Eros, Thanatos, Editoria

dadati-1di Romano A. Fiocchi

Gabriele Dadati, Per rivedere te, Barney Edizioni, 2014; Piccolo testamento, Laurana Editore, 2011.

“Il 12 giugno del 2009, un venerdì, poco dopo mezzogiorno, stavi percorrendo la strada statale numero 45 in uscita da Piacenza”. Incomincia così, con l’investimento e l’uccisione di un cane, la rievocazione di una storia d’amore. Che non è solo una storia d’amore ma un recipiente letterario dove Dadati ci infila un po’ di tutto: dalla sua passione per i libri al suo atteggiamento da écrivain maudit, dal sarcasmo vivace e dissacrante agli stati di cupa depressione. È un Dadati che si racconta attraverso l’uso della seconda persona: lo scrittore che parla al personaggio, che è poi il personaggio di se stesso. Mi viene in mente un precedente illustre: La modificazione, dove Michel Butor, padre dell’ École du Regard insieme allo straordinario Alain Robbe-Grillet, racconta un viaggio in treno usando il “tu” e alternando i tempi presente e passato.

Ma quella di Dadati non è una “modificazione”, piuttosto una cristallizzazione. Che è poi già contenuta nel titolo stesso: Per rivedere te, il desiderio di fermare nel tempo quella precisa storia per evocare la figura femminile che si nasconde dietro la finzione narrativa di Tabita. Dadati è così. Già in Piccolo testamento, uscito nel 2011, dietro la finzione del nome di Vittorio c’era l’amico letterato che nella realtà è stato portato via da un male incurabile. Il fantasma di Vittorio torna in Per rivedere te con l’iniziale del suo vero nome, S. Così come tornano le figure evanescenti di altri amori incompiuti: Camilla, Aniela, Paola. Scompare Marta, o meglio: si trasforma in Tabita. Tabita, personaggio controverso, che entra in scena ritratta con due pennellate da impressionista: “Aveva denti regolari e forti, arruolati in due arcate che non lasciavano scampo”.

dadati-2I due romanzi sono insomma simmetrici: Piccolo testamento è la rielaborazione di un lutto, Per rivedere te la rielaborazione di un amore. Una coerenza poetica che Dadati spiega apertamente quando cerca di definire il suo essere homo scribens: “Un narratore il cui immaginario è popolato di vicende che escono dalle scaturigini del reale e nel loro farsi lo rispecchiano e in qualche modo cercano di indagarlo”.

Il suo non è dunque un mondo di fantasia ma una rielaborazione del mondo reale. Un mondo reale che produce già di per sé storie e personaggi: “Tabita, Dario, Camilla, il cane Tabacco, i tuoi genitori, Manlio Castoldi, le telefonate a Spaini, Emi dietro al bancone che non poteva ignorare i vostri discorsi, tua sorella e la sua famiglia, il padre di Tabita, la cognata di Castoldi, i tuoi compagni di liceo, la ragazza alla reception del Biffi, il cugino Matteo, S., i ragazzini con la reflex in mano, i genitori del nuovo sincronizzato di Monza. La figure si accalcavano facendo spessore attorno al tuo cervello e alla tua capacità di maneggiare le cose, come una guaina che diventa insonorizzante nella misura in cui è chiassosa”.

I personaggi letterari sono dunque proiezioni di personaggi reali. La vita di S., personaggio realmente esistito, si lega alla vita di Castoldi, finzione letteraria. Che a sua volta si intreccia con quella di un altro personaggio reale, Raffaello Brignetti, che vinse realmente il premio Strega nel 1971. L’ideatore della ormai estinta rassegna di libri Parole nel Tempo Guido Spaini, con cui Dadati “trova piacevole parlare” nella postfazione di Piccolo testamento, qui diventa Mattia Spaini, committente del libro-intervista dedicato a Castoldi. Anche le descrizioni attingono dalla realtà e si fanno espressioni di un realismo esasperato e minuzioso di sapore minimalista. Un solo esempio: “La ragazza ha sparato sul codice a barre, ti ha confermato la cifra, dalla cassa è scivolato fuori lo scontrino largo mentre scattava in avanti il cassetto. Hai pagato e presto il resto. Vi siete sorrisi. Poi sei uscito in strada”. Se fosse un pittore, Dadati sarebbe uno strano incrocio tra un Edward Hopper e un esponente della Pop Art, ossessionato da un mondo dove le bottiglie d’acqua sono bottiglie di Rocchetta, i pantaloncini blu sono dell’Adidas, le gomme da masticare della Vigorsol, i distributori di benzina della Q8. Così come il libro tra le mani del protagonista non è un qualsiasi libro in lettura ma “Hans Magnus Enzensberger, Hammerstein o dell’ostinazione, Einaudi”. Autore, titolo, casa editrice. Anche questo fa parte della fedele adesione di Dadati al suo concetto di realismo.

dadatiDella stessa meticolosa sincerità sono le sue illuminazioni sul mondo editoriale. E qui Gabriele tocca l’altro argomento che gli sta a cuore, i libri: “Gli editori non pubblicano libri, ma scrittori. (…) Non vogliono mandare in stampa bei romanzi, ma bei romanzi scritti da gente che presto consegnerà altri bei romanzi. E, se possibile, ogni tornata di bei romanzi avrebbe dovuto avere una certa resa nel mercato librario, finire dentro il drappello di finalisti di qualche premio, sollevare e acchiappare l’interesse di qualche editore straniero, magari un produttore cinematografico”.

Come a dire che nel mondo editoriale di oggi, dove gli scrittori fanno i fenomeni da baraccone in trasmissioni come Masterpiece, non ci sarebbe spazio per un Joyce, che pubblicò solo quattro libri (di cui uno – orrore per gli editori italiani contemporanei – una raccolta di racconti!), né per il suo amico Svevo, anche lui autore di soli tre romanzi.

Le critiche ai meccanismi editoriali lasciano affiorare il sarcasmo sottile di Dadati, lo stesso che contamina i suoi personaggi e fa dire a Tabita, insegnante di nuoto sincronizzato, che il saggio di fine anno serve ai genitori delle piccole allieve per “verificare come hanno speso i loro soldi”. Oppure a Castoldi che siamo usciti dal fascismo storico “scegliendo di volta in volta un Mussolini diverso, che un tempo poteva essere la Chiesa cattolica, ma che oggi forse è più di ogni altra cosa la televisione, con i quiz e i giochi a premio”.

In ultimo il linguaggio. Quello di Dadati è un bell’italiano tra il letterario e il parlato. Sembrerà banale ma questo va detto, perché nel panorama editoriale odierno non mi sembra cosa affatto scontata. Certo, anche Dadati scrive “faceva blitz” in luogo di faceva incursioni, browser in luogo di navigatore, balloon di messaggistica in luogo di fumetto, e si compiace di infarcire il testo con una nomenclatura da internauta: cliccare, desktop, Facebook, Wikipedia, YouTube, Corriere.it, e così via. Ma il tutto rientra nella sua adesione puntigliosa alla realtà, un po’ come le bottiglie di Rocchetta. O come l’immagine volutamente ributtante di Charles Manson messa di sentinella sullo sfondo del suo portatile.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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