‘O Strega!: Nella casa di vetro (Gaffi) Giuseppe Munforte
Non aprite quel La Porta
di
Francesco Forlani
(Nota al settimo dei dodici romanzi candidati al Premio Strega 2014)
Con questa nota si chiude il primo ciclo di letture. Rispetto al progetto iniziale ho deciso di non pubblicare subito le note relative a quella che, secondo il mio pronostico, sarà la cinquina che passerà il turno l’11 giugno. Come ho già scritto, il premio Strega deve essere assegnato ex aequo a Francesco Pecoraro e Paolo Piccirillo; le mie modeste ragioni critico-letterarie le rivelerò nelle settimane precedenti alla giornata decisiva del 3 luglio, quando sarà designato il vincitore. Per una ricognizione dello stato delle cose ho letto l’articolo di Filippo La Porta, apparso il 2 giugno sul Sole 24 ore e, a mia grande sorpresa, ho scoperto due cose: la prima, che concordavo con lui sul fatto che “colpisce il modo puntuale con cui (il Premio Strega) ha saputo registrare, come un sismografo di assoluta precisione, gli umori meno convenzionali dell’universo letterario: scritture personalissime e iperespressive, romanzi-saggio e romanzi-reportage, poemi in prosa e perfino graphic novel “; la seconda, per certi versi ancora più stupefacente, era invece che ben tre titoli della mia cinquina prevista, ripeto, pronosticata ma non auspicata, corrispondevano a quella, desiderata, dall’eminente critico. Tre opere su cinque: La terra dei sacerdoti, La vita in tempo di pace, Storia umana e inumana, Il desiderio di essere come tutti, Lisario o il piacere infinto delle donne. Tra i desiderata di La Porta, al posto degli ultimi miei due, ritroviamo invece Gipi e, per l’appunto, Giuseppe Munforte, l’autore di cui mi occupo in questa ultima puntata della prima serie.
Cosa sono le nuvole
Quando ho finito di leggere Nella casa di vetro, la sensazione che ho avuto è stata di tornare a respirare. Sono convinto che l’incipit di un romanzo serva a suggerire l’inspirazione al lettore ovvero quanta aria deve mettere nei polmoni per arrivare fino in fondo alla lettura, senza intaccare il passo che l’ispirazione della storia ha richiesto; non è un caso che il lettore appassionato di un libro ne tesserà le lodi dicendone che si legge tutto d’un fiato. Ecco allora che l’indicazione più o meno chiaramente data con l’attacco si rivelerà fondamentale per “organizzare la corsa contro il tempo”.
Un corsivo apre il romanzo di Giuseppe Munforte e si tratta di una preghiera, un’invocazione, anche se tra le righe sembrerebbe di leggere un’invettiva, confortata del resto dal finale della storia. In un romanzo, che se ci riferiamo al mondo dell’atletica corrisponde a una maratona, è estremante rischioso buttare fuori tutto il fiato che si ha in corpo come in una corsa dei duecento metri, in un racconto o una poesia. I corsivi ritornano in più punti nel romanzo con la stessa energia, accelerazione, conferendo però alla composizione un prezioso equilibrio di tanto in tanto insidiato da passaggi troppo artificiosamente poetici, dalla tentazione sempre in agguato di dare alla “bella frase”, al lirismo, l’ultima parola. A rendere la falcata pesante interviene, a mio parere, anche l’uso reiterato di un tempo, l’imperfetto, dei gesti ripetuti, delle consuetudini inscritte nel lessico famigliare del protagonista a a cui manca per quasi tutta la durata della narrazione l’evento che il tempo passato ci dice essere “stato” il senso tragico di quello che è realmente accaduto, di qualcosa nella vita che si è brutalmente interrotto. Questo ulteriore debito di ossigeno ha sicuramente contribuito a farmi sentire, come lettore, quasi soffocare verso la fine.
Per quanto riguarda il “corpo” della storia m’è venuto in mente un quadro di Magritte che amo molto; si intitola la Victoire e come potrete notare nella riproduzione che apre questa nota, è come se le due cose, la casa e il mare, grazie al buco della porta si determinino mutualmente, contaminandosi. La porta, smurata, anticipa in qualche modo ogni gioco possibile dello sguardo; non siamo noi che vediamo ma è lei che vede noi e ce ne rendiamo conto grazie alla sabbia che non si arresta alla linea della porta, allo stipite che lascia entrare la nuvola nel suo elemento naturale.
L’opera ci suggerisce che la vittoria del sognatore è quando si riesce a fare esperienza del ricordo. Magritte a tale proposito In Les mots et les images, scrive: Quand j’ouvre les yeux, une foule de pensées me viennent. Elles sont les choses que j’ai vues la veille. Il arrive aussi que je me rappelle aussi des choses que j’ai rêvées la nuit. C’est comme une grande victoire pour moi quand je parviens à ressaisir le monde de mes rêves.
