La zecca e la malacarne

di Alessandro Dal Lago

( questa è la prefazione di Alessandro Dal Lago al romanzo di Pino Tripodi La zecca e la malacarne uscito per Milieu in questi giorni, g.m.)

 

Il Sud è sempre possibile. Si può sempre diventare un Sud, remoto ed estraneo al mondo che conta, come hanno scoperto amaramente i cittadini greci, costretti dall’Europa (burocratica, legalitaria, spietata con i deboli) a pagare debiti che non hanno contratto e a essere governati dai politici che li hanno trascinati nel baratro per interesse e stupidità. Chi pensava che l’Europa fosse una madre generosa e ospitale, capace di accordare finlandesi e spagnoli, olandesi e italiani, francesi e tedeschi, danesi e greci, è servito. Dietro la maschera bonaria di Frau Merkel, Hollande e Renzi, per non parlare degli alti papaveri e burocrati europei che nessuno ha eletto, c’è la contabilità fredda e feroce degli interessi finanziari, cioè del capitale globale nella sua versione più immateriale e al tempo stesso più letale. Nessuno degli statisti citati ha mai avuto nulla da dire di significativo sulla bolla speculativa e sulla decina di banche americane, inglesi e tedesche che strozzano l’economia reale dei paesi indebitati. Ma sono prontissimi, al primo schiocco di dita delle agenzie di rating, a tagliare bilanci, salari e pensioni. Un sistema di riduzione dei bisogni umani sino all’osso, alla fame, alla mancanza di latte dei bambini greci, che tutti, nell’opinione pubblica che conta, accolgono con un’alzata di spalle, e nessuno osa chiamare criminale.

Ma noi in Italia, si sa, abbiamo il nostro Sud, che non assomiglia a nessun altro, in Europa. Un paradiso terrestre di palme, spiagge, isole e città incantevoli sotto il cielo sfolgorante – per i turisti che sbarcano da qualche volo low cost e riempiono campeggi, club e alberghi. Per chi ci vive da sempre, invece, le cose sono un po’ diverse. Nelle periferie, invisibili dalle autostrade, l’acqua sporca tracima dai canali di scolo e dalle fogne a cielo aperto. Dovunque spuntano viadotti che non portano da nessuna parte. Gli orrendi quartieri “residenziali”, progettati da architetti di grido (come lo Zen di Palermo, opera di Gregotti, o il Librino di Catania, progettato da Kenzo Tange), si degradano tra spaccio, miseria e disoccupazione. Nelle campagne, i nuovi schiavi (marocchini, senegalesi, rumeni e, di nuovo, italiani) si rompono la schiena per dieci Euro al giorno. I ragazzi studiano, ma poi, per non restare a ciondolare tra famiglia, bar e videogiochi, se la filano appena possono, al nord e ancora meglio in Germania o Inghilterra, dove la loro laurea non servirà a granché in una pizzeria.

E soprattutto, in almeno quattro regioni italiane, si può avvertire, se proprio non si è ciechi e sordi (e muti), la presenza di un potere, economico, politico e amministrativo, onnipresente, talvolta impalpabile e talvolta ingombrante come un’occupazione militare. Perché il posteggiatore abusivo, a cui voi date due Euro al giorno, ne consegna uno e cinquanta a un tizio che compare di sera, immancabilmente? Chi raccoglie i soldi dell’eroina e che fine fanno? Perché, in una città di media grandezza, in cui i turisti arrivano solo per sbaglio, apre un negozio, che nemmeno a Milano in via Montenapoleone si vede? Chi comprerà quel vestito da 2000 Euro, quelle scarpe da 800? Perché un ristorante, sempre vuoto, rimane aperto? E perché, se un paesotto è così tranquillo, sonnolento, pacifico, tra muri imbiancati a calce, bouganvillee  e ficus che ombreggiano la piazzetta, due o tre volte all’anno qualcuno si fa trovare ammazzato in un viottolo o su un marciapiede?

Immagini banali della mafia, certamente. Ma questa, come la camorra o la ndrangheta o la varie corone unite, vecchie e nuove, è banale come un’abitudine. Ma è un’abitudine cognitiva, comunicativa e politica che ha la strana caratteristica di scomparire dal nostro orizzonte, di scolorirsi e sfumare, quanto più se ne parla, quanto più è presente e oggetto di una retorica incessante. Come si dice nelle note iniziali di questo libro, il crimine organizzato è “un alibi che giustifica e assolve tutte le malattie degenerative degli uomini e della società del Sud”. Se il Sud è quello che è, economicamente marginale, privo di infrastrutture decenti, di imprese degne di questo nome, di centri direzionali pulsanti, di effervescenza sociale e politica – è inevitabilmente colpa delle mafie. Ora, ci sarà anche una piccola verità in questo, ma come è possibile che, dai tempi di Minghetti e poi di Sonnino, le mafie siano sempre responsabili dello storico ritardo del Sud e, di conseguenza, delle molte magagne italiane? Perché questa causa non è stata eliminata in  centocinquant’anni, visto che gli effetti ancora ci ammorbano? E chi avrebbe dovuto farlo? Chiunque comprende che qui non si è di fronte a una rimozione, ma, al contrario, a una sorta di risorsa argomentativa (tra il fatalismo e una colpevolizzazione del tutto superficiale), che permette di non cambiare mai nulla. Ma se è così, eccoci davanti a un’ideologia che, come tutte le ideologie di questo mondo, copre o almeno traveste degli interessi.

