divagazioni sulle viole passando per l’inerzia
A prestar fede al dizionario etimologico on-line della lingua italiana la viola strumento musicale e la viola fiore risalgono a etimi differenti: la prima risale al latino vitula e al verbo vitulari, che sarebbe come dire “fare come il vitello”, cioè “sgambettare allegramente”, s’intende al suono dello strumento, mentre la seconda accezione risale, attraverso il latino viola, alla parola greca per indicare per l’appunto il fiore, la violetta, ἴον; presente già in Omero, ben s’intende. Mi pare di aver visto che la prima occorrenza — sia pure in una parola composta — stia nell’undicesimo canto dell’Iliade, in cui si narrano varie imprese di Agamennone, sempre in giro con la sua superba protervia. Sennonché ad un certo punto Ettore, visto il momentaneo allontanarsi del capo greco, incita i Troiani alla battaglia e comincia ad imperversare lui nel campo nemico; come si sa, nella narrazione di queste battaglie non si risparmia il sangue cruentemente versato: citerò qui qualche verso, s’intende nella nostra traduzione preferita:
«Simile ad un cacciatore, se i cani di candide zanne
eccita contro un cinghiale selvatico, contro un leone,
tale i Troiani magnanimi allora aizzò sugli Achei
Ettore figlio di Priamo, un Ares che impiaga i mortali.
Egli fra i primi campioni con fieri propositi corse,
e s’avventò nella mischia, eguale a ventosa tempesta
che sopra il mare violaceo s’abbatte e così lo sconvolge.»
(Omero, Iliade, traduzione (isometra) e cura di Daniele Ventre, Mesogea, Messina 2010, canto XI, vv. 292-98)
e giù un elenco di greci trasferiti rapidamente nell’Ade.
È quell’aggettivo “violaceo” che traduce l’aggettivo greco ἰοειδής, ovvero “dall’aspetto viola”, nel senso del colore che deriva naturalmente dall’aspetto del fiore. Del resto è la stessa parola di cui si servì il noto (a generazioni di studenti) chimico francese Joseph-Louis Gay-Lussac nel 1812 per dare un nome all’elemento chimico iodio appena isolato, alludendo al fatto che i suoi vapori erano appunto violacei.
La viola è stata del tutto trascurata da Dante ― una sola menzione nella Commedia in uno dei canti più misteriosamente allegorici del Purgatorio, il XXXII, e una menzione di una altrettanto misteriosa “donna Violetta” nelle Rime ―, molto utilizzata da Petrarca nel Canzoniere, e poi, saltando qualche altro secolo, molto presente nelle opere di Shakespeare. Ormai il Bardo è talmente studiato che nulla si può dire che già non sia superanalizzato anche in rete: se ad esempio volete sapere tutto delle violette nelle sue opere, c’è un’apposita sezione del sito della Americam Violet Society, questa, che si occupa specificamente delle violette in Shakespeare. Non menziona però, questo sito, un luogo shakespeariano in cui una specifica ― o almeno così sembra ― varietà di viola viene menzionata, ma indicata con un altro nome. Si tratta della molto simpatica viola tricolor che vedete nell’immagine in testa a questo post, e che, quando la trovate nell’erba, ha l’aria di occhieggiare intorno con aria curiosa. Il motivo che la rende interessante ai miei occhi è che ha a che fare con l’inerzia (ricordate? L’inerzia o qui . . .)
Nel Sogno di una notte di mezza estate, assai piacevole commedia composta sembra nell’ultimo decennio del XVI° secolo, compare infatti una sorta di inerzia nel nome di un fiore. Oberon, re degli elfi e delle fate, desidera strappare a Titania, la sua regina, un giovinetto che ella ha molto caro e che non gli vorrebbe cedere ad alcun costo. Ma Oberon una volta ha visto Cupido lanciare una delle sue ben note frecce e sbagliare il bersaglio; quella volta infatti la freccia era caduta tra i fiori e ne aveva in particolare colpito uno, un fiorellino occidentale, un tempo bianco come il latte, ora rosso di ferita d’amore, quello che – dice Oberon – le fanciulle chiamano “love-in-idleness”:
“a little western flower ,
before milk-white, now purple with love’s wound,
and maidens call it Love-in-idleness.”
