come un caleidoscopio impazzito in cui tutto accade contemporaneamente perché appunto non c’è più esperienza della dimensione spaziale e temporale lente.
Tale percezione non è falsa in senso stretto, anzi ha una sua parziale verità, ma è solo una delle percezioni possibili e invece tende a diventare un assoluto. E’ assolutizzandola che diventa ingannevole. In questo senso la consapevolezza di non potere tenere il ritmo di questo mondo simultanante e l’accettazione del fatto che siamo superati continuamente mi sembrano le basi da cui un’esperienza può essere vissuta consapevolmente e può essere narrata. Questa consapevolezza è consapevolezza della propria finitudine. Solo nella consapevolezza della propria finitudine è possibile cogliere pienamente che, come nota ancora Augè, l’ubiquità e l’istantaneità non sono che due metafore di un dover essere irrealizzabile perché la vita invero continua ancora nei tempi e negli spazi che le erano propri.
Spero che mi si perdonerà la debolezza di concludere queste righe con l’auspicio che la narrativa diventi un terreno d’incontro tra lettori e scrittori non sprovvisti di o almeno in cerca di questa consapevolezza. Sarebbe la più attuale di tutte le circostanze inattuali.
Ti trovi davanti ad un piatto fumante di tagliatelle al ragù, e ti prende quest’ansia simultanante di condivisione, di essere istantaneamente e contemporaneamente in un’altro posto. Hai bisogno di certezze. Digitalizzi le tagliatelle e fissi lo schermo in attesa, finchè non compare il primo “mi piace” , poi 5, poi 10. A questo punto le tue tagliatelle sono diventate vere e reali, e presumibilmente avranno un buon sapore. Finalmente puoi iniziare a mangiare, soddisfatto. Sono ancora calde, e la tua esperienza è finita in un archivio akasico collettivo di miliardi di terabyte, quindi non andrà perduta.
Si, in questo senso sono anch’io un passatista.
Il problema maggiore è che la digitalizzazione della tagliatella ne conserva il simulacro o il ricordo di un’emozione, ma nulla sappiamo veramente del tuo rapporto con la tagliatella: il ragù l’hai preparato tu oppure te l’ha dato tua madre in una persistenza dell’infanzia? E se l’hai preparato tu, sei un gourmet solitario oppure vuoi impressionare qualcuno con le tue abilità? E ancora, hai comprato un vasetto già pronto o sei andato con cura a sceglierti la carne, il sedano, la carota e il pomodoro? E’ solo in questo quadro narrativo che la tagliatella diventa un’esperienza.
e con le penne degli scrittori?
grande pezzo Giorgio
effeffe
Proprio così. L’averla immediatamente condivisa, anziché averne analizzato ontologicamente il significato – magari assaggiandone una forchettata – nonché le motivazioni e le emozioni, ha impedito che per il nostro ipotetico buongustaio il suo piatto di tagliatelle diventasse un’esperienza. Tengo comunque a precisare come il mio personale rapporto con le tagliatelle al ragù – e le penne all’arrabbiata – sia molto meno articolato …
interessante, anche il passaggio a tavola di Gianluca. Però Marinetti odiava la pasta
effeffe
Sì, Marinetti voleva abolire la pasta e Venezia simboli del passatismo. Non vi ho risposto prima perché dovevo cucinare la pasta al ragù a mio figlio ( a proposito di narrazione dell’esperienza)
Grazie a entrambi per le belle parole