 

Questo libro – romanzo nella forma di un ritorno al sud e della fondazione di un giornale immaginario – è anche un saggio, un discorso sulla mafia (la “zecca”) e l’ambiente in cui essa si forma e prospera (la “malacarne”) che non concede nulla allo stile delle pseudo-inchieste giornalistiche, più o meno romanzate, che da diversi anni pretendono di dirci l’ultima parola o verità sulla mafia (o la camorra), con il risultato di non farci sapere alcunché, ma di trasmetterci l’immagine assai confortante del giornalista o dello scrittore-eroe (“ecco finalmente qualcuno che rompe il velo di omertà!”). E nemmeno si troveranno qui  trame inestricabili che si sciolgono in una verità consolatoria, secondo quel modello assai modaiolo del thriller o del giallo, con cui la realtà complicata del mondo viene ridotta a monotona quête du Graal o a oggetto di nobile dovere professionale. Qui non si troveranno né eroici scrittori, né commissari di polizia democratici, né il nuovo folklore meridionale che fa da sfondo a qualsiasi rappresentazione letteraria o mediale del crimine organizzato. Come dice a un certo punto un personaggio di questo libro: “Ridurre la letteratura e il giornalismo e la letteratura italiana a una velina dei carabinieri è stato un grande affare ma ha recato non pochi danni alla verità e alla cultura. Ma agli scrittori che usano fare romanzi e saggi a suon di veline presto prevedo gli si seccheranno le mani.”

A ben vedere, il gran proliferare di commissari Montalbano, marescialli bonari e poliziotti dal volto umano – per non parlare di giudici integerrimi, giornalisti assetati di verità e simili dramatis personae di comune uso mediale – svolge una evidente funzione di rassicurazione agli occhi dell’opinione pubblica. Una schiera di figurine colorate che finiscono per rappresentare la società “buona” e “sana” contrapposta a quella dei malvagi mafiosi e camorristi. Si crea così una “narrazione” (la parola è frusta, ma il senso è proprio questo) che accompagna stabilmente le vicende del crimine organizzato e ne occulta la natura e il significato. In luogo di un sistema specifico, che si radica nella storia, ma è capace di evolversi e di succhiare altro sangue in tutta Europa (se non nel mondo), la mafia apparirà come una caratteristica “antropologica” della gente del Sud, il prodotto di una terra “maledetta”, se non di atavismi – luoghi  c comuni che spesso sfociano nell’orientalismo di casa nostra e nel razzismo vero e proprio.

 

Raccontando, in quadri secchi e senza alcun compiacimento narrativo (ma con un linguaggio in cui si manifesta la profonda conoscenza di un modo di essere e dei suoi orizzonti), la vita quotidiana, l’evoluzione e le trasformazioni della mafia (e anche i tentativi di opposizione civile), Tripodi fa rivivere le trame di un’intera società e offre una riflessione in profondità su ciò che costituisce il fondamento del crimine organizzato. Non che in questo libro non ci sia un plot, una vicenda in cui, a metà tra la cronaca vera o verosimile e l’evocazione di emblemi, di figure caratteristiche, i personaggi agiscono, parlano e si confrontano fino allo scioglimento. Ma la storia di conflitti locali, modernizzazione criminale, vendette ecc. non esaurisce la narrazione, anche se la innerva. Consideriamo, per fare un esempio, l’intervista a uno dei personaggi principali, uno studente sopravvissuto a un agguato di mafia:

 

“La malacarne è un’organizzazione?

Non solo, fosse solo un’organizzazione si potrebbe distruggere con uno sputo d’asino.

Cos’è allora?

È una melma. Una pastetta infame nella quale le organizzazioni, le persone, le parole, le culture, gli atteggiamenti, i comportamenti si confondono tanto da rendersi indistinguibili. È una bestia che per nutrire se stessa fa deserto e infetta l’aria, l’acqua e il mare. È la merda che in una società giusta puzzerebbe come la merda e invece da noi luccica come l’oro. È l’insieme di tutti i vigliacchi, gli incapaci, i disonesti, gli ignoranti che pensano di diventare coraggiosi, abili, rispettabili, sapienti, profittando anche della più sporca briciola di potere. È l’interesse meschino che marcia calpestando la faccia di ciascuno di noi.”

 

L’interesse: ecco la parola chiave. Qui Pino Tripodi riporta il significato di qualsiasi organizzazione deviante alla sua natura profondamente sociale. Non sono il “retaggio” culturale, l’offerta di protezione, la latitanza dello stato ecc. che possono spiegare da soli l’anomalia del crimine organizzato. È l’insieme di modalità specifiche con cui gli interessi si organizzano su base locale, nazionale e globale in certi spazi geografici e sociali.

