Sono Orwell
di Angela Bubba
L’uomo si trascinò faticosamente al centro del palco, era sudato e vestito con abiti inconsueti e nessuno vi badò finché una delle telecamere, quella frontale, non incappò nello scintillio del suo cranio aguzzo e a tratti spettinato. Quindi il cameraman sbottò in un urlo automatico, ma non ottenne risposta; l’uomo spiccava sul pavimento, luminoso e innaturale per la sua estensione, e s’addensava man mano in un’ombra oscillante, come una fiammella grigia e gentile, e non la smetteva di avanzare.
Solo dopo un paio di minuti uno spettatore, una ragazza pettoruta e che indossava una specie di cencio elettrico, un mutandone traslucido e acceso al centro da un colore rosa tragico, pensò l’uomo, e che presenziava sugli spalti svitando i fianchi da danzatrice, emise uno stridio. Acuto, puro, toccante.
Quando la donna al centro del palco si girò e l’uomo colse il brivido che la percorse, una frustata che dal minitunnel dei suoi tacchi la leccava fino all’acconciatura liscia, spigolosa e isterica quanto una sterlitzia, inverosimilmente bionda, e che s’abbinava all’annichilimento dipinto sulle sue pupille, allora, solo allora, l’uomo intuì che era arrivato il momento delle spiegazioni. Forse avrebbe potuto aprir bocca e dire a tutti di non agitarsi, così, tanto per cominciare, e di non saltare alle conclusioni prendendolo per spacciato per via della sua aria smorta, i vestiti retrò e logori come dio solo sa cosa e il viso che pendeva da una parte all’altra del teschio.
– Buona sera, disse.
La donna gli andò incontro stringendo gli zigomi. Era malfida e trattenuta, ma anche sinceramente curiosa. Delle faccione su uno schermo l’incitavano ad accostarsi a quella figura incongruente, lunare, come fotocopiata lì dall’alito di un altro pianeta, mentre un paio di quelli che all’uomo parvero degli alfieri esagitati e parecchio strambi per le minacce con cui presero a sputacchiarlo, subito la trassero via chiedendole se andasse tutto bene, se fosse sana e salva e altre cose che l’uomo non poté distinguere.
Andava calmandosi, vide, anche se presto si divincolò agitando sia braccia che piedi e con una veemenza peculiare, da pugile, per poi dirigersi verso di lui proprio mentre veniva bloccato dagli arti: le sembrava un monolite, un’aragosta dalle chele braccate con lacci di carne nera, eleganti e livide come custodie di spade giapponesi.
Escluso muso, naso e fronte, quelle guardie erano totalmente coperte, la donna non avrebbe potuto dire chi fossero, e si scambiavano ordini pare molto intimi prima di spintonare l’uomo al di fuori del palco.
– Aspettate!, gemette la donna. La sua voce era molliccia e trepidante, mossa da una cauta intelligenza.
– Liberatelo, fatemi parlare con lui!
Il suo sguardo bucò il cuore delle guardie, le quali mollarono la presa e lasciarono che l’uomo si ricomponesse.
Ora tutti trattenevano il respiro. Il silenzio piombò come un veleno e ogni cosa dava l’impressione di voler esplodere.
A stento la donna si fece avanti allungando una mano, le sue falangi scricchiolarono emettendo un trillo.
– Piacere. Alessia Marcuzzi.
L’uomo l’assecondò.
– Eric Arthur Blair, molto lieto.
La donna si avvinghiò a quella pelle e notò che era viscida e gelata. Ritrasse la mano.
– Sono la conduttrice di questo programma, aggiunse.
– Del mio libro, vorrà dire.
– Prego?
– Magari il mio nome non le dice niente, ma il mio pseudonimo forse sì.
Le facce sullo schermo intanto si accaloravano, le loro labbra sbollicinavano tant’è che sembrava friggessero; mentre il pubblico, sia il laterale che quello ricacciato nel fondo, si sollevava componendo smorfie sguaiate ma piene d’interessamento.
– Sono Orwell. George Orwell.
