Domande da una crepa: intervista a Elisa Biagini
di Marco Simonelli
[Avverto il lettore che il brano seguente è la trascrizione di un colloquio con Elisa Biagini registrato a Firenze il 29 aprile 2014. Ho preferito limitare il mio intervento di correzione per lasciare inalterate le caratteristiche del parlato. MS]
Marco Simonelli: Ciao Elisa. La prima volta che ti ho intervistata era il 2003 (http://puntocritico.eu/?p=6202) e di lì a poco L’Ospite sarebbe apparso da Einaudi. Da qualche giorno, sempre per Einaudi è uscito Da una crepa. Cosa è cambiato per te in questi undici anni? E per la tua scrittura?
Elisa Biagini: Certo, questa è una domanda veramente impegnativa! Dunque, sono cambiate molte cose. Ho scritto L’ospite quando ero negli Stati Uniti e quel libro ha risentito del mio vivere all’estero. Si invecchia, quindi è chiaro che le considerazioni sul vivere diventano un pochino più amare e uno comincia a incrinarsi, appunto, “da una crepa”. In termini di scrittura – e questo credo si sia già visto nel Bosco – è continuato questo mio processo di asciugamento della parola, per delle immagini più precise, sfrondate da elementi ridondanti, a tratti ancora narrative però legate a queste immagini, una due immagini per testo poetico. Questo era già programmatico nel Bosco, infatti la poesia di copertina parlava appunto dell’ascia che fa pulito affinché rimangano solo le cose essenziali. Questo torna anche nella scelta dei versi di copertina dove la parola diventa un elemento di ricerca, di tensione verso l’altro, con una dimensione di tipo anche sociale e inevitabilmente politico, tanto più tenendo conto dei tempi in cui viviamo e in cui è stata scritta questa raccolta.
MS: Ultimamente un’antologia del tuo lavoro è stata pubblicata in America (The Guest in the wood, Chelsea Editions, 2013). Tenendo conto anche della tua attività di traduttrice, che effetto ti fa l’essere tradotta?
EB: È sempre molto bello, mi sento sempre molto onorata, proprio perché, come dici tu, traduco e so che è un lavoro faticoso che può far innervosire molto, può essere frustrante e sono sempre molto grata quando qualcuno mi avvicina e mi chiede di tradurre le mie poesie. Mi è capitato di essere tradotta in russo, in cinese, lingue molto lontane da me. Con lingue così remote ti metti nelle mani dell’altro, diventa veramente un affidarsi, è chiaro che potrebbero esserci dei fraintendimenti quindi sono sempre grata anche perché, tornando a quello che dicevo sul linguaggio, più la lingua viaggia più aumentano le possibilità di contatto, di creare una comunità e di creare una situazione di resistenza, cioè la poesia come resistenza a una realtà come quella italiana particolarmente devastata (non che fuori sia tanto meglio). È una situazione veramente pesante e faticosa e non si vede una reale prospettiva quindi sono ben lieta che questo libro sia stato appena premiato come miglior libro di poesia in traduzione negli Stati Uniti. Spero che quanto ha da dire si diffonda ancora di più.
MS: In Da una crepa hai fatto incontrare due poeti che ami molto: Emily Dickinson e Paul Celan. Cosa si sono detti?
EB:Si sono piaciuti molto, sicuramente. Li ho fatti incontrare solo in una poesia alla fine, nel resto del libro dialogo con loro autonomamente. Sappiamo che Celan amava Emily Dickinson, sicuramente a Emily Dickinson sarebbe piaciuto Celan ma ovvie ragioni cronologiche ci impediscono di sapere tutto questo! Come ho anche detto altrove sono delle figure che mi accompagnano da talmente tanto tempo in modo diverso, anche altalenante ma sono diventati due figure di famiglia, lo zio e la zia simpatici che ti piacerebbe avere e che purtroppo non hai, persone con cui ho stabilito un legame, come dico sempre “di pancia”. Loro due sicuramente si sono detti che la lingua deve essere resistenza, deve essere tagliente, deve essere limpida… All’inizio del libro ho messo due citazioni “Giochi con le asce… e “Maneggiava le sue parole come lame…”. Di nuovo la lama, l’ascia, il vetro che taglia e che fa pulito. Il rischio e anche la necessità.
