Prospero nutre Caliban
Arriva nelle Isole Britanniche nel ’500 attraverso il francese nourriture il termine nurture che Shakespeare prontamente utilizza, con una improvvisa quanto efficace allitterazione, giustapponendolo al termine nature. Siamo nella Tempesta, tra le ultime sue opere (1611), dove Prospero, il grande protagonista, mago e duca di Milano, spodestato dal fratello Antonio alleatosi col re di Napoli Alfonso, è signore di un’isola sulla quale ha costruito, in dodici lunghi anni di esilio forzato ma ben impiegato — con la sola compagnia della affezionata figlia Miranda — un potere che gli consentirà di riconquistare il ducato perduto e di sposare la figlia all’erede del regno di Napoli, Ferdinando, figlio appunto di Alfonso. Com’è stato rilevato da qualche commentatore, il vero antagonista, nella logica shakespeariana, di Prospero è Caliban, creatura ambigua a metà tra uomo e mostro, figlio della strega Sycorax, che regnava sull’isola prima dell’arrivo di Prospero, e del demone Setebos, che l’aveva in suo potere. Caliban è figura ambigua perché più sfaccettata di quanto non si noti a una prima lettura, ed è per l’appunto di lui che Prospero, che pretende dai suoi sottoposti/schiavi un’obbedienza pronta e cieca, così dice (IV, I, 188-192):
« A devil, a born devil, on whose nature
Nurture can never stick; on whom my pains,
Humanely taken, all, all lost, quite lost;
And as with age his body uglier grows,
So his mind cankers. »
Ovvero, sulla natura di questo essere nulla hanno potuto le fatiche di Prospero che per anni ha cercato di “nutrirlo” con insegnamenti, cure, fatiche, da maestro di linguaggio e di comportamento.
Ma che d’altra parte da queste cure Caliban avesse pur tratto qualche scintilla lo si vede ad esempio dal suo eloquio talvolta raffinato, come quando, descrivendo i rumori dell’isola ad altri due personaggi secondari della commedia, così recita (III, II, 126-134):
« Be not afeard; the isle is full of noises,
Sounds and sweet airs, that give delight and hurt not.
Sometimes a thousand twangling instruments
Will hum about mine ears, and sometime voices
That, if I then had waked after long sleep,
Will make me sleep again: and then, in dreaming,
The clouds methought would open and show riches
Ready to drop upon me; that, when I waked,
I cried to dream again. »
Il che mi fornisce l’occasione di notare che la dicotomia nature/nurture va a toccare un altro tasto ben presente nella Tempesta, quello dell’apprendimento del linguaggio. Così infatti si esprime Miranda, che in qualche misura ha collaborato all’“educazione” di Caliban, nel suo primo colloquio con lui (I, II, 353-363)
« Abhorred slave,
Which any print of goodness wilt not take,
Being capable of all ill! I pitied thee,
Took pains to make thee speak, taught thee each hour
One thing or other: when thou didst not, savage,
Know thine own meaning, but wouldst gabble like
A thing most brutish, I endow’d thy purposes
With words that made them known. But thy vile race,
Though thou didst learn, had that in’t which good natures
Could not abide to be with;»
[ . . . tu stesso, o selvaggio, non sapevi quel che intendevi, balbettavi da creatura bruta, mentre io davo alle tue intenzioni parole che te le facevano conoscere . . . ]
che implica tra le altre cose che Caliban non aveva pensieri dotati di senso prima che gli si insegnassero le parole di un linguaggio. E dunque si dà una risposta univoca al problema largamente dibattuto in campo linguistico-filosofico se venga prima il pensiero o il linguaggio. E su questo problema vedremo in una prossima occasione l’opinione di Einstein.
