Feticismo della crisi e lotta contro la funzione pubblica (in Francia)

di Sergio Chibbaro

Bruno Le Roux, presidente del gruppo dei deputati socialisti alla camera francese, ha affermato lo scorso 12 febbraio che il governo stava studiando la possibilità di congelare gli scatti del pubblico impiego, all’interno di un ventaglio di possibili opzioni per il contenimento della spesa nel bilancio. La dichiarazione segue un’altra attribuita al ministro per l’educazione Peillon. Sebbene smentita dall’ormai ex primo ministro Ayrault (cosa che non rassicura minimamente), questa affermazione descrive in maniera esatta quale sia la linea politica dell’attuale governo socialista così come di quelli precedenti e più in generale di tutti i governi dell’Unione Europea.

Ricordiamo innanzitutto che i dipendenti pubblici soffrono già, in Francia, del blocco dell’indice dei salari rispetto all’inflazione dal 2010. Blocco che è stato protratto fino al 2017 e che implica che i salari non sono in alcun modo adattati all’inflazione. Questa misura si situa nella continuità della politica di moderazione salariale instaurata fin dal 1983-84 dal governi socialisti dell’epoca con la riforma della disindicizzazione, ovvero dell’eliminazione della scala mobile (si può dire che le riforme della presidenza Mitterand instauravano un «consenso di Parigi» neoliberale ancora prima di Washington [1]). Questa politica ulteriormente indurita dal 2000 ha fatto perdere ai salariati della funzione pubblica almeno tra il 25 e il 30% del loro potere d’acquisto in termini reali, secondo uno studio della CGT. Dunque si può affermare con tranquillità che una vera e propria guerra è stata dichiarata agli impiegati pubblici. Se si aggiunge à tutto ciò la legge LOLF (Legge organica delle finanze pubbliche, governo socialista Jospin), le varie leggi di modernizzazione RGPP-MAP che tendono niente di meno che a eliminare la funzione pubblica, le contro-riforme Pecresse-Fioraso che hanno gettato nel fallimento l’intero sistema scolastico e in special modo l’università, con un budget ridotto al lumicino e il gelo dei posti, si osserva una situazione piuttosto cupa del nostro mestiere, del rispetto che esso può suscitare nei nostri concittadini e del suo futuro.

Si potrebbe a questo punto controbattere che queste ultime riforme sono state applicate all’interno di un più vasto piano di austerità che riguarda tutti. Giustamente, analizziamo il problema nella sua generalità.

Dal 2009 una serie accelerata di misure d’austerità sono state giustificate dalla «crisi» e la necessità di ridurre a tutti i costi le spese pubbliche, in special modo al fine di diminuire il «nostro debito». Da cui l’imperativo di far dimagrire la funzione pubblica e il suo costo, e l’attitudine fascistoide di coloro i quali si attendono che i lavoratori accettino tutto ciò senza il minimo lamento per delle ragioni di ordine superiore, nell’interesse della nazione, addirittura.

Questo ragionamento totalmente fallace nasconde in realtà molti punti cruciali e costituisce uno dei numerosi esempi di alienazione che affliggono il nostro mondo. È il senso stesso delle cose che è stato alienato, quello delle nostre azioni come quello delle azioni decise per e dalla società. L’alienazione, quale è stata sviluppata dal Marx maturo ne «Il Capitale», è in effetti una categoria fondamentale per comprendere la nostra storia sociale [2]. Limitandoci in questo breve scritto a un solo aspetto, possiamo dire che il senso stesso della politica che ci riguarda nel modo più diretto (i nostri salari!) è stato totalmente perso di vista, occultato: la crisi di che cosa? Causata da chi? Chi ha contratto il debito? Perché? Quien sabe… ?

 A queste domande legittime, nella maggior parte dei casi non è stata data alcuna risposta né è stato offerto qualche argomento analitico, giacché la forza dell’alienazione risiede proprio nel rendere esterno e quindi estraneo ciò che è alienato, che perciò diviene misterioso, insondabile e un potente dominatore. Alcuni falsi ragionamenti sono presentati come indiscutibili o, in maniera ancora più mistificatrice, delle misure sono presentate come assolutamente ineluttabili, conseguenze di una fatalità contro la quale è inutile opporsi. Questo è inerente a un’altra forma essenziale di alienazione: la perdita del controllo collettivo e dunque della democrazia, che ci fa accettare l’impossibilità dichiarata di trovare alternative. Il senso della storia è stato tragicamente perduto.