 

“La zecca in ambienti diversi dalla malacarne non sopravvive. La malacarne, al contrario, anche in assenza della zecca, è capace di riprodursi generando per partenogenesi altre tipologie di parassiti che si specializzano nel suo habitat.”

 

Con ciò, la tradizionale visione delle mafie come eccezione (in fondo come mistero storico…) è capovolta. Quella che appare come una devianza è in realtà un’antropologia diffusa quanto l’economia di mercato. È l’ossessione per gli interessi, la ricerca spasmodica del profitto a ogni costo, che può, in determinate circostanze, dar vita a organizzazioni e sistemi parassitari, cioè criminali. Non si spiegherebbe altrimenti l’osmosi della zecca con la massoneria, nonché la contiguità con i servizi segreti e gli interessi occulti di ogni tempo e luogo (perché mai gli alleati consegnarono la Sicilia nelle mani dei mafiosi, dopo la liberazione dal fascismo, se non per stroncare sul nascere qualsiasi tentativo di emancipazione sociale?).. Se vogliamo usare una parola che oggi sembra scomparsa dal lessico dominante, la malacarne non è che il capitalismo o, meglio, il suo spirito ubiquo – che non si rivela in etiche o atteggiamenti religiosi, ma nella sopraffazione quotidiana come strumento di guadagno.

Certo, nelle società in cui gli interessi sono istituzionalizzati, il tipico modo di procedere delle mafie non è accettabile. Dove comandano la finanza, le banche, le grandi burocrazie trans-nazionali e il capitale materiale e immateriale, dove il potere è gestito secondo forme apparentemente democratiche e condivise, le culture mafiose non possono avere un’evidenza pubblica. Le pseudo-regole dell’onore e del rispetto, con cui le mafie locali travestono la loro ferocia, vengono sostituire dalle procedure oggettive, “razionali” e anonime del mercato. Ma, al fondo, la realtà è la stessa. Ciò che accade nei consigli di amministrazione e nei retrobottega del potere economico e politico non è troppo diverso dalle riunioni di mafia o di camorra. La differenza principale sta nel fatto che i conflitti non vengono risolti con l’uso di fucili a canne mozze o con esplosioni spettacolari, ma ricorrendo alla diffamazione pubblica, alla rovina dei concorrenti, alle pugnalate simboliche alle spalle, all’emarginazione politica e, quando serve, a qualche discreta ammazzatina o suicidio apparente. La storia italiana, fin dai tempi di Giolitti, è un monotono susseguirsi di complotti, scalate finanziarie spericolate, corruzione di funzionari, tangenti e piani più o meno occulti per impedire qualsiasi cambiamento del sistema di potere. Spesso, in questo quadro, le mafie hanno partecipato e sono state incaricate di svolgere il lavoro più sporco. Ma pensare che siano solo loro responsabili di tutto ciò che è marcio e oscuro in questo paese sarebbe un errore capitale. Sarebbe, in poche parole, scambiare il sintomo con la causa.

Questo è un libro sulle mafie e sulla melma sociale in cui essere prosperano. Ma è anche un libro che parla di una società in cui l’interesse privato è ormai il solo criterio legittimo di giudizio e di valore. Insomma, parla di noi. E quindi, raccontando i normali delitti del nostro modo di vivere, richiama la necessità spasmodica di un’altra vita e di un’altra società.

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2 Commenti

  1. Caro Dal Lago, finalmente qualcosa di ineccepibile, finalmente fuori dalla nuova retorica fatta con le veline dei commissariati. Leggeremo il libro sperando sia all’altezza della sua introduzione onesta, fuori dagli schemi (consueti). Un grazie sentito a Biondillo.

  2. Chi abbandona il sud, chi oltraggia la sua bellezza, chi non riguarda mai il sud, condenna L’Europa a obliare la vita, la giovinezza, la cultura.

    Chi non affronta il male, chi non si preoccupa della mafia o la considera male italiano, un male di civilisazione ancestrale, peggio chi la considera come elemento pittoresco, sbaglia.

    Gomorra di Roberto Saviano ha aperto gli occhi dei lettori francesi.
    E’già prendere coscienza del male: vedere il sud reale, non immaginario.

    Tra i dirigenti europeani, chi si è impegnato per aiutare l’Italia?
    Chi protesta contro la vita blindata
    fata a giornalisti, magistrati?

    Tra i grandi intellettuali in Europa chi ha denunciato la vita infernale fatta a uno scrittore italiano (Roberto Saviano)?
    Una vergogna per noi europeani.

    Una petizione con grande firme non basta.

    Siamo presbiti per non osservare un paese vicino e non vedere un male rampicante?
    Marsiglia nuovo regolamento di conti ieri. Anche questo male è visto come figlio naturale della città.
    Poco a poco l’indignazione si perde nel fatalismo.

    Il sud è il nostro futuro, non solo un passato antico.
    La nostra esperanza per cambiare nostra Europa.

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