(Sogno di una notte di mezza estate, atto II, scena I)
Si capisce facilmente come il succo di un tale fiore, abbia ereditato le proprietà delle frecce di Cupido e quindi, se opportunamente sparso sulle palpebre di qualsiasi dormiente creatura, susciti in costui, o costei, un irresistibile amore per la prima altra creatura scorta al risveglio. Questo dà naturalmente modo a Oberon di tessere una serie di inganni e intrighi, aiutato anche da qualche sbadataggine del suo servente Puck, che condurranno, oltre che a un lieto fine, anche all’avverarsi del desiderio di Oberon, quello cioè di avere il giovane protetto di Titania. Il nome del fiore è proprio quello, dicono i commentatori più accreditati ― anche se qualche dubbio sarebbe lecito, vista la descrizione di colori che ne dà Shakespeare ― della viola tricolor che viene chiamata dagli inglesi “amore nell’ozio”, o forse dovremmo dire in distensione, in dolce far niente. E un altro nome per indicare lo stesso fiore è “heartsease”, ovvero “heart’s ease”, riposo, tranquillità del cuore. O forse ancora c’è un’allusione ad un amore dormiente nel succo del fiore, che però può sprigionarsi soltanto qualora ne vengano asperse le palpebre di un essere vivente.
E voi certo sapete anche, dato che quest’anno non è facile sfuggire alle celebrazioni del 450°, che nell’anno di nascita di Shakespeare era nato anche, circa due mesi prima, a Pisa piuttosto che a Stratford-upon-Avon, Galileo Galilei, che viene spesso indicato come l’inventore primo del principio d’inerzia, così detto.
Che naturalmente non è vero: o non così vero: Galileo formula, ragionando essenzialmente sul moto di biglie su piani più o meno inclinati, un principio nel quale il moto che si mantiene non è ben specificato, ma sembra essere quello circolare, non quello rettilineo uniforme; molto meglio, da questo punto di vista, Cartesio: proviamo infatti a leggere come questi articola la legge nella parte II dei suoi Principia philosophiae: anzitutto egli introduce l’idea di regulæ quædam sive leges naturæ, che possono essere conosciute e sono cause secondarie e particolari dei diversi moti. E di queste leggi di natura
prima est, unamquamquam rem, quatenus est simplex et indivisa, manere quantum in se est in eodem semper statu, nec unquam mutari nisi a causis externis.
(§ 37). E cioè che una qualsiasi cosa, nella misura in cui è semplice ed indivisa, rimane per quanto sta in lei sempre nel medesimo stato, potendo cambiarlo solo per cause esterne. Ma quel che più conta è la ulteriore precisazione fornita nel § 39:
Altera lex naturæ est; unamquamquam partem materiæ seorsim spectatam, non tendere unquam ut secundum ullas lineas obliquas pergat moveri, sed tantum modo secundum rectas
abbiamo cioè una seconda legge di natura secondo la quale una qualsiasi parte di materia, sempre considerata separatamente dal resto, mai si muoverà secondo linee curve, ma soltanto secondo linee rette. Un enunciato più preciso della cosiddetta legge d’inerzia. I Renati Descartes Principia philosophiæ (se si vuole sono consultabili integralmente in rete qui) furono pubblicati in latino ad Amsterdam dall’editore Louis Elzevier nel 1644 ― Newton aveva due anni ― e tradotti in francese dal cosiddetto abbé Claude Picot (in realtà un libero pensatore buon amico di Descartes) e pubblicati a Parigi dall’editore Henri le Gras nel 1647 col titolo Les Principes de la Philosophie. Delle parole così chiare Galileo, che era morto nel 1642, non le aveva mai dette, neppure nel Dialogo dei Massimi Sistemi, opera per la quale subì gli ingiusti maltrattamenti che sappiamo. Se andate ad esempio a pagina 211 dell’edizione ― magnificamente curata da Libero Sosio per Einaudi ― del Dialogo, in rete qui, trovate tutto un complicato ragionamento su una supposta traiettoria di un grave che cada da una torre, completamente fasullo, e che per giunta l’autore pretende di “dimostrare”.
Il fatto è che le idee intuitive che gli uomini di scienza della prima modernità hanno cominciato a formarsi erano forzatamente basate ancora su concezioni antiche ― che peraltro costituiscono ancora il fondamento profondo della mentalità dell’uomo contemporaneo. Il primo passo necessario per impadronirsi dei metodi della fisica e della meccanica in particolare, anche soltanto classica, cioè newtoniana e ottocentesca, è comunque un primo allontanamento dall’intuizione di base di Homo Sapiens. Non a caso ci sono voluti millenni per superare Aristotele e quindi l’idea che “un corpo si muove soltanto finché c’è qualcosa che lo spinge”. Nel periodo rinascimentale e immediatamente post-rinascimentale si è finalmente, con fatiche, errori e approssimazioni, consumato un superamento, che si è consolidato con Newton e con i grandi meccanici del Settecento e gli uomini che hanno contribuito a tale consolidamento hanno portato ciascuno un qualche mattone al prodotto finale. Sempre più occorre convincersi che qualsiasi disputa su supposte priorità di invenzione nella storia della scienza è destinata a dimostrarsi futile e poco interessante.