In generale, le strategie economiche hanno assunto oggi un carattere grottesco; una piccola classe dominante (chiamata significativamente «il partito di Davos» da J. Faux [3]) accaparra la totalità delle ricchezze del pianeta, gettando così la maggior parte degli esseri umani nel disastro, compreso ormai nei paesi più sviluppati (a questo proposito si veda l’impressionante [4]). Ritorniamo alla nostra crisi. Si tratta dunque di un processo di alienazione che mistifica la realtà conducendo i lavoratori senza colpe a subire duramente la violenza di potenze a essi estranee (si tratta delle forze del capitale che hanno realmente causato la crisi) senza saperne il perché.

Cerchiamo di demistificare. Crisi dei bilanci pubblici? Crisi del debito? Non è vero niente.

In effetti si osserva nella maggior parte dei paesi europei dal 2009-2010 un deficit (differenza tra spese e entrate di uno stato) che aumenta e sorpassa il 3%, soglia indicata dai trattati europei, senza alcuna giustificazione scientifica, «massimale e consentita». Inoltre, molti stati hanno visto il loro debito pubblico, dovuto all’accumulazione dei deficit e degli interessi a pagare, aumentare vertiginosamente andando ben oltre il 60% del P.I.L., altra soglia fatidica dei trattati. La conclusione evidente, martellata da tutti gli esperti e governanti (che ovviamente non avevano visto niente di anomalo prima del 2007, ma anzi si felicitavano della politica dell’Unione) è la seguente: lo stato ha speso troppo, soprattutto per tutto ciò che è protezione sociale; bisogna per forza tagliare drasticamente. Il modello sociale europeo e in particolar modo quello francese è in fallimento e deve essere smantellato. Cosa su cui si sta impegnando con zelo il governo del presidente Hollande.

Purtroppo questa affermazione è talmente smentita da tutti i fatti e le cifre che è persino difficile sapere da dove cominciare.

Guardiamo per esempio il modello sociale. Tra il 2007 e il 2010 il deficit UE è stato moltiplicato per 10 (passa da 0.7% a 7%). Nello stesso periodo il debito UE aumenta di 20 punti (!) passando da 60% a 80%. Si dovrebbe presagire una vera esplosione di generosa spesa sociale; purtroppo si resta molto delusi. Se si tolgono le spese per la disoccupazione dopo il 2009, dovute alla crisi (alfine di evitare di prendere gli effetti per le cause), la spesa pubblica è rimasta la stessa, ovvero intorno al 25%. A guardare meglio essa è rimasta globalmente invariata fina dagli anni 90 [5] e addirittura diminuisce in Francia di qualche punto (intorno al 20%)!

Altra mistificazione: il conflitto inter-generazionale. Le pensioni e il livello di vita troppo elevato della generazione nata dopo la guerra metterebbe in ginocchio l’economia e i loro stessi figli (il nuovo primo ministro Valls lo ha riaffermato perentorio, con il piglio taurino che lo caratterizza, qualche giorno fa). Questa idea, largamente propagandata, partecipa senz’altro a diffondere un senso di colpa notevole negli anziani e una ceca frustrazione nei giovani, ma è una castroneria.

Si assiste ancora una volta all’alienazione del significato: anche fosse vero, chi ha vissuto al di sopra dei propri mezzi?

Se certuni lo hanno fatto, ci sono tre possibilità: 1) avere debiti privati; 2) trasferire i propri debiti al pubblico; 3) approfittare di una parte della popolazione che ha contestualmente vissuto al di sotto dei propri mezzi. Le cifre suddette escludono subito il 2° punto. Il primo punto certamente non concerne i lavoratori nella stragrande maggioranza ma eventualmente gli istituti finanziari. Quindi l’unica possibilità di confermare la tesi è la terza. I lavoratori (cioè tra il 90 e il 99% della popolazione) non hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi provocando così la crisi e l’impoverimento dei loro figli. Al contrario, hanno sempre vissuto al di sotto (ciò che è solo logico in un regime capitalistico), ancor più dall’imposizione delle misure di austerità. Una minuta parte della popolazione, sottratta al dibattito pubblico e mai menzionata, di cui i governi tutti sono oggi i rappresentanti visibili e zelanti, rubano da almeno trent’anni enormi somme di denaro agli altri (cioè alla quasi totalità della popolazione). Guardiamo i dati UE: tra il 1976 e il 2006 la parte di PIB consacrata ai salari ha perso circa 10% in media. Da allora a causa delle politiche di austerità questa quota è fortemente cresciuta (circa il 15% in Francia). Si tratta di centinaia di miliardi di euro perduti tutti gli anni in profitti, rendite finanziarie e immobiliari.

