I rapimenti

di Matteo Salimbeni

pissarro
Camille Pissarro, Les chataigniers a Osny

Un uomo che conduceva un’esistenza poco entusiasmante venne rapito, una mattina, dagli alieni. Sua moglie, con la quale aveva litigato la notte di Capodanno e che non gli rivolgeva parola da più di tre settimane, quel giorno si svegliò con una gran voglia di fare l’amore. Allungò il braccio verso il marito e non lo trovò. Così si girò dall’altra parte e chiuse gli occhi. Erano le cinque, e l’eco del vento lontano, fra i pioppi, le conciliò presto il sonno. Quando si destò nuovamente sentì il calore dell’uomo che si era rannicchiato su di lei come un bimbo e un odore buonissimo, di ortensie e gerani, che proveniva dal cortile. La finestra era socchiusa e l’aria penetrava leggera nella stanza, mischiandosi alla cappa viscosa della notte. Fecero l’amore come conigli. Si baciarono, si carezzarono. E pianti, schiaffi, graffi, cazzotti. Se avessero avuto un martello si sarebbero pure presi a martellate, dalla voglia che c’avevano addosso. Fecero l’amore come non avevano mai fatto l’amore, tanto che alla fine, nonostante fosse inverno e i giorni della merla fossero alle porte, le lenzuola erano talmente intrise di sudore che dovettero spostare il materasso e poggiarlo contro il muro a sgocciolare. Era fradicio. Trascorsero più di un’ora ad asciugarlo con il phon e quando il loro figlio, che ai tempi aveva sei anni, entrò in camera e li colse in quell’inusuale occupazione fecero una cosa che non si erano mai sognati di fare: lo ingannarono. Anzi, a dirla tutta, si fecero proprio beffe di lui, un po’ perché erano impreparati (un trasporto del genere non gli era mai accaduto, nemmeno ai tempi belli della seduzione), un po’ perché si sentivano così complici – e finalmente!, dopo anni a volar bassi come quaglie gravide, di matrimonio mesto, mestissimo, d’unione impiegatizia, di minestrine e tute e di sciapi, grigiognoli “evviva complimenti tanti auguri” durante le feste comandate -, ma così complici che persino una piccola presa di giro al sangue del loro sangue gli parve cosa lieta e naturale:

“Papà si è pisciato addosso”, gli dissero e poi scoppiarono a ridere come due scolaretti.

Otto mesi e mezzo dopo nacque il loro secondo figlio. Ma, cosa oltraggiosa sopra ogni altra, decisero di non dargli un nome. Dapprima se ne scordarono proprio, rapiti com’erano dall’estasi e dall’incontinenza di quella tardiva passione. In un secondo momento, travolti dallo sbalordimento dei parenti e dalla pletora di domande e proteste, dovettero affrontare la questione. Si sedettero al tavolino della cucina, stapparono una bottiglia di vino e ne discussero, ma più che ne discutevano e più che il fatto, anziché umiliarli o impensierirli, li divertiva. Sì: li divertivano il tormento nei volti dei familiari, li divertiva l’idea di non poter chiamare se non con schiocchi di dita, fischi e maleducatissimi “oouh!” il proprio figlio e li divertiva il concetto stesso di persona senza nome. Li divertiva così tanto che decisero che per nessuna ragione si sarebbero privati di una gioia così travolgente e di un’impresa così epocale: loro due contro il mondo, contro regole, consuetudini millenarie e ragionevoli sentimenti, contro tutto e tutti. Resero la loro decisione pubblica, suscitando un livore mai visto prima sulla faccia della terra. Per mesi le conversazioni e le cene dei loro amici in comune verterono sul fattaccio, restituendo a quei bigi ritrovi fra quarantenni il nerbo, l’indignazione, la sana cattiveria, quella vita in ultima analisi che sgorga solo di fronte all’incomprensibile e al meraviglioso, quella vita che l’età tende a stemperare, se non addirittura a strangolare. Ma loro, ormai, erano una cosa unica e se ne fregavano del resto. Mai si erano amati a tal punto in vent’anni di matrimonio. Mai, forse, al mondo qualcuno aveva raggiunto vette così alte, silenzi così lievi, risate così argentine. Niente li scalfiva. Né le malelingue, attorcigliate l’un l’altra come un covo di rovi, e velenose; né gli scrupoli che ogni genitore avrebbe avuto dopo una scelta così pretenziosa, sofisticata e impopolare. Ma quello, a dire il vero, non fu che il primo passo. Niente, da quel giorno, li poté fermare, né arrestò il vorticoso processo che, nel giro d’un paio d’anni, li consegnò al più cocciuto degli isolamenti. Spavaldi, col petto gonfio e le narici fumanti, cominciarono a prendere a male parole chiunque con una sfacciataggine e con un incuranza tale delle conseguenze che se una persona non coinvolta, uno sconosciuto non turbato dalle loro angherie per esempio, li avesse potuti osservare dall’esterno, sarebbe giunto alla conclusione che lo facessero per un secondo, meschino fine. Che fosse un piano parecchio inutile ed altrettanto intricato per consegnarsi a una gloria passeggera, per entrare in una di quelle classifiche à la page, in un guinness, in un articoletto buono per entusiasmare le folle per dodici, massimo sedici ore, tipo “scambia sua moglie per una lavatrice e la riempie di lenzuola”. E invece – semplicemente! – si amavano a perdita d’occhio. Ogni cosa che li distoglieva dal loro amore era un fastidio. Ogni interruzione un conato di dolore. Camminavano per ore, fissandosi negli occhi, sbranandosi con gli occhi. Se qualcuno li fermava a un angolo di strada per chiedergli: “Scusi, sa dov’è Piazza Indipendenza?”, Carlo (questo era il nome dell’uomo) si premurava di rispondergli, con disarmante innocenza: “Sì”, e poi tornava a guardar la moglie, con una complicità incommensurabile, traboccante orgoglio, come se entrambi avessero appena distolto lo sguardo dall’altare sul quale il loro bambino aveva baciato la sposa: la splendida, longilinea, benedetta nuora che aveva avuto la magnifica idea d’innamorarsi del loro piccolo e portarglielo via per lasciarli, finalmente, la casa tutta per loro.