MS: In questi anni non ti sei limitata alla scrittura. Hai realizzato anche delle installazioni. In che rapporto sono le due discipline, per te?
EB: La parola viene prima di tutto. Non ho la pretesa di essere un’artista visiva a tutto tondo, non lo sono, ho preso un altro percorso. Credo che si possa far bene una, due cose massimo nella vita, ho sempre grandi dubbi su chi fa al contempo il romanziere, il poeta, il cuoco… Insomma, se uno affonda pienamente in un linguaggio, qualsiasi esso sia, se l’indagine vuol essere veramente ben fatta, bisogna rimanere in quell’ambito. Detto questo, io sono un’appassionata di arte, mi sono laureata in storia dell’arte contemporanea, è un linguaggio che è con me sempre. Talvolta in alcuni periodi della mia vita mi rivolgo più ai cataloghi e all’arte visiva… Cerco conforto, però conforto di quello buono, non consolatorio, generatore di domande, di riflessione e come tale di energia e di speranza, nelle arti visive, particolarmente nel contemporaneo. Questa è un’idea che ho avuto negli ultimi anni: inserire le mie parole in oggetti tridimensionali (tazze,camicie, sedie), quindi in una dimensione ancillare rispetto al testo scritto. Mi piace molto, mi diverto molto. È una sfida, ti vengono date determinate condizioni, ti devi inventare un progetto e quindi è anche molto divertente. Ti porta anche a uscire da questa dimensione solitaria che poi è la scrittura.
MS: Sei sempre stata molto attenta all’organizzazione interna dei tuoi libri:L’ospite era una sequenza unitaria mentre Nel bosco si articolava in tre sezioni tematicamente distinte. Come hai costruito Da una crepa?
EB: Anche Da una crepa è diviso in quattro sezioni. La sezione di dialogo con Celan (che è piuttosto corposa), una sezione centrale, La gita, in cui parlo con un altro morto, però questa volta di famiglia: mio nonno Dante che lavorava in miniera (non era minatore vero e proprio, era assistente del direttore), quindi questo tema della discesa nelle viscere della terra, della scrittura… La terza sezione è dedicata a Emily Dickinson. Mentre nella prima utilizzo versi di Celan da cui parto per scrivere poesie, qui mi limito a descrivere ciò che osservo nella mitica stanza della Dickinson. Cerco una sorta di contatto. Infine c’è una micro-sezione, Da una crepa, da cui il libro prende il titolo. Si tratta di una crepa anche metaforica, in verità la sezione è nata durante una residenza per artisti nel sud delle Marche pochi giorni dopo il terremoto de L’Aquila, gli edifici avevano risentito del terremoto, c’erano delle crepe reali. La crepa è suggestiva: è positiva e negativa, è necessaria, ti permette di vedere, può passarci la luce, può aprirsi l’uovo… Ovviamente anche quella del cedimento. MI piaceva giocare su questo aspetto.
MS: Riesci a prevedere la direzione che prenderà adesso la tua scrittura?
No, preferisco non prevederla. Ho già in mente dove ipoteticamente mi piacerebbe dirigermi per il nuovo libro, però preferisco non darmi troppi vincoli. Nel momento in cui scelgo di trattare un tema faccio ricerca, ci studio sopra… Ma adesso sono nella fase in cui devo decidere, non voglio auto-impormi le cose, altrimenti potrebbe venir fuori un libro non amato e inevitabilmente non di qualità. Sto lavorando su una sezione un pochino più narrativa rispetto a questi frammenti che sono più caratteristici delle due sezioni su Celan e la Dickinson. Sicuramente la parola molto densa è sempre al centro del mio lavoro. Non credo che questo cambierà.