Dopo un istante di trepidazione, al quale seguì un ammiccamento del viso che sembrava riaversi da una convalescenza, la donna si contorse cominciando a sbandare, un fenicottero che si schiantava sulla sua magrezza, crollando infine in un accasciamento gentile, contemplativo: le ciglia si toccarono, e la bocca emise dei rintocchi subacquei.
– Allora? – fece l’uomo con un che di irritante e insieme d’infantile. – Avete letto il mio libro? 1984?
Nessuno rispondeva. I ragazzi nello schermo erano ammutoliti al pari delle guardie, degli operatori e del pubblico in sala. L’unica presenza viva proveniva dall’uomo che si era spostato, mugugnando e tracciando ellissi sformate torno torno il centro del palco.
– Credevo fosse scontato.
Si fermò. Squadrò il pubblico laterale dopodiché passò ai ragazzi nello schermo.
– Credevo che ci fosse addirittura una clausola nel regolamento. Ognuno di voi avrebbe dovuto leggerlo. Come può essere successo?
Quando scostò lo sguardo, roteò il collo porgendolo alle guardie e poi agli operatori oltre le cineprese; in ultimo ispezionò la donna accasciata a terra: il suo corpo componeva una sorta di onda, armonica e pungente.
– Per voi…
Tornò lentamente ai ragazzi.
– Per voi è un gioco essere spiati?
– Sì, rispose uno di loro.
– Avete la più vaga idea di chi io possa essere?
L’uomo sentì ridacchiare ovunque. Notò che anche le guardie ora si storcinavano in rimbrotti strani e ripetuti.
– Figuriamoci!, riprese il ragazzo con tono divertito. – Sarà uno scherzetto organizzato dalla redazione. Ce ne combinano di continuo. Lo sappiamo che Alessia sta fingendo, Alessia è bravissima.
L’uomo aspirò fra i denti.
– E ditemi… chiese dopo un po’. – Vi state divertendo?
– Oh, sì. Tantissimo.
– Tantissimo, ripeté.
– Ci sentiamo davvero fortunati.
– Fortunati?
– Sì, è ovvio.
– È ovvio?
– Be’, mettiamola in questo modo. Mezza Italia vorrebbe essere qui al posto nostro ma il caso ha voluto che ci fossimo noi, proprio noi! Si rende conto?
– Mi rendo conto.
– Siamo stati scelti, siamo consapevoli di essere speciali.
– O siete più ortodossi?
– Cosa?
– L’Ortodossia consiste nel non pensare – nel non aver bisogno di pensare. L’Ortodossia è inconsapevolezza. Avete presente?
Senza attendere risposta l’uomo depose entrambi i palmi sul cuore, e strizzò a lungo gli occhi, come per ripescare un’immagine troppo intensa perché troppo bella per essere spiegata. Nessuno osava muoversi o fare altro, le luci delle sala erano tenui ma in grado di sfilettarla in griglie di chiarore quasi artico, perturbante. Risollevando le palpebre l’uomo capì che la paura era tutto nella vita, e che nella vita tutto dipendeva dalla paura.
– Eppure… riattaccò con cortesia. – Confidavamo davvero in giorni in migliori, quando scrivemmo quel libro… Io e Winston, a-ah! Che romantici! Non trovate?
L’uomo si commosse.
– Al futuro o al passato, al tempo in cui il pensiero sia libero, gli uomini siano gli uni diversi dagli altri e non vivano in solitudine… a un tempo in cui la verità esista e non sia possibile disfare ciò che è stato fatto. Dall’età dell’uniformità, dall’età della solitudine, dall’età del Grande Fratello, dall’età del bipensiero…
Si asciugò le guance e fece per allontanarsi, voltando le spalle lunghe e bitorzolute. Si girò solo per alzare una mano e dire a gran voce – Salve!, mentre tutto lo studio sussultava perché l’uomo, all’improvviso, non si vedeva più.
Le statistiche sulla sindrome di stoccolma sono ampiamente sottovalutate(ne e` affetto perlomeno il 40 % dello share)
http://youtu.be/ziF-91wgiP0
retorica pura.