La vittoria, è quando si riesce a riprendere il controllo sul mondo dei sogni. Al risveglio una cascata di pensieri ci accoglie e per lo più, dice Magritte, riguardano le cose viste alla vigilia e che si confondono con le cose sognate. La victoire, sembra dirci, è in questa forma di lucidità. Quando ho scoperto poi che la copertina, disegnata dall’eccellente Maurizio Ceccato, mostrava, come potete notare, un’aria di famiglia con l’immagine di Magritte che avevo associato, mi sono detto che in quella variazione avrei potuto trovare una risposta agli interrogativi posti dal romanzo.
La porta non c’era più. Se tutte le cose, le nuvole, il cielo, il sole, rimanevano appese a un filo, la casa se ne stava sospesa o forse era quella la porta, il buco nel cielo? Il problema non è di cosa parla la casa di vetro; innanzitutto a parlarcene è Davide, voce narrante, in prima persona, che cerca di stabilire una relazione costante con il proprio mondo degli affetti, mondo essenzialmente famiglia, famiglia allargata, mondo da cui sapremo verso la fine e devo dire un po’ maldestramente, il nostro ne è stato separato. Il problema è l’assenza di relazione tra gli uni e gli altri. Sembra riecheggiare in queste rimembranze, nel moto di rivolta del protagonista, la magnifica poesia, las cosas di Jorge Louis Borges,
Le monete, il bastone, il portachiavi,
la pronta serratura, i tardi appunti
che non potranno leggere i miei scarsi
giorni, le carte da giunco e gli scacchi,
un libro e tra le pagine appassita
la viola, monumento d’una sera
di certo inobliabile e obliata,
il rosso specchio a occidente in cui arde
illusoria un’aurora. Quante cose,
atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi,
ci servono come taciti schiavi,
senza sguardo, stranamente segrete!
Dureranno piú in là del nostro oblio;
non sapran mai che ce ne siamo andati.
da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-d-autore/poesia-17430>
E man mano che si procede nella lettura di quella che si potrebbe definire una piccola fenomenologia del mondo visto da fuori, la sensazione che si ha e che fa mancare il respiro in diversi punti, è proprio la dissociazione delle idee dalle cose, delle idee dai corpi. Così in uno stile sicuramente alto, curato quasi all’eccesso nella composizione ritmica delle frasi, quella che vorrebbe porsi come contaminazione, la sabbia attraverso la porta, le nuvole oltre lo stipite, in realtà restano separate. Il lirico prevale sul poetico e si interrompe ogni forma di relazione conoscitiva; in altre parole, le cose, le persone non solo non sapranno che ce ne siamo andati ma è come se non volessero proprio saperne nulla. Sia che si tratti della figlia o della moglie, della casa e perfino del paesaggio in bilico sulla cintura milanese, Davide e con lui l’autore, sembra prigioniero delle parole, parole composte di lettere senza più corpo. La vista ha divorato tutti gli altri sensi.
“J’ai vu cet après-midi, en plein soleil, une jeune femme qui attendait le tramway en compagnie de son corps.” aveva scritto il buon vecchio Magritte e così Elena, la moglie, Sara, la figlia di un precedente rapporto, ci sembrano persone in compagnia del proprio corpo. Una “dissociazione” talmente forte da farti davvero domandare se quanto ricordi Davide di ognuno di loro corrisponda alla verità o sia soltanto quella che i francesi chiamano “une fausse reconnaissance”, ovvero un’identificazione erronea, prendere qualcuno per qualcun altro. C’è un’opera di di Magritte che può aiutarci a capire; si intitola “Poison”, veleno; è una variazione sullo stesso tema della Victoire ed è infatti dello stesso periodo. Mentre nel primo l’esperienza di libertà degli elementi è in questo attraversamento reciproco, nel secondo si noterà che la spiaggia si arresta sulla soglia e solo la nuvola proiettando la sua ombra sulla parete vi fa capolino. Una nuvola che come la casa in copertina non è appesa a nessun filo; pare sospesa, leggera, come in alcune belle pagine di questo romanzo. E pare che si allontani.
I commenti a questo post sono chiusi
l’importante è che non trionfi, dopo averlo fatto nel panorama politico, qualche rappresentante di rivombrosa(in qualsiasi mood voglia declinarsi ‘sta boutade). Il mio candidato ideale, in ogni caso, dovrebbe arrivare direttamente da Sant Feliu de les Forxetes(o da qualsiasi altro posto,basta che sia altrove)
https://www.youtube.com/watch?v=unmwse1v2vY