Questa lettura della shakespeariana Tempesta potrebbe essere un appiglio di partenza per ripensare a una problematica che da quando esiste filosofia naturale è dibattuta da specialisti dei più diversi campi, che certo non si pone oggi negli stessi schematici termini manichei e che comunque non sarebbe esaurita neppure da molti ponderosi volumi. Quello che intendo dire anzitutto è che, come per tutti i problemi di tale mole, non c’è da sperare in alcuna univoca e cristallina soluzione; c’è invece da rendersi conto che si tratta piuttosto di una trama attraverso la quale guardare l’essere umano, così come gli animali ― ricordate quanto avevo riportato qui sul comportamento dei macachi ― per cogliere sfumature e circostanze talvolta inaspettate. E ancor più si potrebbe citare il recente volume dello stesso de Waal, Il Bonobo e l’ateo. In cerca di umanità fra i primati (Raffaello Cortina 2013), dove analoghi problemi vengono ancor più a fondo esaminati.
Sembra anzi più ragionevole affermare che nel concreto di un essere vivente che vive in un contesto sociale non sarà mai possibile tracciare col rasoio una nitida linea di demarcazione tra quanto in quell’essere è geneticamente determinato dalla sua costituzione naturale e quanto invece è da esso acquisito in seguito ai suoi continui e molteplici contatti con l’ambiente circostante.
Beh, furono i normanni (vichinghi stanziati in Normandia) a profondere il francese (anglo normanno) nella lingua inglese. Il francese (un 40%?)ha all’attivo tutti o quasi i termini astratti dell’inglese. Di qui seguendo l’estro di Shakespeare il gioco/contrapposizione ‘nature/norture’. Mi complimento per la freschezza, l’acume, l’originalità dell’intervento.
Non capisco fino in fondo quanto (sotto)intendano le ultime righe. Il problema affonda le sue radici in una speculazione annosa tra il primato della natura e quello della cultura. La soluzione potrebbe trovarsi nel mezzo: siamo geneticamente “predisposti” al linguaggio (Lenneberg, Fondamenti biologici del linguaggio, Boringhieri) ma troviamo sempre il modo di “complicarci” la vita, accumulando una serie di comportamenti premianti – che possono anche essere fuorvianti -. Al proposito, è interessante vedere la storia dell’anatomia e degli “idola” ad es. di Vesalio. Sul tema, si veda Thomas Laqueur, L’identità sessuale dai Greci a Freud, Laterza. Si vedano inoltre i saggi su von Sommering e le sue analisi sullo scheletro (finalmente) femminile.
Per un approccio più “linguistico” il rinvio è a Deutscher, La lingua colora il mondo, Boringhieri.
Nel caso di Shakespeare, il problema di nutrire la natura del Caliban potrebbe non essere così stringente: “Che importanza ha un nome? Una rosa …”. Ma è anche vero che tra il “Romeo e Giulietta” e “La tempesta” c’è un arco di 16 anni, più o meno. Aspetto con ansia il seguito…
Mettiamola cosi. A un certo punto dei primati scimmie vuoi per la posizione eretta, vuoi per altro ricevono l’illuminazione (vedi il famoso film di Kubick o come si chiama)che li sottrae all’istinto animale (in parte..)ripetitivo e codificato dalla Natura. Da questo momento inizia (in forma rudimentale)il linguaggio (umano)guidato dall’intelligenza(umana)che via via s’accresce proprio (e non solo)grazie agli apporti sempre più complessi di questo linguaggio che si evolve in una sorta di input e feedback. A Shakespeare il merito di averci rappresentato con incommensurabile anticipo la modernità dell’uomo……Sarebbe oltremodo interessante continuare questa querelle così bene introdotta dal redattore di NI.
Scusa, intendevo le ultime righe dell’articolo, non quelle del tuo commento. Scusa ancora per l’equivoco.
Credo che Shakespeare volesse semplicemente rendere in teatro lo “stupore” dei bianchi che cercavano di insegnare la cultura occidentale agli schiavi neri, senza rendersi conti che la cultura è qualcosa che si acquisisce fin dal primo giorno di vita. Gli schiavi neri avevano già acquisito la loro e non potevano “impararne” un’altra in tre lezioni, solo perché era “superiore”.
Dal momento di questa cesura (l’apparizione dell’uomo sapiens nel cammino evolutivo) si può parlare di una predisposizione genetica al linguaggio (umano) prima ovviamente no. Come e perchè questo sia avvenuto a un certo punto del cammino evolutivo è questione che apre alle congetture…..
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