Un giorno – il loro secondo figlio aveva da poco compiuto dodici anni e l’altro veleggiava sicuro verso la maggiore età – Carla (così si chiamava la donna) chiese al marito:

“Ma che ci sta succedendo? Perché… perché sono passati più di dieci anni e sembra trascorso appena un minuto? Perché non mi stanco mai di te e tu non ti stanchi mai di me e perché tutto questo, così, all’improvviso? Perché è tutto così bello, struggente e pare ben avviato, se non destinato proprio a non finire mai?”

“Credo di sapere perché”, rispose il marito. “Lo vuoi sapere?”

“Non so… forse è meglio…”

“Ti amo tantissimo, Carla”, la interruppe l’uomo.

“Anch’io… ma… non capisco… com’è che… che… ch… co… oddio balbetto!”

“Mi sento un ragazzino. Pensi che quando mi scenderanno le catarratte e comincerò a puzzare di morte, anche allora…”

“Sarà così per sempre. Ne sono sicura. E anche se non lo fosse è come se lo fosse, quindi lo sarà. Ma cosa sto dicendo?”

“Sciocchezze.”

“Già…”

“E lo sai perché?”

“Perché sono felice.”

“Esatto.”

“E perché lo sono?”

“Un’idea ce l’ho. Vuoi saperlo? Davvero?”

“Perché?”

“Vieni con me”, e Carlo prese la moglie per mano. La portò laddove il prato finiva, a picco, sulla sconfinata foresta che circondava la loro casa.

“Sai scavare?”

“Scavare? Con… le unghie?”

“Usa questi”, disse Carlo cavando dalle tasche un paio di cucchiai. Era una bella giornata d’inizio ottobre. Il cielo era così bianco e abbacinante da ingoiarsi il sole e ogni pietra, ogni pianta, ogni frasca brillava di una luce intensa, purissima.

“Perché anche adesso che ho i polsi gonfi come plafoniere e le unghie rosse di sangue e nere di terra, radici e lombrichi, perché non smetto di essere raggiante, e piena di fiducia?”, mormorò la donna dopo molte ore che se ne stava lì, china, sudata, la schiena sconvolta da spasmi lancinanti.

“Ci siamo quasi”, decretò il marito. Ormai la giornata stava volgendo al termine e i due avevano scavato appena un paio di metri in profondità. Cominciava a gelare, dal bosco s’alzavano correnti fredde, profumate e un borbottio crescente di cervi, faine e civette.

“Eccolo”, disse Carlo indicando una protuberanza grigiastra che sbucava dal terriccio. “Vedi Carla… ti devo confessare una cosa. Ecco… molti anni fa sono stato … insomma… come dire… sono stato rapito dagli alieni…”

“Carlo… Cosa dici?”

“La verità. Ho aspettato perché temevo che potesse… insomma… distoglierci… ma adesso, ecco, adesso…”

“Gli alieni non esistono.”

“Certo che no, tesoro… Lo so benissimo. Ma quelli che hanno rapito me, beh, quegli alieni lì, sì… loro esistono… solo loro…”, rispose Carlo. Dopodiché grattò attorno alla protuberanza col culo del cucchiaio, affondò le mani nella piccola fossa e tirò fuori un teschio. Ricoperto da un’aureola di radici e con un codino di spina dorsale ancora attaccato alla nuca pareva quasi avesse i capelli. Lo sollevò e cominciò ad agitarlo al vento manco fosse un bandierone da parata:

“Capisci adesso? Capisci il perché… capisci?”