Per la qual ragione, convien forse tornare alla profumata violetta, ad esempio quella del Sonetto XCIX:
The forward violet thus did I chide:
Sweet thief, whence didst thou steal thy sweet that smells,
If not from my love’s breath? The purple pride
Which on thy soft cheek for complexion dwells
In my love’s veins thou hast too grossly dy’d.
The lily I condemned for thy hand,
And buds of marjoram had stol’n thy hair;
The roses fearfully on thorns did stand,
One blushing shame, another white despair;
A third, nor red nor white, had stol’n of both,
And to his robbery had annex’d thy breath;
But, for his theft, in pride of all his growth
A vengeful canker eat him up to death.More flowers I noted, yet I none could see
But sweet or colour it had stol’n from thee.
e nella traduzione di Giuseppe Ungaretti:
Sgridai così la primaticcia viola:
Ladra dolce, di dove la dolcezza tua fragrante fu involata
Se non dal fiato del mio amore? Lo splendore purpureo
Che nella tenera tua gota vive per colorirla,
Troppo palesemente tolse a vene del mio amore la tua tinta.
Colsi per la tua mano in fallo il giglio;
Hanno i germogli della maggiorana, i tuoi capelli derubato;
Le rose sulle spine si erigevano timide,
Questa di vergogna arrossendo e quella, di disperazione bianca;
Una terza, né rossa né bianca, frodate entrambe,
Alla rapina ha annesso il tuo respiro;
Ma al colmo di rigoglio, in causa del suo furto
Un cancro vindice la roda a morte.
Notai tanti altri fiori, ma non potei scorgerne alcuno
Che fragranza o colore non avesse carpito a te.
[Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo IV, 40 sonetti di Shakespeare, Mondadori, Verona 1956 (III ed.)]
I commenti a questo post sono chiusi
Grande sfoggio di elevatissima cultura, Antonio Sparzani, ed evidente assidua frequentazione di viole, violette, viole d’amore: in ambito familiare, si suppone, o in qualità di ex-ex-ex scienziato. Ci sono anche molti preti ed ex-ex-ex preti, con spropositate ambizioni artistiche, e con un ego fagocitante. Si ricordano, talvolta, di essere icone di Cristo?
⇨ Alfred Kraus “Le violette” Alessandro Scarlatti
[da Pirro e Demetrio 1694]
,\\’
grazie Orsola, Alfred Kraus è (stato) sempre un grande.
un pezzo di grande eleganza intellettuale
grazie Antonio, V.
gran pezzo partecipato di storia contemporanea sotto copertura(una “Lettera semiseria di Grisostomo a suo figlio” 2.0, per capirci)
acuta osservazione, caro diamante, grazie per l’accostamento a Berchet.
gran pezzo Antò
effeffe
La viola mi piace: cresce su cuori in pena.
La sua bellezza non nasconde la sua melanconia
Il nostro sguardo melancolico.
Grazie per lo storico della lingua.
Molto bello la scelta del sentiero per trovare un senso alla viola.
Malinconia- ho unito la parola francese con la parola italiana.
Sparz vola sempre alto, per fortuna, in questa landa paludosa dove si svolacchia sgraziati e scaleni!
O Sparz che gran cosa l’unita’ del sapere, e degli intenti, e dei sentimenti…
Salviati: […] Ora ditemi quel che accaderebbe del medesimo mobile sopra una superficie che non fusse né acclive né declive.
Simplicio: Qui bisogna ch’io pensi un poco alla risposta. Non vi essendo declività, non vi può essere inclinazione naturale al moto, e non vi essendo acclività, non vi può esser resistenza all’esser mosso, talché verrebbe ad essere indifferente tra la propensione e la resistenza al moto: parmi dunque che e’ dovrebbe restarvi naturalmente fermo. Ma io sono smemorato, perché non è molto che ’l signor Sagredo mi fece intender che cosí seguirebbe.
Salviati: Cosí credo, quando altri ve lo posasse fermo; ma se gli fusse dato impeto verso qualche parte, che seguirebbe?
Simplicio: Seguirebbe il muoversi verso quella parte.
Salviati: Ma di che sorte di movimento? di continuamente accelerato, come ne’ piani declivi, o di successivamente ritardato, come negli acclivi?
Simplicio: Io non ci so scorgere causa di accelerazione né di ritardamento, non vi essendo né declività né acclività.
Salviati: Sì. Ma se non vi fusse causa di ritardamento, molto meno vi dovrebbe esser di quiete: quanto dunque vorreste voi che il mobile durasse a muoversi?
Simplicio: Tanto quanto durasse la lunghezza di quella superficie né erta né china.
[Pagina 186 dell’edizione citata sopra]