Alla fine si giunge alla risposta demistificatrice alla domanda iniziale: da dove viene allora la crisi?

Da un punto di vista generale, è l’alienazione dei lavoratori da parte del capitale che ha creato le condizioni per questa «grande crisi», nel senso di una gigantesca contrapposizione storica che ha scavato un baratro tra i produttori diretti e le loro condizioni oggettive di vita [2]. L’accumulazione capitalista si è affievolita fin dagli anni 70 a causa della tendenziale perdita di profitto del capitale o, in altre parole, della sua crisi di accumulazione. Uno sfruttamento accresciuto dei lavoratori in concomitanza con la finanziarizzazione estrema dell’economia hanno permesso di rilanciare (debolmente) l’accumulazione del capitale, ma hanno anche provocato allo stesso tempo la sua concentrazione in un numero incredibilmente esiguo di individui (secondo i dati del Credit Suisse circa 29 milioni di persone, ovvero lo 0.6% della popolazione mondiale, detiene il 37.5% della intera ricchezza mondiale). Senza entrare nei dettagli di questa dinamica complessa e dei suoi legami con la politica e il diritto, si può affermare con certezza che le cause de «La crisi» sono state lo sviluppo aberrante della finanza a detrimento delle attività produttive reali e la crescita parossistica delle diseguaglianze, le due cose alimentandosi vicendevolmente. In pratica, la maggioranza delle grandi istituzioni finanziarie (detto in maniere imprecisa, le banche) americane e europee hanno accumulato debiti colossali creando a partire dal niente somme allucinanti di denaro per poter continuare a far fruttare (molto) i capitali gestiti. A causa del non funzionamento della struttura del sistema, queste stesse banche sono fallite non appena il denaro è sparito nel nulla così come dal nulla era apparso. Nel mentre gli stati avevano messo già in pericolo i loro bilanci non certo per le spese pubbliche (al meglio stagnanti) ma a causa delle politiche di defiscalizzazione favorenti l’accumulazione del capitale (in Francia si tratta di circa 200-300 miliardi di euro all’anno!). Quando le banche sono fallite, i governi hanno deciso di salvarle con un’operazione da 20 triliardi di dollari, di cui 4 all’interno della UE (la Francia da sola ha dato 350 miliardi). Nel 2009, 2000 miliardi erano stati effettivamente spesi (e non resi!), e non si conoscono le cifre del 2010. È interessante notare che nello stesso periodo il debito pubblico aumentava di 2800 miliardi. In definitiva, il debito corrisponde praticamente al salvataggio delle banche. Inoltre, bisogna aggiungere i costi sociali pagati da coloro i quali non avevano alcuna responsabilità: disoccupazione, diminuzione drastica dei servizi dello stato per i meno abbienti, la distruzione della scuola e degli ospedali. Con tutto questo le diseguaglianze sono ancora cresciute, essendo allo stesso tempo causa (contrazione della domanda e bisogno d’indebitarsi per mantenere un livello di vita decente) e effetto (sfruttamento accresciuto del lavoro, disoccupazione di massa, profitti continui per gli azionisti) del perseverare della crisi.

Dobbiamo imporci di combattere la mistificazione ristabilendo il significato delle cose ogniqualvolta esso viene alienato. Non possiamo accettare un ulteriore degrado delle nostre condizioni di lavoro, quando la ragione che dovrebbe giustificarlo è totalmente falsa. La classe possidente parassitaria ci ha rubato il tempo, il denaro e il senso stesso di quello che facciamo. Dobbiamo dunque reagire e esigere che ci renda il maltolto, per cominciare (come disse l’iron lady): we want our money back !

 

[1] R. Abdegal «Capital rules» Harward Univ Press 2007

[2] L. Sève «Aliénation et émancipation» La Dispute 2012.

[3] J Faux «The global class war» Wiley 2006

[4] M Davis «The planet of Slums» Verso 2006

[5] (OCDE «questions sociales» Paris 2011)

 

Questo testo è apparso, in francese, sul sito “Sauvon l’Université!”, il 5 maggio 2014. E’ stato poi tradotto in italiano dall’autore (un po’ in fretta, ce ne scusiamo).

Sergio Chibbaro, fisico di formazione, è ricercatore universitario dal 2009 all’università di Parigi (Paris 6), e militante sindacale nella CGT all’interno della federazione che rappresenta i lavoratori assunti dalle Università, la FERC-SUP.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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