“Mettilo giù, Carlo. Ti prego, mi fa impressione.”

“Capisci?”

“Cosa devo capire?”

L’uomo avvicinò il teschio al volto della donna, che si ritrasse.

“Non ci vedi niente? Niente di familiare?”, disse Carlo afferrando la mascella del teschio e cominciando a muoverla in su e in giù.

“Lo vedi?”, chiese l’uomo.

“Certo che lo vedo.”

“Sono io.”

“E’ un teschio, Carlo!”

“Il mio.”

“Carlo, ti prego… ragiona… fai un respiro e…”

“Ragiona tu!”

“Tu non hai la testa di quella forma, tu non hai…”

“Sono io. Capisci adesso?”

“Ti prego smettila… smettila!”

“Sono io.”

“Lo vedi che è il cranio di un coso…”

“Sono io.”

“…di un volpino… un ghiro… d’un animale…”

“E’ il mio, mio, mio!”

“Tu, tu… tu sei matto e matta io che ho voluto… Carlo cosa ti è successo? Che sta succedendo? Cosa?!?!”, urlò la donna e poi si mise a correre per il prato, agitando le braccia in aria come un ossesso, velocissima, oltre le casa – la loro casetta cinta d’edera e con le braci ancora fumanti nel focolare – e poi via lontana, uno straccio urlante lungo la statale, verso il paese, la città.

“Sono io!”, continuava a strillare Carlo. Da quel giorno non si parlarono mai più. Carlo si portò il teschio a casa e lo mise sopra il camino. Talvolta, nei pomeriggi più cupi, quando il cielo strozzava l’orizzonte, la neve cadeva forte e la solitudine era un cappio troppo soffocante, ci faceva conversazione. Carla cominciò – e invano continuò a tentare, con dignitosa disperazione, sino alla fine dei suoi giorni… – a chiamare il secondogenito per nome, a volte Filippo, a volte Francesco, a volte Federico, un po’ come si fa coi cagnolini randagi per indovinare quale è lo stimolo giusto, ma soprattutto fece una gran fatica, una fatica maledetta, a farsi accogliere nuovamente nell’inferocita cerchia di parenti ed amici.

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5 Commenti

  1. Bello fresco vero e sorprendente. Parla di superamento del limite, di assoluto, di rifiuto, di regole e di normalità.

  2. Il primo sentimento che ho provato è stato di sconcerto, ma poi è prevalsa la riflessione sulla condizione umana, o meglio sull’alienazione umana che viene cosi ben descritta. complimenti: un bellissimo racconto.

  3. una narrazione vivace e un racconto che m’ha suonato (anche se suonato lo ero già prima, in verità) più surreale che fantastico, nonché più filosofico che irrazionale (anche se non è escluso a priori che le due cose ci vengano incontro passeggiando a braccetto). la prosa un po’ naif, o comunque vagamente “illuminata” dall’occhio acuto di un adulto bambino, ricorda il piglio di Rodari (tra i più grandi e più sottovalutati scrittori italiani di sempre) e traduce in modo eccellente lo spaesamento del luogo comune “di fronte all’incomprensibile e al meraviglioso” che in parole povere altro non è se non la realtà soggettiva percepita dai nostri cervelli.
    : ))
    traggo, dunque, dal corpo testo così com’e narrato, tutta una serie di considerazioni che più che “verità” sulla natura dell’amore, della felicità e della follia restano essenzialmente intuizioni problematiche cui l’autore in modo saggio e pure divertito non s’arrischia a dare la forma di “morale” della favola. ergo, potrebbe essere che per vivere un vita e un amore entusiasmante, ovvero per essere felici, si debba prima essere capaci di impazzire, potrebbe essere che la follia sia contagiosa ma che esistano comunque dei limiti fisiologici alla complicità (pisciarsi addosso sì, ma accettare di essere un mammifero, sì insomma un animale come un altro no), potrebbe essere che dare un nome alle cose (Filippo, Francesco o Federico) ci rassicuri al punto di illuderci che le cose stiano proprio così, ovvero che la società umana – più o meno ristretta cerchia di parenti e amici – si fondi su un sistema di convenzioni lessicali più che giuridiche (siamo fatti, strafatti di nomi e di parole ancor più che di carboidrati, proteine e acidi nucleici) e, da ultimo, potrebbe essere che pochi fatti siano più alieni dei nostri pensieri (da cui assai spesso veniamo rapiti). eh, potrebbe essere, ma senza parole, non è comunque detto che sia…
    complimenti “ a perdita d’occhio” all’autore
    : )

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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